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Patrice Leconte, classe e raffinatezza

Il regista di La ragazza sul ponte a Taormina per una masterclass sul cinema.
di Ornella Sgroi

In foto il regista francese Patrice Leconte.
Patrice Leconte (76 anni) 12 novembre 1947, Parigi (Francia) - Scorpione.

giovedì 16 giugno 2011 - Incontri

Sembra timido, Patrice Leconte. Nei suoi abiti informali, dietro gli occhiali da vista leggeri che gli danno un'aria semplice e sofisticata. Molto francese.
Seduto in poltrona sul palcoscenico del Palazzo dei Congressi di Taormina, microfono in mano, di fronte alla platea di studenti e giornalisti presenti alla Masterclass, il regista francese non sembra molto a suo agio. Almeno fino a quando non si comincia a parlare di cinema. Del suo cinema, versatile ed elegante, nella qualità del tocco e nella semplicità delle storie che racconta. E del cinema che sempre più si trasforma, soprattutto con l'avvento di Internet e delle nuove tecnologie.
«Io amo il cinema nei cinema. Perchè lo considero un piacere collettivo, piuttosto che un piacere da gustarsi in solitudine. Guardare un film su un supporto portatile non è certo una cosa terribile, ma per me pensare che ci siano storie che saranno viste su schermi piccoli, magari con gli auricolari, è molto triste. E per quanto Internet e i cellulari abbiano cambiato il modo di usufruire di un film, questo non deve incidere sulla sua realizzazione. Bisogna fare un film pensando al film che si vuole fare e non al modo in cui verrà visto».

Già questo basta per capire il rapporto che Patrice Leconte, regista di film come Il marito della parrucchiera, La ragazza sul ponte, L'uomo del treno, Confidenze troppo intime e l'ultimo Voir la mer (fuori concorso al Festival), ha instaurato nel corso della sua carriera con il pubblico, verso cui sembra nutrire grande rispetto.
«Il vero piacere, nel fare un film, è dare piacere allo spettatore. Prenderlo per mano e farlo sognare. Catturando la sua attenzione e stimolando la sua immaginazione, anche nel tentativo di fargli vedere il mondo in modo diverso. Una volta, a Cannes, un giornalista chiese a Wenders "perché fa cinema?" e lui, dopo un momento di silenzio, rispose molto lentamente "faccio cinema per rendere migliore il mondo". Mi sembrò una risposta ambiziosa e pretenziosa, ma poi ho capito che aveva ragione. Forse non si può cambiare il mondo facendo cinema, ma migliorarlo un po' si, rendendo anche lo spettatore un po' migliore. Quando è uscito La ragazza sul ponte un amico, dopo averlo visto, mi ringraziò per averlo girato perchè, guardandolo, si era reso conto che non amava abbastanza sua moglie. In qualche modo, con il mio film, ho migliorato il mio amico».

È evidente che Leconte attribuisce una grande responsabilità al suo lavoro, così come è evidente mentre ne parla che crede fortemente nel potere comunicativo del cinema.
«Fare cinema è un mestiere importante. Ci si assume un impegno, quando si decide di farlo. Io non ho mai fatto un cinema militante, ma un cinema fatto di sogni. Mi piacerebbe che la gente sentisse il bisogno di aprirsi all'altro dopo aver visto un mio film. Per questo ai giovani che vogliono fare cinema dico sempre che c'è una questione centrale da affrontare prima di ogni altra. Bisogna che si guardino allo specchio e che si chiedano, ogni giorno, perché vogliono fare cinema. Finché non trovano una risposta vera, buona e personale, vuol dire che devono ancora continuare a cercare». E possono essere vari i modi attraverso i quali compiere questa ricerca. Per esempio guardando molti film, ma soprattutto guardando alla vita di ogni giorno.
«Il cinema è un'arte ladra, che attinge alla vita, ma anche ai libri che leggiamo, alla musica che ascoltiamo, ai film che guardiamo. Io ho capito da molto giovane che volevo fare un mestiere che mi permettesse di vivere liberamente la mia creatività e la mia immaginazione. E poi, siccome mio padre mi portava spesso al cinema, ho capito che fare film poteva essere la strada giusta. Avevamo un 8 millimetri e facevamo in famiglia piccoli film con mezzi molto limitati. Immaginavamo storie semplici e le realizzavamo. Sono convinto che nessun sogno sia impossibile. Non mi sono mai scoraggiato, ho continuato a sognare. E oggi mi sento fortunato e felice perché faccio il mestiere che volevo fare. Non bisogna chiedere scusa per questo, ma esserne consapevoli».
Come bisogna essere consapevoli del fatto che ogni film è un nuovo viaggio, fatto di tappe che segnano la storia di ogni pellicola, di ogni titolo.
«Dopo la fase di scrittura non vedo l'ora di lasciare il computer per iniziare la parte attiva della lavorazione. Ogni tappa è importante ed io, in realtà, sono sempre impaziente di passare a quella successiva. E quando il film è pronto, non vedo l'ora che esca. Se poi non ha il successo che mi aspetto, mi rattristo molto ovviamente e vengo pervaso da un senso di vergogna per aver preteso di coinvolgere lo spettatore in una storia che invece non lo ha interessato. A volte i critici o i registi stessi, quando un film non ha successo, dicono che il pubblico non lo ha capito. Io invece credo che se il pubblico non apprezza un film non è colpa sua, ma del regista».

A sentirlo parlare, comunque, sembra proprio che la cosa che più lo entusiasma del suo mestiere di regista sia la fase delle riprese, dimanico e costruttivo, macchina da presa a portata di mano, a contatto con la troupe e soprattutto con gli attori.
«Il momento della lavorazione, delle riprese, è basato sul lavoro di squadra ed è un momento di gioia. Emozionante. Eccitante. Truffaut usava una metafora bellissima. Diceva che i film sono come "treni che sprofondano nella notte". In effetti, quando partono bucano la notte e non li si può più fermare finché non arrivano a destinazione. E questo rispecchia il mio modo di lavorare. Una volta in corsa, non mi siedo mai. Non sono un regista pigro, non riesco a fare i film seduto dietro un monitor, da lontano. Ho bisogno di tenere io la macchina da presa, di scegliere le inquadrature e di fare le riprese. Anche per questo per me la macchina da presa diventa quasi un personaggio aggiuntivo della storia e non mi dispiace che sia presente nei miei film, purché non diventi "dimostrativa". Questa è una parte importante del lavoro di regista, anche perché crea un rapporto di complicità e intimità con gli attori. E gli attori lo adorano, hanno bisogno di sentirti vicino». Il che spiega perché Leconte reputa invece un po' frettoloso il cinema francese degli ultimi anni, a suo avviso troppo prolifico a scapito della qualità, non essendo l'eccessiva produzione necessariamente indice di buona salute. Parola di Leconte. Critico anche verso il cinema italiano che non riesce ancora a staccarsi dai grandi del passato come Antonioni e Fellini, che il regista francese non riesce proprio a dimenticare. Un'eredità pesante per i colleghi italiani che – sostiene – soffrono ancora il confronto.

A tale proposito, prendendo spunto da Voir la mer, un ammiratore chiede a Patrice Leconte il segreto del suo cinema, sensuale ma raffinato e mai volgare.
«È che io sono una persona raffinata e di classe!» dice ridendo, e da lui proprio non te lo aspetti. Mentre il viso già arrossato dal sole siciliano si accalora ancora di più. Poi, la risposta seria e convincente.
«Il cinema evoca. In molte situazioni anche commoventi, non solo piene di sensualità, che cercano di evocare sensazioni senza mostrare. Per stimolare l'immaginazione dello spettatore. Il cinema americano, per esempio, mostra tutto quello che c'è da mostrare e questo trasforma lo spettatore in mero consumatore di pop corn, senza renderlo davvero partecipe della storia».
Come ha ragione, monsieur Leconte. Sarà anche per questo che spesso nei suoi film riesce a dipingere ritratti femminili come pochi sanno fare.
«Nei miei film le donne sono belle e misteriose. Ma la bellezza è soggettiva, non esiste un canone oggettivo. Ciò che le rende speciali, invece, è il mistero. Il mistero del mondo femminile è affascinante, niente a che vedere con l'universo maschile. Se con un film riesco a bucare questo mistero, per me è un bel risultato. Ma quando penso di avvicinarmi, poi mi rendo conto che il mistero ancora una volta mi sfugge. Quello delle donne è un mistero insolubile».

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