Damiano Damiani è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, scenografo, è nato il 23 luglio 1922 a Pordenone (Italia) ed è morto il 7 marzo 2013 all'età di 90 anni a Roma (Italia).
Anche Damiani, che esordisce nel 1960 con Il rossetto, ha una carriera registica simile a quella di tutti coloro che dirigono il loro primo film dopo una decina d'anni di apprendistato come sceneggiatori e aiuto-registi. Le tensioni stilistiche, che pure si notano nei primi film, lasciano rapidamente il posto a un rapporto dialettico con la produzione e il mercato. Damiani punta a realizzare soggetti che possano riscuotere il consenso sia della critica che del pubblico. Opere in cui la capacità di approfondimento psicologico dei personaggi, la carica di denuncia, l'impegno civile si realizzano nel rispetto di alcune fondamentali regole espressive e spettacolari. Il regista raggiunge il proprio standard e i temi che più lo interessano dopo aver lavorato, in varie direzioni, con risultati sempre professionalmente dignitosi. Nell'insieme, mentre non è facile definire le linee di una «poetica», è possibile riconoscergli una capacità di lavorare e di assecondare le esigenze produttive sulla base di determinati presupposti e condizioni e definirlo opportunamente come «il più americano dei registi italiani». Damiani eredita dal cinema in cui ha mosso i primi passi la convinzione della sua incidenza nella formazione della coscienza politica e civile. I suoi film, pur spesso congegnati come ottime macchine narrative, puntano a lasciare residui e tracce che vadano oltre la durata dell'intreccio.
In trent'anni di attività è riuscito a realizzare, con discreta regolarità, quasi un'opera all'anno. Negli anni Sessanta si rivela un buon interprete di testi letterari: L'isola di Arturo (1962) è tratto dal romanzo omonimo di Elsa Morante e La noia (1963) dal best seller di Moravia di soli tre anni prima; ma anche un attento osservatore ora amaro, ora ironico, di psicologie, di comportamenti individuali e di gruppo. La rimpatriata del 1962 è un film che avrebbe potuto benissimo essere firmato da Pietrangeli.
Come molti, anche lui viene trascinato nel fiume della produzione western e realizza, a dieci anni di distanza l'uno dall'altro, due western degni di essere ricordati: Quìén sabe? nel 1967 e Un genio, due compari e un pollo nel 1976. Mentre il primo esplora una nuova strada, al di là di quella del mito, rivisitata da Leone, accarezzando e facendo proprie le istanze e le pulsioni terzomondiste e rivoluzionarie di Franco Solinas («Non comprare pane, ragazzo, compra dinamite!»), facendone emergere tra i primi le possibilità ideologiche, il secondo è ormai avventura e divertimento allo stato puro. Oltre a essere un ottimo direttore d'attori Damiani ha avuto importanti collaboratori per le sceneggiature, Cesare Zavattini, Ennio De Concini, Nicola Badalucco, Ugo Pirro, per le musiche, Giovanni Fusco, Ennio Morricone, Riz Ortolani, Luis Bacalov, per la fotografia, Tonino Belli Colli, Marcelle Gatti, Vittorio Storaro...
Dalla fine degli anni Sessanta l'incontro con i temi della narrativa di Leonardo Sciascia (II giorno della civetta, 1968) lo spingono a porre al centro della sua attenzione la Sicilia. A Damiani non interessa il facile folklore dell'immagine dell'isola e dei suoi abitanti offerta dalla commedia; nel mirino pone subito il tema della mafia e dei suoi rapporti con il potere politico, giudiziario e amministrativo. Le opere su questo argomento, anche se non sempre raggiungono identici risultati, non hanno nulla da temere al confronto con i migliori prodotti del film gangsteristico americano del dopoguerra. La moglie più bella (1970), Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica (1971), Perché si uccide un magistrato (1975) sono i titoli più significativi. Al centro l'opera più compatta e più coraggiosa. Perché si uccide un magistrato e alcuni film più recenti dimostrano una maggiore concessione alle ragioni produttive e una perdita di forza narrativa, dovuta anche, con ogni probabilità, al prevalere della violenza della realtà su qualsiasi ipotesi e qualsiasi previsione, per quanto azzardata e oltraggiosa.
Alcuni dei suoi film, che più o meno indirettamente si svolgono nel segno di Sciascia - dal Giorno della civetta a Un uomo in ginocchio o Pizza Connection, dalla prima serie televisiva della Piovra al Sole buio girato verso la fine degli anni Ottanta (storia d'amore e droga in una Palermo ormai alla deriva rispetto alla società civile) - si possono leggere come puntate successive di un unico grande racconto. Damiani segue un percorso parallelo a quello di Rosi nel raccontare la diramazione nazionale e internazionale della mafia, il suo trasformarsi e mutare da struttura artigianale a grande impresa multinazionale. E segue con tale costanza e con intelligenza e coraggio le dinamiche del fenomeno mafioso da proiettarsi poco alla volta quasi autobiograficamente nelle figure di alcuni personaggi. Nei suoi film racconta delle storie di mafia con lo stesso spirito che ha animato alcuni grandi narratori del cinema americano del dopoguerra (da Huston ad Aldrich, da Siegel, a Dmytryck, al primo Kazan), ne possiede analoghi senso del ritmo, secchezza, capacità di definire con pochi tratti i personaggi, gusto per i meccanismi dell'azione. Molto vicino a Eastwood-Siegel è Io ho paura del 1977 in cui è ripreso il motivo del poliziotto che decide di farsi giustizia da solo, mentre nel filone non gangsteristico-mafioso sono da ricordare Amityville Possession - un omaggio al filone demoniaco del cinema americano - e L'inchiesta, ricostruzione del processo a Gesù a tre anni dalla sua crocifissione, un soggetto scritto negli anni Sessanta da Ennio Flaiano. Nel 1992 gira L'angelo con la pistola, che nella sua rappresentazione di una giovanissima cameriera che diventa «giustizierà della notte» un po' sembra ispirato da Abel Ferrara, un po' da Lue Besson di Nikita, ma nel complesso non riesce a convincere né sul piano drammaturgico, né su quello narrativo. Negli anni Novanta lavora molto per la televisione e poi torna al cinema con un'opera sgangherata, che sembra un patchwork di molti prodotti simili nati per la televisione, accogliendo la sfida di far recitare Alberto Tomba in Alex, l'ariete. Il miracolo non gli riesce.
Dei registi della sua generazione Damiani è quello che con più coerenza ha saputo lavorare all'interno di strutture codificate dei generi, lavorando sugli stereotipi, ma anche denunciandoli, modificandone continuamente il senso, riuscendo a capire il pubblico, a realizzare dei prodotti di qualità senza rinunciare al proprio stile e ai soggetti spesso scomodi che intendeva affrontare.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
«Non ho mai fatto parte di alcun partito, né di alcun gruppo. Ho sempre vissuto in mezzo ad amici comunisti, rattristato dal fatto che con loro non si potesse mai parlare di quel che accadeva al di là del muro, o nell’Unione Sovietica: la mancanza di libertà laggiù mi sembrava non comprensibile, non giustificabile. Ho pensato che, se fosse vissuto qualche anno in più, Enrico Berlinguer avrebbe preso le distanze dal comunismo realizzato e tradito da Stalin e dai suoi eredi. Aveva cominciato a farlo, negli ultimi viaggi a Mosca, avevo capito che anche lui stava per compiere lo strappo da quel modello, fallito, di società. L’unico uomo politico che io abbia veramente ammirato si chiamava Ferruccio Parri, andavo a sentirlo parlare, quando ero ragazzo, passeggiavo a piedi dalle parti di piazza Condusio, in una Milano in apparenza vuota e desolata, appena riconquistata dopo la Liberazione. Mi piaceva il Partito d’Azione, un partito che ora non c’è più, ma che – nell’immediato dopoguerra – parlava di libertà, di democrazia, di buongovenno. Fu una breve illusione: Panni fu il primo presidente dell’Italia nuova, ma quando si andò a votare il sogno finì. Davanti all’alternativa fra Democrazia cristiana e Partito comunista, capii che nessuno mi avrebbe mai più rappresentato, che la mia idea di democrazia, ispirata all’Inghilterra e agli Stati Uniti non sarebbe mai arrivata nel mio Paese. Oggi, dopo sessant’anni, sono convinto che l’occasione fu pensa in partenza, proprio in quei giorni straordinari, entusiasmanti. Invece di guardare all’America, che ci aveva liberato, ci chiudemmo in noi stessi, fra due partiti che non somigliavano a tanti italiani come me, laici, che volevano – finalmente – godersi la libertà ritrovata. L’unico erede di Panni è Carlo Azeglio Ciampi».
Damiano Damiani è oggi un signore che ama vivere isolato, nella sua bella casa al quartiere Aventino. Mi accoglie al cancello del palazzo, prima di andare nello studio mi porta a vedere i suoi quadri – coloratissimi, sorprendenti – appesi in soggiorno e in giro per le stanze. Il regista che ha firmato il primo film sulla mafia (Il giorno della civetta, 1968, tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia), diventando negli anni Settanta una garanzia di impegno e di incassi sicuri con Confessione di un commissario di polizia (due miliardi di lire dell’epoca), poi con L’istruttoria è chiusa: dimentichi, e ha dato il via alla vera fiction Rai con le sei ore della prima serie della Piovra è un personaggio singolare. Non si schiera fra i due poli: «Non mi pare giusto, né trovo grave cambiare opinione. È un segno di libertà. Mi piacerebbe che non si considerassero nemici coloro che hanno opinioni diverse, quanto a me, non sono stato cercato da alcun partito. Tutti sapevano della mia totale indipendenza». Il successo l’ha vissuto con una certa aria di superiorità, forse con il rigore che viene dalle origini friulane. «Sono nato nel 1922 a Pasiano di Pordenone. Mio padre Enzo era incaricato di vigilare sulle coltivazioni del baco da seta, lavorava per un latifondista. Aveva studiato a Bologna e, quando avevo sei mesi, ci trasferimmo in quella città, meravigliosa. Una città che ti abbraccia, che ti vuoi bene. Vivevamo al centro, a due passi dalle torri, mio padre mi insegnava ad amare l’Italia, l’idea dell’unità nazionale, sfogliando le guide rosse del Touring club. Era un fascista tiepido. Ricordo il passaggio di Mussolini, davanti alla basilica di San Petronio, ci portarono con la scuola ad applaudirlo e io gli gridavo: “Luce! Luce!”. Ero piccolo, mi avevano vestito da balilla, ecco vedi? Sono questo bambino qui» dice, mostrandomi una fotografia uguale a quella di migliaia di italiani, ragazzini orgogliosi di avere comunque una divisa. «Quando avevo dodici anni ci siamo trasferiti a Milano, papà iniziò a lavorare per la Snia Viscosa e lì ho scoperto tutto: il cinema, i primi film americani, Charlie Chaplin. Forse ho iniziato ad amare gli Stati Uniti in quel periodo».
Il regista ha paura – a tratti – che la memoria lo tradisca, che il passare degli anni confonda i suoi ricordi. Controlla nomi e date, aiutato dalla biografia che gli hanno dedicato la Cineteca nazionale e il Centro sperimentale, curata da Alberto Pezzotta. Quel ragazzo che sognava di venire a Roma a studiare al Centro sperimentale e che invece – per le condizioni familiari precarie – fu iscritto al liceo artistico e poi all’Accademia di Brera, incontra la politica attraverso un grande dolore. «Mio fratello Francesco, che era specializzato in chimica, partì per la guerra di Spagna come ufficiale di artiglieria, andò a combattere contro i comunisti. Pochi mesi dopo, alla vigilia della presa di Barcellona, fu colpito da una pallottola che gli passò la gola da parte a parte, così» il regista punta il dito contro il collo, per indicare il percorso del proiettile. «Lì ho capito anche il dramma di un figlio che, forse, più che per le idee politiche, era partito per dare una mano allà famiglia.» Asciutto, brusco e poco indulgente anche con se stesso, il regista si lascia andare a immagini e a frammenti di vita che erano stati chiusi nei cassetti del passato. «L’adolescenza milanese mi fece scoprire che – anche negli anni del regime c’era uno spazio per la cultura. Incontrai, prima due voci, due nomi che poi diventarono familiari: Alberto Lattuada e Luigi Comencini organizzavano delle proiezioni di film francesi o tedeschi al cinema del Gruppo rionale fascista, li presentavano e li spiegavano a noi ragazzi. Devo a quei due ragazzi più grandi tutto il mio amore, tutta la mia passione per le immagini, le storie. Intanto, cresceva la mia distanza dall’ideologia mussoliniana. Mi ero invaghito di una giovane austriaca, viennese. Si chiamava Margareth Schwanz, ma noi amici l’avevamo soprannominata Mausi, topolino. Mi presentò dei ragazzi tedeschi ebrei, fuggiti dal nazismo di Hitler per cercare salvezza a Milano. Eravamo tutti adolescenti, di religioni diverse,chi cattolico, chi luterano, chi valdese: ci ritrovavamo anche a pregare insieme. L’incontro con quei ragazzi ebrei fu l’inizio della mia conversione, si stava insinuando in me una coscienza nuova del mondo che mi circondava. Mi fermo qui: dopo la guerra, avrei potuto partire per aiutare i partigiani, non l’ho fatto. Sono stato nascosto, in casa della mia fidanzata, tutto l’inverno della Repubblica di Salò. Capii che la guerra era finita quando una voce di donna, nel cortile di Brera, cominciò a gridare forte: “L’han ciapà el Mussolini, l’han ciapà anche la sua Claretta, sono in fondo a corso Buenos Aires”. Cominciai a correre, vidi quei corpi, quella ferocia. Decisi che avrei raccontato agli altri, a chi non era stato lì, la giornata di piazzale Loreto. L’ho fatto, con un documentario: è un’immagine che mi porterò dentro tutta la vita».
Oggi, le passioni e le paure di Damiano Damiani sono riassunte in una storia, in una sceneggiatura che ha un titolo impegnativo: Un giorno ci riusciremo, ad avere un dio solo. Il regista insegue da anni il progetto di raccontare una storia a lieto fine, una riappacificazione fra due protagonisti di culture e fedi diverse, un arabo e un europeo. Spiega: «Le religioni furono inventate per dare serenità all’uomo, per darci spiegazioni rassicuranti. Sono laico, ma trovo bellissimo il Gesù dei Vangeli di Luca e Matteo, quello che dice: “Ama il tuo nemico, fa’ del bene a coloro che ti perseguitano”. Con l’età che avanza, la mia curiosità aumenta.
Sai che ci sono dei giorni in cui dico a me stesso: “Non vedo 1 ora di morire per capire dove e nato il cielo? ». Lo dice e quasi si commuove, poi si riprende e – accompagnandomi alla porta – confida: «Mi sento circondato da un mondo che è sull’orlo della guerra mondiale per l’incomprensione religiosa. E invece, basterebbe una stretta di mano».
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006