Certo, si può opporre - come alcuni critici anche di recente hanno fatto - che anche questa produzione ha forti standardizzazioni, tanto quanto il cinema di genere: l'uso della macchina da presa vicino agli attori, la rappresentazione di classi disagiate, l'osservazione antropologica delle nuove tensioni sociali, gli amori contrastati e così via. Ma, se invece invertiamo il binocolo, scopriamo che quello che taluni definiscono "standard" noi lo possiamo definire "sistema", e quello che per altri è ridondanza per i più appassionati è "affidabilità" verso l'alto.
La seconda verità è che ormai possiamo contare su un gruppo di registi italiani giovani e innovativi in grado di proporre opere all'altezza degli standard - tutt'altro che semplici da raggiungere - del cinema d'autore internazionale e da festival.
La recente ondata di premi, da Berlino a Cannes, da Venezia a Locarno, testimonia di un periodo - quello del secondo decennio degli anni Duemila - particolarmente fertile. Sarebbe però altrettanto sbagliato pensare che si tratti di pellicole basate esclusivamente sul talento personale dell'autore e non replicabili. Sta accadendo l'esatto contrario. Con il cinema di Alice Rohrwacher, Francesco Munzi, Saverio Costanzo, Claudio Giovannesi, Leonardo Di Costanzo, Gianfranco Rosi e molti altri - tra cui le nuove leve come Marco Danieli o Andrea De Sica (a proposito di figli) - ci siamo rimessi a parlare l'esperanto del linguaggio cinefilo trasversale e multietnico.