La sua qualità principale? «Sono orgoglioso». Il suo principale difetto? «Sono orgoglioso». Rimpiange qualcosa? «La giovinezza». Si era autoritratto così in una delle rare interviste, nel 1958, a 36 anni. Il 24 novembre dell’anno successivo Gérard Philipe, l’attore simbolo della generazione francese postbellica, moriva per un cancro al fegato, fulminante, bellezza e leggerezza, impegno e grazia si erano incarnati in lui, adolescente sublime fino all’ultimo, creando una mitologia struggente. A guardare le belle foto scattate da Agnès Varda all’epoca il personaggio ci appare assolutamente inattuale. L’ironica incorporeità, l’erotismo sottile e romantico così lontani dal gusto odierno rendono Philipe irripetibile. «Era un angelo che cercava avidamente, affannosamente, di diventare uomo» ha detto di lui l’attrice Maria Casarès, sua partner sullo schermo e sul palcoscenico. Nel ruolo dell’Angelo annunciatore si era rivelato nella pièce Sodoma e Gomorra di Jean Giraudoux, accanto a Edwige Feuillière, nel 1943. Una delle rarità della mostra parigina è la registrazione radiofonica di questa interpretazione. Era stato poi il Caligola di Albert Camnus, nel 1945. Ma la vera gloria teatrale era legata al sodalizio col grande Jean Vilar al Théàtre nationale populaire. Dal 1951 Philipe interpreta per otto anni i personaggi del repertorio classico: El Cid, Lorenzaccio, Il principe di Homburg, Riccardo II. Performance ancor più mitiche perché volatili, perdute. La camicia bianca ampia, con le maniche a sbuffo indossata in Homburg ricompariva negli spettacoli di Ariane Mnouchkine molti anni dopo.
È difficile spiegare che cos’era Gérard in scena a chi l’ha visto soltanto sullo schermo, La sua sola apparizione vi rovesciava le budella. La parola grazia non è sufficiente. Era al di là di tutte le convenzioni». E Micheline Presle, l’attrice che lo aveva voluto accanto a sé nel suo film simbolo Il diavolo in corpo: «Uno sguardo straordinario. Un sorriso carnivoro e incantevole. Sulla scena Philipe aveva più che una presenza: un’aura, una fiamma, era intenso e leggero. Come l’elio». Soltanto a François Truffaut e alla Nouvelle Vague non piaceva: «Idolo del pubblico femminile tra i 14 e 18 anni... Terrore dei bravi registi». Aveva interpretato più di 30 film, incarnando i ruoli più diversi: idealisti romantici di Stendhal(La Certosa di Parma, il rosso e il nero), seduttori cinici(Le donne degli altri, Grandi manovre) o faustiani come in La bellezza del diavolo; l’incosciente e gioioso spadaccino di Fanfan la Tulipe; il principe sognatore di L’idiota. Ma il titolo a cui è soprattutto legata la sua fama è il diavolo in corpo di Claude Autant-Lara, tratto dal romanzo omonimo, e scandaloso, di Raymond Radiguet (anche lui morto precocemente), dove il giovane Philipe fa innamorare di sé la più matura Micheline Presle. «Autant-Lara pensa va che le orecchi di Gérard fossero troppo a svento la» rievoca l’attrice. «Durante le prove gli aveva fatto mettere del collodio dietro i lobi perché gli restassero più aderenti alla testa. Ma il giorno in cui il regista aveva gridato motore! Gérard, con la sua aria ingenua, aveva tolto la colla».
Era nato il 4 dicembre 1922 a Cannes da una famiglia facoltosa, Il padre, di estrema destra, era stato collaboraziomsta durante il governo di Vichy. Condannato a morte in contumacia nel 1945, era riparato in Spagna. Gérard Philipe aveva abbracciato da subito posizioni opposte, creduto nella militanza del teatro popolare, si era battuto per i diritti degli attori fino a diventare presidente del loro sindacato. Noiret ricorda una frase di Jean Vilar che sembra perfetta per Philipe: «Non lascerai niente; forse, nel cuore di alcuni un esempio di onestà». Il suo ritratto morale? Gli avevano chiesto in quell’intervista del 1958. «Ambizioso» aveva risposto lui.
Da Panorama. 23 ottobre 2003