Filippo Timi è un attore italiano, sceneggiatore, è nato il 27 febbraio 1974 a Perugia (Italia). Oggi al cinema con il film Invelle distribuito in 7 sale cinematografiche. Filippo Timi ha oggi 50 anni ed è del segno zodiacale Pesci.
«La donna e il cielo si somigliano» scrive Filippo Timi nel suo libro: «La donna è un ordigno, e l'uomo è un bambino che non riesce a capirci niente e lo distrugge per piangere subito dopo e dare la colpa alle istruzioni. Ma la donna e il cielo non hanno istruzioni». E ancora: «L'uomo vive per lasciare impronte sulla neve, nell'illusione di lasciare traccia di sé. La donna è la neve. E il paesaggio che si farà primavera».
Dal pantheon Pasolini-Tondelli-Bukovski a quello Neruda-Prevert. Filippo Timi, alla prima opera solista dopo lo spassoso e scabroso Tuttalpiù muoio a quattro imani con Edoardo Albinati, ha cambiato cifra e tonalità. Ma, prima occorre dire chi è Timi ai molti che ancora lo ignorano.
«Filo», 33 anni, è una forza della natura, che con lui è stata particolarmente esibizionista affibbiandogli una notevole serie di sfighe e compensandola con altrettanti talenti. È balbuziente assai e quasi cieco: sindrome di Stargardt, non vede nulla al centro del campo visivo e ha il 50 per cento di rischio di finire al buio pesto. Nonostante ciò (o proprio per questo?) è uno dei migliori attori teatrali d'Italia (premio Ubu under 30 del 2004) e i suoi primi passi nel cinema gli hanno già valso il premio Fice (Federazione cinema d'essai) come attore dell'anno, grazie al ruolo da protagonista in In memoria di me di Saverio Costanzo e a quello, più defilato, in Saturno contro di Ferzan Ozpetek.
Ragazzino di provincia (Ponte San Giovanni vicano Perugia) obeso ed epilettico, violentato da un compagno a 14 anni, è passato dai cubi delle discoteche alle passerelle di Armani prima di affermarsi nel teatro di ricerca, tanto ginnico quanto cerebrale, sotto l'ala di Giorgio Barberio Corsetti. Qualsiasi gesto, dall'imparare un testo in corpo 28 al memorizzare la scena centimetro per centimetro tre ore prima del sipario, gli costa dieci volte più fatica. E gli dà dieci volte più soddisfazione. Questa sua vita bestia lo ha reso molto speciale. Timi è tutto esagerato, vive in formato A3 come i suoi copioni: come si nota nel libro, è al tempo stesso violento e ingenuo, cupo ed euforico, adorabile e ripugnante, banale e spiazzante. E Mi innamoravo di tutto, titolo di un disco di De Andrè, gli starebbe addosso a pennello. Sessualmente caleidoscopico (patisce le definizioni standard), urgente, onnivoro, la stessa voracità e frenesia le butta nell'arte: compone poesie e musica, studia canto (è reduce da un mese a Broadway con l'insegnante di Nicole Kidman), dirige documentari, dipinge, balla, sta abbozzando un musical da ambientare in Umbria e preparando un Amleto di Laforgue con Stefania De Santis, ex assistente di Carmelo Bene. E ha scritto questo libro dedicato alle donne: racconti, aforismi, pensieri, poesie. Passata l'ansia di stupire, in E lasciamole cadere queste stelle tira molti cazzotti allo stomaco in meno e tante carezze in più, mantenendo identica sensibilità. Quella che gli consente di raccontare in soggettiva pezzi di vita, stavolta solo letti o sentiti, con autenticità fulminante.
«Ogni uomo vorrebbe essere una donna, ma non potrà mai, mentre una donna è già un uomo migliore». Alè.
«Non credo nella parità: sono migliori loro. Dopo un romanzo autobiografico, volevo scrivere la cosa più distante da me possibile. Mettermi dentro la testa, i pensieri e i sentimenti di una donna. Potevo occuparmi di Dio, ma mi sono spinto oltre perché, oltre il divino, c'è solo il femminile. Un paradiso concreto. Non perduto. Non ancora».
Bisogna sbrigarsi.
«Una leggenda maya dice che il mondo finirà nel 2012 sotto un diluvio, che avverrà perché tutte le donne del mondo si metteranno a piangere. È poetico. E io sono un sognatore. Ho dato un volto e una forma alle suggestioni, agli sguardi e alle emozioni delle donne che ho conosciuto, nella vita o nelle pagine».
Dalle viscere alle stelle.
«Una mia ex mi fece leggere i diari segreti di Wittgenstein. Una confessione spietata, propedeutica alla sua vita vera. Prima di affrontare qualsiasi percorso, bisogna affrontare la propria altezza morale, senza trampoli, nudo e crudo. A 29 anni ero in crisi profonda e non ce la facevo più a campare con 50 euro al giorno spese incluse: lavoravo tanto e non avevo soldi per vivere. E allora ho buttato in quel libro tutti i miei fantasmi, con cui però ho anche giocato».
Dopo aver traumatizzato tutto il parentado, ora scrive «ogni madre è una donna sconosciuta».
«Solo una zia non mi saluta più. Quel libro è stato un po' come strappare mia madre alla morte, al tempo che logora. Poi le fa anche comodo avere un figlio strano: ha di che parlare con le amiche».
Un figlio che va anche in tv...
«Quando mi vide per la prima volta dalla Bignardi, mi chiese un bonifico. Mò ce lo fai un regalino Filì? Pensa che chiunque passi dentro la scatola della tv sia ricco. Non fu facile convincerla del contrario».
Questo libro piacerà anche glia mamma.
«Sconvolgere per il gusto di sconvolgere ora mi interessa meno. Quella pagina è chiusa, i conti in sospeso con me stesso e con gli altri li ho regolati. Poi la vita è un'altra cosa. Mi sono messo più tranquillo».
Infatti un suo personaggio dice: «Forse sono arrivato al limite, dove il massimo della trasgressione è amare una donna, avere una famiglia...».
«Joyce riassume tutto in un verso: nascita, copula, morte. Alla fine siamo animali. Trasgredire serve ad aprire la testa e ad evolverci. Ma gli istinti sono quelli: casa, figli, famiglia. Io ho corso sul filo della negazione del banale, ma ora è bello riappacificarmi un po' con me stesso. Sono una contraddizione vivente: amo perforo le bomboniere».
È credente?
«Devo».
Deve?
«Sennò impazzirei. Non sono pronto per tanta libertà».
E in cosa crede?
«Nella bontà. Non in un Dio giudice o in una legge scritta. Credo per non diventare cinico. Da ragazzino mi dicevano tutti che ero buono e io lo associavo con coglione e paffuto. Cosi mi sforzavo di essere cattivo. Finché un amico mi disse: tu sopravviverai perché sei buono. E ho scelto di credere nella bontà perché è bellissimo».
Molto veltroniano. «Oddio no».
Comunque si può credere nella bontà, la informo, senza credere nell'aldilà.
«Io credo anche nell'aldilà perché ho il terrore di disperdermi totalmente e ineluttabilmente».
S'era capito.
Da Il Venerdì di Repubblica, 26 ottobre 2007