Vecchiaia, solitudine, riflessioni esistenziali, difficoltà intergenerazionali si intersecano ed interagiscono nel rapporto tra due figure opposte ma contigue, a confronto tra loro e con il micro-mondo circostante nell’oasi accogliente di un centro di vacanza immerso nella natura delle Alpi svizzere.
Poche cose accomunano Fred e Mick, una lunga amicizia ed una gloria ancora intatta, qualche presunto problema di prostata, una memoria barcollante, antiche contese d’amore, l’essere entrambi direttori di qualcosa. Oltre ad un corpo ormai in pieno declino e la brevità della prospettiva di vita. Ma molte sono le distanze: l’uno abituato al rigore dello spartito, alle geometrie musicali ed alle loro regole, all’estetica severa dell’armonia, al volo magico della composizione anche quando assume la forma di una canzone semplice, alla libertà recintata della bacchetta di direttore d’orchestra, l’altro classico prodotto del mondo sregolato del cinema, le cui colonne portanti sono la fantasia, la creatività, la trasgressività, la sospensione in attesa di un finale all’altezza che chiuda il cerchio. Ognuno ha i suoi assistenti: una figlia che alterna la carezza alla frusta, o vari collaboratori che si sfidano per fornire l’idea risolutiva.
Ma non c’è una “risoluzione” nella vecchiaia, in cui tutto oscilla nel tempo e diviene lontano come attraverso un binocolo impugnato al contrario, anche la giovinezza, quella giovinezza in cui ai ragazzi che galleggiano leggeri nel tempo il presente appare come una nitida montagna innevata a portata di occhio e di mano. Annaspando nel degrado del corpo e sotto il carico di un vissuto ingombrante, diventa allora irrinunciabile la ricerca della bellezza perduta o svanita tra ricordi senza contorni, che si materializza magicamente come epifania della donna più bella del mondo che entra con la sua smagliante carnalità sinuosa nella piscina (prima citazione felliniana: Anita nella Fontana di Trevi).
La paura dello sfilacciarsi della memoria, sia essa ricordo o sensazione inconscia, ci condiziona e ci amareggia, non solo perché è perdita, ma soprattutto perché è impossibilità di trasmettere ai nostri figli il patrimonio di esperienze vissute e quindi di annullarne ogni traccia (“il problema non è quello dei ricordi, quanto la sproporzione fra le cose che facciamo e quello che rimane”).
La comunicazione è lo strumento che tiene vivo lo scambio delle riflessioni e dà colori cangianti ai rispettivi vissuti, rianima o rivela antichi segreti, illumina di senso antichi tracciati. Gli sguardi dei due interlocutori si incrociano e si interrogano, si scavano e si sfidano, come sul silenzio di una coppia che sembra emotivamente inerte perché non c’è la parola tra loro; ma la comunicazione non può ridursi a parola, con la sua concettualità definita, la sua incapacità di esprimere e trasmettere i più sfuggenti refoli di irrazionalità; uno schiaffo ed un rapporto “folle” nella natura piena di suoni che non sono fonemi umani possono significare più di ogni scambio verbale.
Già, gli sguardi, spesso mostrano ma non rivelano: quello acquoso, incorniciato in occhiali angolari e seriosi sotto un cappello a falda abbassata e sopra una pesante giacca abbottonata (seconda citazione del Fellini come figura pubblica), circondato da una selva di rughe ondulate, sembra denotare imperturbabilità, immobilità, rassegnazione, ma sarà lui, il direttore d’orchestra in pensione, a chiudere il viaggio con un ritorno ai fasti passati che diventa “rinascita”. L’altro sguardo, incastonato in giovanili tondeggianti Ray Ban, vispo e in cerca di nuove idee, sprizza voglia di futuro e di nuovi stimoli, ma sarà lui, il regista acclamato, a dare un finale imprevisto e involutivo al suo travagliato film.
Attorno ai due si snoda l’esistenza di un’umanità dai marchi e dai destini diversi e che incarnano malinconia, leggerezza, fobie, superficialità, dubbio, trasformazione, insomma la summa della realtà umana in tutta la sua gamma di possibilità e multivettorialità: come il grande campione che fu, ormai sfatto e ossessionato dal suo piede sinistro ancora infallibile, la giovane escort indotta dalla madre a dare qualche attimo di vitalità a vecchi danarosi, l’attore famoso per le performance di robot, che sceglie di rappresentare il meglio anziché il noto peggio di un personaggio immortalato dalla Storia per la sua scelleratezza, i vecchi immobili nella sauna nebbiosa che non hanno nulla da comunicarsi se non la loro irrilevanza esistenziale (terza citazione da Fellini: la scena cupa nel bagno termale del Satyricon).
Alla fine del viaggio in questo pezzo di umanità ( e della rivisitazione critica del proprio mosaico interiore), Fred riapre la porta autoblindata del suo passato e si concede un bis di se stesso nella sua composizione più bella. E più semplice. Per dire che, se la vita è fiction secondo la definizione dell’amico Mick, forse non è così complicata come ci sembra. Forse è come una Canzone Semplice. Forse è come lo sfondo bianco su cui si staglia l’orchestra-umanità polistrumentale. Forse dipende solo da come la si interpreta.
Tutto questo ci rappresenta Sorrentino con la gigantesca potenza visiva delle sue immagini, supportato dall’estro compositivo del direttore della fotografia Luca Bigazzi. Non c’è nulla di vuotamente estetizzante (come in parte era accaduto nel finale della Grande bellezza), nulla di superfluo rispetto all’intento di fornire una descrizione di un’umanità sbandata, disorientata in perenne ricerca di una ricchezza di sé da accumulare o da utilizzare o da difendere, a seconda del contingente segmento di tempo. La critica sociale cede il passo alla comprensione, all’affettuosa, tenera vicinanza a chi come Giano si ponga il problema di conciliare le due visioni (passato e futuro) in una sintesi che, attraverso il gioco delle nascite e rinascite, dia senso compiuto alle proprie scelte.
Le immagini generano e veicolano il percorso emotivo molto più dei dialoghi, che peraltro coronano degnamente il contesto visivo: splendido il breve monologo sul desiderio dell’attore nei panni hitleriani, toccante la montante reprimenda tra lacrime a stento trattenute della figlia di Fred, che scorre tra devota ammirazione e sottili risentimenti. L’uso magistrale dei primi piani, il ricorso ad elementi simbolici e plurivalenti come l’acqua (la bellezza intrinseca delle luci riflesse nell’acqua alta di Venezia, la capacità perturbante nel sogno dell’affondamento, l’effetto deformante in piscina), lo stile raffinato e fantasmagorico, la temerarietà mai spigolosa nei passaggi repentini di registro tra dramma, ironia e visionarietà, fanno di Sorrentino il grande maestro della poetica del disagio esistenziale tramite la forza d’urto dell’Immagine, generatrice di un immaginario che non porta all’identificazione diretta nei personaggi ma ci fa pensare alla condizione di incompiutezza del genere umano, nel cui caos direttamente o nascosta tra le pieghe dell’apparentemente impercettibile puoi sempre trovare –a compensazione- la Bellezza nelle sue infinite forme.
Come quella di una giovane massaggiatrice che non aspirerà mai a Miss Universo, ma sa vibrare di grazia e morbidezza grazie alla scoperta della propria femminilità tramite il contatto con il corpo benché avvizzito dei suoi clienti ed alla cosciente assimilazione del meglio che la realtà circostante ci offre ogni giorno.
Oltre ad un cast superbo, tra i protagonisti assoluti è la colonna sonora (“La musica non ha bisogno delle parole né delle esperienze. La musica c’è..”), emotivamente culminante nella splendida Simple Song di David Lang, nella travolgente interpretazione del soprano Sumi Jo.
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