Silvana Mangano è un'attrice italiana, è nata il 21 aprile 1930 a Roma (Italia) ed è morta il 16 dicembre 1989 all'età di 59 anni a Madrid (Spagna).
Dopo avere partecipato a concorsi di bellezza e avere lavorato come indossatrice, fece il suo ingresso nel mondo del cinema, interpretando una piccola parte ne L'elisir d'amore (1947, Mario Costa). Tuttavia, il vero successo, di portata internazionale, fu da lei conquistato con la sua apparizione in Riso amaro (1949, regia di Giuseppe De Santis), in cui interpretava il personaggio di una mondariso. La vicenda, girata in un drammatico bianco e nero sul desolato sfondo delle risaie piemontesi, narrava la durissima vita delle mondine, sfruttate brutalmente dai loro datori di lavoro, ma anche aperte a prendere coscienza di sé e della loro dignità, in un ambiente in cui cominciavano già a farsi sentire i primi fermenti della lotta di classe. Il film presentava numerose scene degne di nota; in particolare, quella del ballo della Mangano con il "cattivo" di turno, impersonato da Vittorio Gassman, conferì il dovuto risalto all'aggressiva bellezza dell'attrice, che si impose immediatamente all'attenzione di un pubblico mondiale. In seguito, la Mangano ricalcò parzialmente questo ruolo sostenuto con tanto successo, in altri due film, Il lupo della Sila, 1949, Duilio Coletti) e Il brigante Musolino (1950, Mario Camerini), che avrebbero forse meritato un maggiore approfondimento del suo personaggio. Tale maturazione, accompagnata da una più complessa strutturazione drammatica, apparve invece, in un contesto narrativo di tipo molto diverso, in Anna (1951, Alberto Lattuada). Qui la Mangano, protagonista di una vicenda ispirata al fumetto e al romanzo d'appendice, che la vedeva nel duplice ruolo di amante passionale prima e di monaca spirituale dopo, rinnovò lo strepitoso successo di pubblico con cui era stato accolto Riso amaro. Intanto l'attrice, che dimostrò di preferire la qualità alla quantità, interpretando non molti film, ma sempre sotto la direzione di registi di valore o di ottimo mestiere, continuava il lavoro di affinamento delle sue doti drammatiche. Ella arricchì infatti la sua recitazione di una sottile vena satirica e umoristica, che si rivelò pienamente nella piccola parte della prostituta ne La grande guerra (1959, Mario Monicelli), in cui apparve ancora a fianco di Vittorio Gassman, e nel personaggio della donna misteriosa e sofisticata in Crimen (1960, Mario Camerini), raggiungendo poi il massimo risalto nelle multiformi caratterizzazioni femminili de La mia signora, 1964, autori vari) e de Le streghe (1967, autori vari). Tuttavia, la forte personalità della Mangano, sensibile e disponibile a ruoli di notevole impegno, era già evidente fino dal 1954, quando, in un film a episodi diretto da Vittorio De Sica, L'oro di Napoli, interpretò l'episodio in cui una giovane prostituta, ospite di una casa di piacere, si sposa con un giovane ricco che le fa credere di amarla, mentre in realtà desidera solo sciogliere un voto, per liberarsi da un rimorso. Infatti, qualche tempo prima, egli aveva spinto al suicidio una giovane e innocente fanciulla, respingendo freddamente il suo amore e accusandola di essere attratta solo dal suo denaro. Per questo motivo, aveva deciso di espiare la sua colpa, unendosi ad una prostituta in un matrimonio puramente formale, senza tenere in alcun conto né i sentimenti né la dignità della donna, ridotta a puro strumento della sua maniacale volontà di autolesionismo. Ma la giovane, una volta venuta a conoscenza della storia, profondamente ferita, lo abbandona immediatamente, preferendo tornare al suo vecchio mestiere, che le permette almeno di conservare la coscienza di sé come essere umano. Con una progressiva evoluzione, la Mangano si è rivelata attrice di valore in altri film, come La tempesta (1958, Alberto Lattuada) e Jovanka e le altre (1960, Martin Ritt); ha fornito un'ottima prova dando vita al forte personaggio di Edda Ciano ne Il Processo di Verona (1963, Carlo Lizzani), interpretato con sensibilità ed efficacia drammatica; inoltre ha dato vita e credibilità al complesso e ambiguo personaggio di Giocasta nell'Edipo re, una reinterpretazione dell'omonima tragedia di Sofocle, girata nel 1967 da Pier Paolo Pasolini, rivelando così, nonostante il numero relativamente basso di film da lei interpretati, un temperamento drammatico, poliedrico e disponibile ai ruoli più diversi. È stata sposata con il produttore Dino De Laurentiis.
Attrice brava e senza voglia, gran personaggio, bellissima donna elusiva, reticente, segreta, Silvana Mangano era molto malata da mesi. L'avevano curata per un tumore ai polmoni a Los Angeles e a Parigi, poi era voluta tornare a Madrid dove stava dal 1985 perché ci abita sua figlia Francesca, sposata con il cineasta spagnolo Pepe Escrivà, madre di due bambini, e dove la sua esistenza, raccontava, era quieta: “Vivo per conto mio. Leggo, ascolto musica. Ricamo a piccolo punto: mi piace la calma, la solitudine, dei lavori d'ago, soprattutto mi piace l'esattezza, la pazienza che esigono. La mia vita è molto, molto ordinata:forse ho l'impressione che l'ordine possa salvaguardare dalla confusione del mondo. Ho casa con Mercurio e Giove, i due cani cocker che erano di Federico”. La fine tragica di quel figlio in un incidente aereo l'aveva ridotta per anni “ quasi morta”, tornava continuamente nei suoi discorsi. L'eleganza rimaneva una passione, impersonata da Giorgio Armani, dal suo stile asciutto e perfetto tanto simile all'immagine ideale della Mangano: nell'ultima primavera era andata alle sfilate milanesi di Armani, aveva posato per i fotografi di “Vogue ” italiano indossando alcuni suoi vestiti e coprendo spesso con le mani la faccia alterata dai farmaci. Stava già male, era marzo. A luglio, con la forza della speranza o dell'illusione, la produttrice Silvia d'Amico preparava per lei un nuovo film, Ti trovo un po' pallida, tratto dal racconto di Fruttero e Lucentini.
Ma era troppo tardi, cosi l'ultimo film di Silvana Mangano resta l'affascinante Oci Ciornie cechoviano di Nikita Michalkov, affrontato con quella malavoglia e resistenza di sempre che a lei non parevano nevrotiche ma razionali:
“ Come attrice mi sono improvvisata, recitazione non l'ho mai studiata, ho sempre provato il timore d'essere inadeguata. Mescolato all'orgoglio, questo timore mi ha spesso bloccata. E poi io sono mezzo inglese e mezzo siciliana, un insieme di contrari, una contraddizione perenne: quando sei cosi è difficile arrivare a stimarsi, persino a accettarsi ”. Salvo un'apparizione in Dune di David Lynch, per far contenta la produttrice che era sua figlia Raffaella de Laurentiis, era rimasta senza recitare per dodici anni. Aveva accettato di girare Oci Ciornie per il regista bravissimo, per via di “ Suso Cecchi d'Amico e Silvia d'Amico, sceneggiatrice e produttrice del film, donne e amiche straordinarie alle quali voglio bene da sempre”, per il protagonista Marcello Mastroianni: “A Roma, da ragazzi, abitavamo nello stesso quartiere, eravamo innamorati: io sedici anni, lui ventidue”.
A quasi sessant'anni, portava i bei capelli grigi senza tinture, portava jeans, pullover, scarpe di tela: però si muoveva su una Mercedes foderata di pelle rossa targata New York, e scortata da giovani amici raffinati francesi o inglesi. Chiedeva invano nei ristoranti certi semplici antiquati cibi d'infanzia (minestra d'orzo, lenticchia rossa, brodo vegetale), da trent'anni non mangiava carne né beveva altro che vodka. Era un poco incurvata, non felice, ancora timida.
Quarant'anni prima, nel 1948, la sua bellezza sensuale, splendente e assoluta folgorava chi la vedeva in Riso amaro di Giuseppe de Santis, e Italo Calvino, inviato sul set dall'“Unità”, scriveva abbagliato: “È romana, ha diciotto anni, il viso e i capelli della Venere di Botticelli ma un'epressione più fiera, dolce e fiera insieme, occhi scuri, un incarnato terso e limpido senza ombre né luci, spalle che si aprono con una dolcezza da cammeo, un busto di ardita armonia di linee trionfali e aeree, la vita come uno stelo snello, e un mirabile ritmo di curve piene e di arti longilinei”. Vent'anni dopo, nel 1968, Pier Paolo Pasolini le scriveva: “ Gli aspetti della tua natura, puntualità, senso del dovere, lealtà, producono, strano a dirsi, il mistero della tua bellezza. La tua bellezza amara: che si offre, incombente, come una teofania, uno splendore di perla; mentre, in realtà, tu sei lontana”.
Tra un'esaltazione e l'altra, tra uno scrittore e l'altro, Silvana Mangano aveva prodotto in se stessa una straordinaria mutazione fisica. Cancellati il petto orgoglioso che tendeva la maglietta lacera di Riso amaro, i fianchi ridondanti, le cosce solide, la bocca gonfia, l'irresistibile fascino carnale, era diventata una bellezza lontanissima da ogni idea di sesso, sofisticata, algida: un corpo esile e sinuoso di linea Liberty, la faccia bianca e lunare, gli occhi lucidi come di febbre.
Benissimo vestita sempre, in uno stile rigoroso e coerente, perseguito tenacemente: quasi un esorcismo contro le sue origini. Contro il fatto d'essere nata in una strada senza uscita dell'Esquilino a Roma, da una ragazza inglese innamoratasi d'un siciliano addetto ai Wagon Lits. Contro la monotona, umiliante trafila delle attrici povere della sua generazione: posare con un costume da bagno troppo stretto per fotografie volgari, sfilare nei concorsi di bellezza provinciali per l'elezione di Miss Roma, aspettare ore con i piedi freddi e la voglia d'un caffè a Cinecittà per una particina ne L'elisir d'amore, sperare invano in un buon posto fisso di cassiera di bar, se va bene avere la propria fotografia su un quotidiano della sera (sempre in costume da bagno, e magari con la spiritosa didascalia Anche in Italia le superatomiche). Contro il ricordo dell'insistenza del produttore di Riso amaro, Dino de Laurentiis, nell'invitarla a cena o in week-end: lei seguitava a rifiutare, lui aveva cominciato per questo a rispettarla, le aveva proposto di sposarla. Lei aveva detto sì alla sesta domanda di matrimonio: e non voleva poi dire che fosse innamorata.
Anzi. Le coppie produttore-diva erano allora tante, tipiche, ma la coppia Mangano-De Laurentiis pareva speciale. Lei, in pubblico, chiamava il marito per cognome:
De Laurentiis. Se le chiedevano: “È il suo uomo ideale?”, rispondeva precipitosamente: “ Proprio no, assolutamente no”. A volte lo trattava anche male, ma: “Per me il matrimonio significa rispetto costante delle responsabilità assunte al momento delle nozze”. Si disegnava un personaggio di donna all'antica, conservatrice: quattro figli nati uno dopo l'altro, beneficenza, gioielli, provvido aiuto a molti parenti. Voce bassa, gesti graziosi, vita quasi da reclusa in una grande casa di campagna comprata dai Torlonia: pittura, scultura, letture, ricamo, raccolta di preziosi francobolli con immagini di animali, orrore del cibo e della folla, a Messa la domenica. Estati nella villa di Roquebrune sulla Costa Azzurra: senza nuotare né abbronzarsi, ma approfittando dei Casinò vicini per appagare la passione del gioco d'azzardo. Molte amiche. Moltissime sigarette. Il forte senso dell'umorismo, espresso soprattutto in scherzi e giochi con Alberto Sordi.
Tanto spietatamente costruito, il ruolo di Vera Signora non giovò alla sua carriera. “Recita benissimo, da attrice dotata di vero temperamento, di intuito, di mutevolezza, d'intelligenza, — diceva Vittorio de Sica che l'aveva diretta ne L'oro di Napoli, — ma recita poco”. Non ne aveva voglia, non s'impegnava per paura di darsi delusioni, però molte sue interpretazioni restano: la prostituta ne La grande guerra di Monicelli, Edda Ciano nel Processo di Verona di Lizzani, i tre ritratti femminili de Le streghe, la popolana de Lo scopone scientifico di Comencini. I ruoli più belli arrivarono quando aveva quasi quarant'anni: in Edipo re e Teorema di Pasolini, in Morte a Venezia e Ludwig di Visconti. Di Visconti era anche Gruppo di famiglia in un interno, l'ultimo film prima del lungo silenzio: “ Pure quello l'ho fatto con molta fatica. Suso Cecchi d'Amico mi telefonò, mi disse che Visconti era malato, che le società di assicurazione rifiutavano di garantire il film a causa del suo stato di salute... Non potevo dire di no, né avrei voluto: però il personaggio l'ho odiato, quella nuova ricca invadente, prepotente, volgare, chiassosa e infelice era cosi sgradevole”.
Poi, trasferitasi con il marito e i figli negli Stati Uniti (“l'America non l'ho mai amata”), la voglia di lavorare s'era affievolita ancora di più, raccontava: “Tanti amici se n'erano andati, Visconti, Pasolini, De Sica, Roberto Rossellini con il quale purtroppo non ero mai riuscita a lavorare: e io lavorando ho bisogno di amicizia, di calore, di persone che conosco bene e che stimo davvero. Ho rifiutato tante proposte. Mi pareva anche che il cinema stesse diventando più cialtrone, più brutale”. Suo figlio Federico era morto. Il suo matrimonio era finito, la casa di New York e la stupefacente villa di Santo Domingo erano state chiuse, Dino de Laurentiis s'era risposato con un'americana giovane. Il passare del tempo non attenuava certo il suo scontento di sé: “Non mi piaccio. Non mi sono mai piaciuta, né quand'ero una ragazza tonda, né quando sono diventata una donna sottile, e tanto meno adesso. Avrà magari a che vedere con la mia psicologia, con l'insicurezza, con la nevrosi”.
Ma interpretare Oci Ciornie le aveva dato energia, allegria, il piacere del successo internazionale. L'estate prima della fine, avvenuta nel dicembre 1989, pareva davvero avere, per la prima volta, il desiderio e la volontà di fare un film, di interpretare la signora candida e chic alla quale tutti, nel racconto di Fruttero e Lucentini, ripetono incontrandola “ Ti trovo un po' pallida”, e che forse è già morta, forse non esiste più, forse continua soltanto automaticamente a seguire quel meccanismo euforico e affannato che per lei e per i suoi amici è la vita. Silvana Mangano, che già sapeva di stare molto male, con orgoglio estremo e suprema eleganza scherzava: “Altro che un po' pallida. Molto, molto pallida. Troppo pallida”.
Persistenza del mito. In Isole secondo episodio del Caro diario, Nanni Moretti sbarca a Lipari, entra in un bar e viene attratto dal televisore. c’e Silvana Mangano, suora e cantante di nightclub!, in Anna di Alberto Lattuada (1952), melodramma di misticheggiante erotismo. La suora Anna balia il mambo in un provocatorio flashback, accompagnata da muscolosi ballerini con maracas, e canta «Ya viene el negro zumbon, bailando alegre el baion...». Moretti è affascinato, imita l’attrice, ne rifà le mosse. Primo piano della Mangano: «Tengo gana de bailar el nuevo compás, dicen todos cuando me ven pasar: “Chica donde vas?”, “Me voy a bailar el baión!”».
Balla la Mangano, come ballava all’inizio di Riso amaro di De Santis che, nel 1949, aveva fatto una diva di lei, mannequin neppure ventenne, miss Roma tre anni prima. In Riso amaro, la Mangano si chiama Silvana e balla il boogie woogie alla stazione dove si radunano le mondariso. Pochi anni dopo la guerra, De Sands libera il desiderio popolare in un melodramma, condotto con piglio hollywoodiano, che è storia da fotoromanzo e analisi sociologica. Presenza erotica incontenibile, Silvana mastica il chewinggum, legge “Grand Hotel”, veste un maglioncino attillato, infilato nei pantaloncini corti, calze nere a metà coscia, fiorellino in bocca e piedi nella risaia. Un ammaliato Italo Calvino, inviato dell’Unità sul set, la paragona alla Venere del Botticelli, parla di «un’espressione dolce e fiera insieme, occhi scuri, un incarnato terso e limpido senza ombre né luci, spalle che si aprono con una dolcezza da cammeo, un busto di ardita armonia di linee trionfali e aeree, la vita come uno stelo snello, e un mirabile ritmo di curve piene e di arti longilinei». Afrodite della risaia, è la Mangano a incarnare l’esuberante femminilità neorealista. I cartelloni per l’edizione francese del Lupo della Sila di Duilio Colletti gridano: «Una Magnani, con quindici anni di meno. Rita Hayworth, con quindici chili di più. Ingrid Bergman, col temperamento latino. E più sex appeal di Mae West e Jane Russell messe assieme». Non c’è solo questa Mangano. Lo intuisce già Camerini che nel suo Ulisse (1954) la vuole insieme maga Circe e fedele Penelope. La Mangano si trasforma, diventa via via più elusiva e segreta. È la prostituta umiliata dell’episodio Teresa in L’oro di Napoli di De Sica e la vedova che ama i cacciatori di lupi Pedro Armendariz e Yves Montand in Uomini e lupi, proto western rusticano abruzzese, ancora di De Santis.
Passa con naturalezza da una figura di donna elegante e tenace in La diga sul Pacifico di Clément, da un romanzo della Duras, al ruolo di figlia del capitano in La tempesta di Lattuada, da Puskin, alla prostituta dal cuore d’oro che segue i soldati in La Grande guerra di Monicelli. Lei segue le strade della commedia all’italiana e del cinema d’autore. Incontra Pasolini: è l’enigmatica donna muta dai capelli verdi, Assurdina Caì, che sposa Totò in La terra vista dalla Luna, episodio di Le streghe (1967); è un’ambigua Giocasta di porcellana in Edipo Re, è madre borghese e ninfomane in Teorema; infine nel Decameron è la modella della Madonna. Incontra Visconti: è la madre di Tadzio in Morte a Venezia, è Cosima Wagner in Ludwig, è una perversa marchesa in Gruppo di famiglia in un interno. Torna alla commedia con Lo scopone scientifico di Comencini, faccia a faccia con Bette Davis. Appare e subito scompare, con gli occhi illuminati di blu, in Dune di David Lynch. Ci lascia dolcemente come moglie di Mastroianni nel cechoviano Oci Ciornie di Nikita Michalkov (1987). Pasolini le aveva scritto: «Gli aspetti della tua natura, puntualità, senso del dovere, lealtà, producono, strano a dirsi, il mistero della tua bellezza. La tua bellezza amara: che si offre, incombente, come una teofania, uno splendore di perla; mentre, in realtà, tu sei lontana».
Da Film Tv, n. 14. 2005
Silvana Mangano. Mi è capitato sotto gli occhi un articolo in cui una giovane attrice, Luisa Ranieri, dialogava su ipotesi di immedesimazione con la grande interprete. C'era anche una foto: la Ranieri nella posa arcinota della Mangano in Riso amaro di De Santis (stesso abbigliamento, stesso tentativo di apparire altera, ma quale differenza dalla vita in giù: fianchi e gambe senza uguale potenza). Una profonda nostalgia mi ha preso. Per il ricordo di lei, di Silvana. Il titolo di questa rubrica è preso da un mio libro di anni fa dove spicca un ritratto della Mangano scritto con passione affettiva.
Il curioso delle donne, da intendere anche come il lato imprevedibile, magico, delta femminilità, nasce da quel ritratto. Sono stato fra gli sceneggiatori di un film, La mia signora: Sordi e la Mangano insieme, e della compagna di set, Sordi diceva: «Anima popolana e anima sofisticata? Ma no. Silvana è la donna, sia antica che moderna, è l'interprete della versatilità della donna, dalle origini a oggi, è tutte le donne come si sono succedute nel tempo». L'intelligenza della Mangano. Specie nel capire, assistere affettuosamente le sue simili. Qualcuno l'ha fatta passare, banalmente, per curiosità omosessuale. Quando mi ospitava nella sua villa di Cap Martin, o a Villa Catena, a Roma, avevo la sensazione di stare accanto a una misteriosa Penelope. Con le sue bellissime mani, tesseva la tela di tutte le tipologie femminili che la abitavano. Gli uomini che cercavano di compiacerla senza capirla, li definiva «caricature assurde».
Da Il Corriere della Sera Magazine, 23 Ottobre 2008
«Silvana Mangano sarà una delle grandi fortune del film». Questa profezia viene da lontano. La formulava su l'«Unità» del 14 luglio 1948 un giovane e già autorevole inviato, da Torino recatosi nel Vercellese, esattamente a Veneria di Lignana, sul set di un film allora in lavorazione, il cui titolo sarebbe diventato famoso come il nome della protagonista. Era il giorno dell'attentato a Togliatti, il quale poi (in un biglietto privato indirizzato ad Antonello Trombadori) avrebbe apprezzato Riso amaro assai più dei critici del quotidiano del suo partito.
«È romana, ha 18 anni, il viso e i capelli della Venere di Botticelli, ma un'espressione più fiera, dolce e fiera insieme, occhi scuri e capelli biondi, un incarnato terso e limpido, senza ombre né luci, spalle che s'aprono con una dolcezza da cammeo, un busto d'una ardua armonia di linee trionfali e aeree, la vita come uno stelo snello, e un mirabile ritmo di curve piene e d'arti longilinei...». Insomma il giovane cronista sapeva già scrivere ma era già cotto, come lo sarebbero stati i futuri spettatori. Ai quali comunque assicurava che «nessuna fotografia può bastare a darne un'idea». Quell'inviato speciale così sicuro del suo pronostico si chiamava Italo Calvino.
Quando, nel dicembre scorso, come un fulmine a ciel sereno filtrò in Italia la notizia che Silvana Mangano si trovava in coma irreversibile in una clinica di Madrid, l' «Unità» ripropose quel vecchio «pezzo» mentre altri giornali (a questo si è ridotto lo scoop?) si slanciarono a pubblicare il necrologio dell'attrice addirittura prima della sua dipartita. Di fronte a tale insensibilità morale e professionale, restava solo da sperare che il verdetto dei medici si rivelasse sbagliato e che la paziente riuscisse a sopravvivere. Così purtroppo non è stato.
Silvana Mangano divenne nel 1949, all'uscita di Riso amaro, la prima diva del neorealismo, anche se non voleva affatto esserlo. La testimonianza in proposito è di Giuseppe De Santis che la diresse e lanciò, e che proprio in questi giorni torna alla regia (auguri!) dopo un incredibile quanto vergognoso ostracismo protrattosi per decenni. Inoltre c'è il fatto che, nell'ultimo scorcio degli anni Quaranta, il neorealismo era già pericolante. Soffermiamoci rapidamente su questi due aspetti.
Nel suo fulgore fisico Silvana anticipava le «maggiorate» che in clima di restaurazione sarebbero divenute incontenibili nella loro esuberanza come nella loro piattezza artistica. «Meglio il sesso che i problemi sociali» era del resto la nuova bandiera sventolata dal cinismo politico di chi controllava allora il nostro cinema come ancor oggi controlla il nostro governo. Sebbene reduce anch'essa dai concorsi di bellezza, la fiorente ragazza aveva però per natura altra riservatezza, altra classe. Aveva fatto Riso amaro per bisogno e, nonostante il successo mondiale, non si sentiva disponibile al cinema quanto lo era invece per la famiglia. Tuttavia sposò un produttore, ed è questo il secondo aspetto della questione. Come abbiamo ripetutamente osservato in altre occasioni, il neorealismo era nato senza i produttori e sarebbe finito con i produttori. Specialmente con quelli tipo Ponti (poi marito della Loren) e De Laurentiis (che subito impalmò la Mangano, anche per farne la star della casa). Essi, al contrario, erano portati da natura allo spettacolo colossale, cosmopolita, all'americana. Silvana fu dunque la prima diva del neorealismo ma anche l'ultima. Era un'anomalia, una contraddizione in termini, difficile da digerire per tutti, e in special modo da lei.
Nasce da qui la sua palese insoddisfazione, la sua sostanziale estraneità ai ruoli che le andavano assegnando.
Sembrava si concedesse a malincuore e con sforzo, e soltanto perché non poteva dir di no a qualcuno, che in questo caso era anche il padre dei suoi figli. Eppure sul set era di una dolcezza e di una disponibilità che tutti i registi apprezzavano. Alberto Lattuada, che la diresse in Anna (1952), ricorda di non aver mai conosciuto persona più delicata, assolutamente incapace di alzare la voce. Abbiamo rivisto Anna in televisione, dove l'attrice era insieme una ballerina di night, sensualmente attratta da un ribaldissimo Gassman, e un modello di suora ospedaliera, che dolorosamente rinuncia all'onesto Raf Vallone. Gli stessi partners di Riso amaro, lo stesso finale non lieto, lo stesso trionfo di pubblico in America. Ma in tre anni era già sparita la «copertura» sociale che Riso amaro, con le sue mondine, aveva ancora; Vallone si proclamava contadino e si scopriva che viveva in una villa di campagna; e nel finale ci voleva uno sterminio automobilistico per indorare all'infermiera la sua missione. Tanti sceneggiatori di rispetto per un feuilleton mistico. Nondimeno Silvana, per la quale avevano inventato un travaglio bifronte (come nel successivo Ulisse di Camerini con Kirk Douglas, in cui era Penelope e Circe), è l'unica a uscirne, tutto sommato, ancora indenne.
Per dare un'idea della popolarità raggiunta ovunque da questa diva suo malgrado, Gianni Puccini (colui che firmava Puck l'indimenticabile «galleria» di attori su «Cinema» vecchia serie) rammentava su «Cinema Nuovo» del 10 marzo 1954 come nello spettacolo di fine anno dell'austero Teatro Reale di Copenaghen venisse regolarmente ripetuto un solo sketch: quello intitolato La mondina ed eseguito da una graziosa soubrette in calze nere che rifaceva, anno dopo anno, la nostra Silvana nazionale (non certo la Marlene dell'Angelo azzurro, che si era bensì esibita per prima in calze nere, ma da «mondana» e nell'anno di grazia 1930 in cui Silvana nasceva). La sua immagine aveva già fatto il giro del mondo, come e più di quella dolente del «ladro di biciclette»; lo stesso De Santis, l'anno prima, se l'era vista venire incontro dai muri di Ulan Bator, la capitale della Mongolia.
Analizzando da par suo Il fenomeno Mangano, Gianni Puccini notava ch'esso era balzato in luce prepotentemente, al momento giusto e al primo colpo (a differenza delle altre bellezze del nostro schermo costrette ad «avanzare per gradi»). Il cinema italiano viveva infatti il momento di passaggio dai «tipi» presi dalla strada dell'immediato dopoguerra, ai «personaggi» che ormai s'imponevano ma, non potendo più essere quelli d'anteguerra legati alla borghesia dei «telefoni bianchi», richiedevano ai nuovi attori una nuova «fotogenia». Romana di nascita, ma figlia di un siciliano e di una inglese, la «scoperta» di Riso amaro univa in sé due diverse personalità: «la sovrana pigrizia del suo passo mediterraneo», scrive il nostro specialista, «sovrastata da uno sguardo limpido di nordica». Dal punto di vista fisico, come per un filtro magico, per una misteriosa e inedita assonanza di opposti, il centro era clamorosamente colpito.
Ma anche il personaggio del film si presentava, per così dire, come creatura di trapasso, e in quanto tale soggetta a contraddizioni stringenti. Quello splendore di ragazza era in fondo una vittima della prima letteratura consumistica e dei suoi fumettistici ideali; e «attraverso il velame feuilletonesco», osserva Puccini, «vibravano motivi umani ai quali Silvana Mangano poté aderire con un'immediatezza e una forza e una sofferenza che lasciarono il segno e la fecero, da "tipo", attrice».
Il ritratto (così composto, ripetiamo, nel 1954) è esatto, anche se l'autore sperava allora, come tutti noi, in una impossibile reviviscenza del neorealismo e si augurava quindi che, col bagaglio tecnico nel frattempo acquisito, l'attrice volesse approfondire e magari depurare quel primissimo personaggio, invece di limitarsi a continuarlo sul piano commerciale. Nessuno poteva immaginare, a quel tempo, che quest'opera di depurazione e stilizzazione sarebbe stata da lei compiuta molto più tardi e assolutamente all'infuori del neorealismo.
Ci viene incontro la regale e dolorosa Giocasta di Edipo re (1967), ci viene incontro l'elegante e tenera madre dell'adolescente Tadzio in Morte a Venezia (1971). Regine e dame d'altri tempi, sotto i cui costumi sfarzosamente semplici, dietro le cui toilettes raffinate, sarebbe ben difficile riconoscere l'antica mondina scatenata nel rock'n'roll e infantilmente attratta da collanine e fotoromanzi. Metamorfosi impressionante, di cui furono artefici maestri come Pasolini e Visconti, ma della quale Silvana Mangano era ormai interprete prestigiosa e perfetta. Che cosa era accaduto in lei, per trasformarla a tal segno?
Nella sua carriera non sono mai mancati i ruoli di popolana, e non soltanto all'iniziò, in film d'appendice quali Il lupo della Sila, Il brigante Musolino e, nel '56, lo stesso Uomini e lupi in cui fu guidata ancora da De Santis. Ma anche più avanti nel tempo, fino alla contadina veneta del Disco volante (1964) di Tinto Brass o alla romana baraccata dello Scopone scientifico (1972) di Comencini, entrambe madri proletarie con una nidiata di figli. E quante volte ha impersonato una prostituta? Quella avvilita di un episodio dell'Oro di Napoli (1954) di De Sica, quella allegramente patriottica della licenza in città nella Grande guerra (1959) di Monicelli, quella spiritosa nell'episodio di Brass dell'altro film antologico La mia signora (1964), in cui Alberto Sordi la spacciava per moglie. Senza contare che in Gruppo di famiglia in un interno (1974) il ritratto della nuova ricca cafona, allestito per lei dall'aristocratico Visconti, presupponeva nel personaggio origini decisamente plebee. E qui si capisce che la Mangano lo odiasse.
Eppure da molto tempo, grazie soprattutto alla «cura» De Laurentiis che mobilitò al suo servizio anche registi stranieri (Robert Rossen per Mambo, René Clément per La diga sul Pacifico, Martin Ritt per Jovanka e le altre), essa era, sotto il profilo produttivo, «la Signora del cinema italiano». Una signora che avrebbe voluto esser soltanto una madre, e che si concedeva allo schermo in parti di prestigio, ma possibilmente brevi. Donde la frequenza dei film antologici da lei interpretati. Il primo dei quali, L'oro di Napoli la vedeva campeggiare col nome sopra il titolo in un cast che pure annoverava, in prove memorabili, Eduardo, Totò e lo stesso De Sica. L'affresco partenopeo lanciava anche Sophia Loren negli stretti panni della «piazzaiola» ma cominciava a scoprire in Silvana un temperamento drammatico, poi confermato dei tragico ruolo di Edda Ciano nel Processo di Verona (1963) di Lizzani. Una signora, infine, che quando si decideva poteva scegliersi il suo lavoro nel cinema: ha fatto appena una trentina di film nell'arco d'un quarantennio, ma sempre, e specie negli «episodi», con registi di lusso.
Ed eccoci all'episodio-chiave nel suo percorso d'attrice; quello scritto, diretto e disegnato da Pier Paolo Pasolini per il film Le streghe (1967). S'intitola La terra vista dalla luna e precede Edipo re uscito lo stesso anno. È una favola surreale, grottesca e clownesca, con Totò e Ninetto Davoli, padre e figlio reduci da Uccellacci e uccellini, e lei nel ruolo di Assurdina, che appartenendo come tutti a un mondo capovolto (la sua baracca è miserabile, ma dipinta a vivaci colori) da viva è sordomuta e spettrale, mentre quando muore riprende a parlare e a gustare il cibo e l'amore. Narrato con la tecnica dei fumetti, è un racconto percorso dal soffio della morte, di una comicità e di una poesia lugubri e strazianti.
È proprio incontrando Pasolini, che Silvana si trasforma in simbolo. Ciò avviene in un ambiente che a prima vista si direbbe neorealistico, e invece è rovesciato in mitico. La medesima operazione si riscontra in un Edipo re rivissuto nel Terzo mondo di allora e di oggi e, per quanto concerne l'autore, autobiograficamente e freudianamente. Con la sua silhouette assottigliata e spiritualizzata, l'attrice ora aderisce con naturalezza alla jeraticità di Giocasta come, nel successivo Teorema (1968), alla nevrosi della signora borghese contemporanea di fronte all'irruzione del mito. Ed egualmente Visconti, in Morte a Venezia e nel successivo Ludwig (1973), si avvale di lei per la sua figura ormai aristocratica, quale emblema di un'epoca che fu. Il suo ruolo è magari marginale, ma si tratta d'una cornice che valorizza e abbellisce il quadro.
Peccato che Antonioni e Fellini siano mancati all'appuntamento con questa nuova Silvana. Sarebbero giunti anche prima di Pasolini e Visconti. Ma Antonioni aveva la Vitti, e Fellini fece di tutto, senza riuscirci, per includerla nella Dolce vita, destinandole la parte poi toccata ad Anouk Aimée. Anch'essi avrebbero potuto esplorare il segreto della sua presenza così distaccata eppure coinvolgente. Un segreto che stava tutto nella donna, in quel fondo di tristezza che lei non è mai arrivata a mascherare, e che emanava un singolare calore.
Da parecchi anni Silvana Mangano aveva lasciato l'Italia e il cinema. Poi, dopo la perdita del figlio maschio in un disastro aereo, abbandonò anche New York e il marito megalomane, rifugiandosi da una delle sue tre figlie a Madrid. Ma per compiacere quella divenuta a sua volta produttrice in America, tornò tuttavia sullo schermo per un ambizioso quanto fallimentare film fantascientifico, Dune (1984) di David Lynch. E non resistette nemmeno al pressante appello di un'amica romana, anch'essa produttrice, concedendosi un altro strappo alla solitudine. Rientrò brevemente in Italia per il suo addio al cinema in Oci ciornie (1987). Vi incontrò il suo ultimo regista straniero, Nikita Michalkov, e il suo primo amore, Marcello Mastroianni, un altro «divo suo malgrado». Fu il malinconico duetto finale sull'onda dei lontanissimi ricordi di gioventù.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006