Elio Petri è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 29 gennaio 1929 a Roma (Italia) ed è morto il 10 novembre 1982 all'età di 53 anni a Roma (Italia).
È da ieri, da quando ho aperto la pagina che gli ha dedicato Repubblica (non so gli altri giornali, ditemi per favore cos'hanno scritto), che penso che lo devo fare. Ho traccheggiato una giornata, dicendomi che le commemorazioni mettono tristezza, che chi legge si tocca, e che dopotutto mi pagano anche perché lavori, ogni tanto, invece di perdere tempo in giro per i bbs. Ma il motivo vero è che scoprire che sono passati già dieci anni dalla morte di Petri m'ha lasciato quasi stordito.
Dio santo, pare ieri.
Di Elio, se vi va di arrivare in fondo, vi regalo un ricordo molto privato, del suo ultimo film che quasi nessuno conosce, perché non è mai stato girato ed è rimasto incompiuto, sulla carta della mia Olivetti d'allora. Venne da me con una sceneggiatura che si chiamava “Chi illuminerà la grande notte?”. Era un copione stranito, espressionista, di un pessimismo plumbeo e disperato.
Ma aveva come partenza una bellissima idea: un uomo che con due occhiali neri e un bastone bianco si metteva quasi per gioco a fingersi cieco, e casualmente in quella veste si trovava, unico possibile testimone, sul luogo di un delitto. E da quel momento era costretto a continuare la sua finzione, per non essere ucciso a sua volta. Lo dissi subito: la sceneggiatura era tremenda, ma la partenza era degna di Hitchcock. Petri disse che proprio per questo mi aveva cercato, per una certa mia professionalità particolarmente “americana”. Lo disse con l'ironia di sempre: ma era molto sincero nella voglia di tornare a mostrare a tutti, dopo gli ultimi brutti film, che era sempre il grande regista di A ciascuno il suo, del Cittadino, della Classe Operaia. Io ce la misi tutta, m'inventai un intrigo internazionale pieno di colpi di scena, di ciechi veri e finti a dozzine, c'era perfino una radio privata fatta tutta da ciechi per i ciechi. Scrivere per Elio era un'esperienza emozionante. Possedeva una estrema onestà intellettuale: non ti passava il minimo trucco del mestiere, ma sapeva anche cogliere ogni sfumatura di una pagina scritta.
Aveva grande rispetto del lavoro altrui: mi ricordo che faceva dei microscopici segni sul copione, a lato dei punti che voleva discutere, e poi riportava i richiami nei fogli che ricopriva di una sua straordinaria perfetta e minutissima calligrafia oserei dire in corpo sette. E poi per non imbarazzarmi con la sua presenza mentre li leggevo, veniva sotto casa mia e li lasciava nella cassetta della posta, aspettando al bar dell'angolo che io studiassi con calma i suoi appunti. Anche questo era Petri.
L'aggettivo che probabilmente lo definisce meglio, anche se è un bel po’ fuori moda, è “rigoroso”.
Commemorandolo quasi tutti hanno giustamente ricordato quanto lo abbia segnato il suo distacco dal comunismo.
Da giornalista dell'“Unità” prima, e da cineasta politicizzato poi, Petri era stato un comunista del tipo per me insopportabile, uno stalinista, una guardia rossa. Ma era davvero rigore morale, lo stesso che poi l'aveva portato a ripensare tutto e a staccarsi dal Sogno: un distacco lacerante e sofferto come non ho mai trovato in nessun altro “ex”. Nessuno invece che io abbia letto o sentito ha ricordato l'altro evento che ha influito in modo certo determinante anche sul suo lavoro.
A cinquant'anni Elio s'era innamorato d'una donna più giovane di lui di quasi trent'anni.
Anche volendo, non era uomo da sotterfugi e doppie vite, e una moglie di grande carattere, ferita nell'orgoglio, l'aveva letteralmente chiuso fuori dalla porta del suo bell'attico sul Lungotevere.
Lui soffriva incredibilmente questa situazione, era come se fosse deluso di sé.
“Sai”, mi disse una volta “un vero uomo è quello che è capace di essere felice scopando sempre con la stessa donna per tutta la vita”. Il suo male cominciò ad aggravarsi e il progetto di film andò in stallo. Elio dopo un lungo silenzio un giorno di quell'estate di dieci anni fa mi telefonò dandomi un appuntamento a Piazza del Popolo. Quello era un distacco, e in qualche modo lo capii subito, vedendolo così terreo e smagrito. Ma era con sua moglie, e dal modo con cui mi spiava sul volto i segni della piacevole sorpresa che stavo provando capii che era proprio quello lo scopo di quell'incontro: mostrarmi che era tutto a posto: anche se Giuliana e Paola e lui stesso continuavano a soffrire quell'amore, tutto era finalmente “rigoroso” come doveva essere. Infatti era tranquillo, quasi rasserenato, lui che aveva orrore della sola idea della morte.
Mi strinse un braccio e disse con affetto, senza più nessuna traccia della vecchia ironia: “Stai bene, sembri un marinaio..”. . E dietro le spalle di sua moglie che si avviava verso Rosati mi fece un grande sorriso da bambino accolto nel lettone grande, perdonato e sicuro, che è l'ultima cosa che mi va di ricordare di lui.
«Elio Petri è sempre apparso come il mal aimé del cinema italiano. Mal aimé in Italia, mal aimé in Francia in un paese che ha spesso salvato in appello cineasti che non erano profeti in patria». In effetti su Petri sono calati un silenzio e una rimozione pressoché totali, rotti da sporadiche iniziative, dovute soprattutto alla passione di Jean Gili. Come per Pontecorvo e molti altri, «l'episodio registico di Petri (nato nel 1929) fu preceduto da un lungo tirocinio: la critica cinematografica, l'organizzazione di cineclub, l'attività di sceneggiatore (in particolare di Giuseppe De Santis), l'aiuto regia, il documentarismo. Il dato meno inaspettato dell'Assassino, con cui, nel 1961, il cineasta esordì, trentunenne, nella regia di lungometraggi era dunque la padronanza del mezzo espressivo, la sicurezza di scrittura, frutto evidente di un lungo e non trasandato apprendistato».
Petri più che influenzato dalle poetiche della «nouvelle vague», e a differenza della maggior parte degli autori di cui si è finora parlato, per quanto è possibile accetta le regole produttive e si comporta con la stessa strategia dei registi americani: lavora all'interno di strutture e codici canonizzati, nella consapevolezza che la crescita della competenza professionale significa aumento del potere contrattuale e della gittata culturale e ideologica delle opere.
L'assassino, in apparenza, ha la struttura del giallo; in realtà valorizza non l'intreccio ma i sintomi e gli indizi del vuoto, del grigiore, dell'egoismo della vita del protagonista, ingiustamente accusato di assassinio.
Al suo esordio Petri fa un uso abbastanza parco di primi piani, in quanto gli interessa cogliere insieme il rapporto tra i personaggi e la realtà che li circonda. In una forma più banalizzata rispetto ad Antonioni, ma non per questo meno sintomatica, il giovane regista propone il tema dell'alienazione, sviluppandolo fino al limite del racconto fantascientifico (La decima vittima).
Petri è uno dei pochi registi delle generazioni post-neorealiste che cerca di trovare la propria strada spingendosi verso dimensioni che hanno più a che fare con la letteratura fantastica che con la tradizione realistica. Il sodalizio creativo con Tonino Guerra, tuttora da approfondire, gli consente di guardare, senza complessi di colpa, in direzione della fantascienza, ma anche di Kafka e di Borges e di sperimentare diverse vie e strutture narrative a ogni film.
L'opera in cui riesce a trovare una sua misura stilistica ed espressiva nella prima fase sembra I giorni contati (1962 ). Questo film (non è l'unico, evidentemente) rappresenta bene il mutamento stilistico in atto: si dilatano i tempi delle inquadrature, fino a divenire veri e propri piani sequenze, e si modifica profondamente il montaggio sulla base di una più articolata combinazione degli elementi visivi e sonori, dei ritmi e dei tempi. Nella prima sequenza è anticipato tutto lo sviluppo dell'azione successiva: la vista di un morto in autobus fa scoprire a Cesare, il protagonista, di avere «i giorni contati». Già alla seconda scena (un piano-sequenza della durata di quasi cinquanta secondi) siamo posti di fronte a un cambiamento di ritmo, a una ripresa in tempo reale e a una esplicita attenzione per la quotidianità dei gesti del protagonista.
Petri da l'impressione di scoprire le possibilità della macchina da presa, in realtà sa già tutto e ciò che lo interessa è dare vita a storie e soggetti con contenuti ben precisi.
Il modesto successo e la maturazione di nuovi interessi lo portano a elaborare alcuni soggetti, tra cui quello dei Mostri, realizzato da Dino Risi, in cambio della possibilità di girare Il maestro di Vigevano (1963), dal romanzo di Mastronardi.
Più significativo per la ricostruzione della vasta galleria di ritratti di italiani che vivono l'esperienza del boom, il film non ha la stessa carica di deformazione e di aggressione al mondo del racconto. Ne costituisce piuttosto una trascrizione visiva un po' più sbiadita.
Assai più libero La decima vittima (1965), portato a termine dopo una partecipazione al film Alta infedeltà con l'episodio Peccato nel pomeriggio (da segnalare, se non altro, come esempio di affettuosa parodia dell'antonionismo cinematografico).
«Il film - come bene ha visto Marcel Oms - è una proiezione risolutamente anticipatrice della realtà contemporanea: i conflitti politici vi sono risolti da una sorta d'uniformazione dei modi di vita». Alle sue spalle ci sono la tradizione del romanzo di fantascienza e l'alienazione. Petri, se non dimentica l'utopia unanimista del neorealismo, la traduce in termini visivi della pop art, proiettandola su uno scenario futuribile alle soglie del nuovo millennio, prevedendo però ancora l'egemonia del mondo borghese. «Attraverso la maschera della fantascienza, il politico tiene saldamente il centro del racconto, ma viene per così dire sublimato, messo tra parentesi».
A partire da A ciascuno il suo del 1967, tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, inizia la collaborazione con Ugo Pirro, e da quest'incontro nascono tre opere fondamentali nella carriera successiva del regista: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1969), La classe operaia va in paradiso (1971), La proprietà non è più un furto (1973). In mezzo, nel 1968, Un tranquillo posto di campagna; un film, in apparenza centrifugo rispetto a questo insieme, poco considerato (e non del tutto riuscito), ma fondamentale per la ricchezza dei riferimenti culturali e indispensabile per capire il senso delle rinunce e delle scelte successive. Attraverso la storia di un pittore in crisi si parla della morte dell'idea romantica del fare artistico e della crisi personale nei confronti della rappresentatività e riproducibilità del reale. Molto importante la presenza di Guerra che immette a sua volta preoccupazioni personali in una fase storica in cui, in pieno boom economico (il soggetto originale è del 1962), ci si accorge della dissociazione tra le leggi dell'industria culturale e la difesa del nucleo profondo di creatività dell'artista.
Questi film spostano gli obiettivi di Petri, fanno in modo che la sua opera (sia pure grazie all'appoggio di una produzione benevola, che ne vede la resa di mercato) metta in scena motivi centrali della vita politica italiana. Inoltre riescono ad animare e a far sfilare sulla scena - con il patrocinio di figure come Sartre, Brecht, Antonin Artaud e Freud - tutti i soggetti più rappresentativi dei mestieri della politica e della società italiana di quegli anni. Di qui, a parere di chi scrive, la crescita di rappresentatività dei film di Petri nei confronti del periodo più difficile della storia dell'Italia democratica. «Segniamo in rosso questa data - scrive Giovanni Grazzini sul 'Corriere della Sera' nel febbraio del 1970 all'indomani dell'uscita dell'Indagine... - piaccia o meno il film è la prima volta che il cinema italiano si butta a capofitto nell'ambiente della polizia e che la censura se ne rallegra [...]. È difficile negare che l'uscita del film costituisce un importante passo avanti verso una società più adulta, tanto sicura di sé e della democrazia da potersi permettere di criticare istituti tenuti per sacri senza dover continuarsi a difendere dietro al medioevale paravento del reato di vilipendio».
È appena il caso di ricordare che, proprio per la centralità del discorso politico, la critica cinematografica della sinistra usa questi film attaccandoli con una furia crescente e interpretandoli sempre più soltanto nel senso della loro politicità. C'è un momento, agli inizi degli anni Settanta, in cui su Petri tirano tutti la loro palla, come ai baracconi del luna park. L'esercizio appare facile, soprattutto in rapporto all'evoluzione del regista, anche se, in non pochi casi, ha un che di canagliesco e maramaldesco. A un certo punto, al Festival di Porretta qualcuno propone di bruciare pubblicamente La classe operaia va in paradiso. Petri reagisce e cerca di ribattere, colpo su colpo, con interviste, lettere aperte e prese di posizione contro alcuni critici che definisce «mummificati nel loro eterno ruolo di magistrati del gusto».
Petri ha comunque il merito di far occupare il centro della produzione a quel tipo di cinema civile e politico, che ha costituito una tradizione e un'aspirazione coerente nel mondo del cinema italiano. Questa è la sua colpa principale agli occhi della critica, che include un vasto ed eterogeneo gruppo di voci che vanno da Maurizio Ponzi che lo definisce «cineasta di serie Z», a Miccichè, a Fofi, ecc...
I film, a partire dall'Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, si assestano a livello produttivo medio-alto, contaminano i generi, adottando meccanismi di coinvolgimento dello spettatore di sicuro effetto, giocando sullo spostamento del punto di vista dal piano dell'oggettività a quello della soggettività del personaggio e valorizzando al massimo la produttività rispetto al contesto sociale e politico contiguo. «L'interesse dell'Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto osservava Goffredo Fofi, che di Petri è stato uno dei critici più severi - deriva dal suo rapporto con un contesto reale odierno, con quegli elementi non fenomenici né metafisici per i quali Petri si appassiona probabilmente di meno». Questo film in prospettiva storica è destinato a giocare un ruolo meno effimero e di semplice rispecchiamento: in effetti vi convergono, a livello ottimale, una serie di elementi, forze e ipotesi sparse, che vi trovano il punto di perfetta integrazione.
L'Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto unifica il suo pubblico, inventa un sistema di comunicazione che mette in opera funzioni emotive e cognitive condivisibili da padri e figli. È un film che risponde al bisogno di spostamento a sinistra della media borghesia italiana.
L'opera seguente pone al centro dell'attenzione l'operaio-massa, rappresentativo del nuovo tipo di lotte a ridosso del 1968 nelle fabbriche: intellettuali, pubblico borghese e ampio fronte della critica militante nella sinistra rispondono con il rifiuto radicale.
Nel cinema di Petri dopo questo film si attua una svolta: tutti i sintomi di crisi, che era venuto distribuendo sul piano individuale prima e allargando ai comportamenti collettivi, a partire dalla Proprietà non è più un furto, opera certamente non riuscita, ma che esplora con coraggio «la nascita della disperazione in seno alla sinistra» (Petri), fino a Todo modo, diventano condizione patologica, diagnosi di disfacimento nei tessuti dei corpi della classe operaia e in quella politica di governo alla vigilia della distruzione totale.
Girato alla vigilia delle elezioni del 1975 Todo modo è una profetica allegoria, interpretata da un grande cast di attori, musicata da Ennio Morricone e influenzata anche dalla lettura che Roland Barthes fa di Sade e Loyola, in forma di dame macabre, della fine, per autoeliminazione, di un partito di governo eterodiretto dalla Chiesa e da altre forze più o meno oscure. Todo modo, per merito anche delle doti profetiche di Leonardo Sciascia, autore del racconto da cui l'opera è tratta e che difenderà il film nonostante le distorsioni e le varianti introdotte dal regista, sente e anticipa - in modo inquietante per la sua capacità di prevedere alcuni sviluppi possibili dello scenario politico - che per il partito di governo si apre una lotta interna senza esclusione di colpi che impone di scegliere una vittima sacrificale per esorcizzare i pericoli della crisi. La vittima (il cui nome è M.), grazie alle eccezionali doti mimetiche di Gian Maria Volente, appare come un perfetto alter-Aldo Moro.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007