Regista, sceneggiatore e montatore newyorkese, Josh Safdie ha sviluppato una sensibilità visiva radicata nell'osservazione del quotidiano urbano, che lo ha portato a diventare noto prima nel circuito underground, grazie a una serie di cortometraggi ispirati alla sua vita, e poi al mondo intero, firmando un buon numero di lungometraggi ambientati tra il Queens e Manhattan.
Dopo un'infanzia segnata dalla compulsiva documentazione paterna attraverso videocamere domestiche, ha trasformato quell'archivio involontario in una vocazione cinematografica, orientandosi verso un cinema indipendente, nervoso e iperrealista.
Formatosi alla Boston University, ha fondato rapidamente una propria casa di produzione e ha collaborato stabilmente con il fratello minore Benny, con cui condivide un approccio artigianale e autobiografico alla narrazione, per specializzarsi nel cinema verità americano con influenze cassavettiane e con una forte predilezione per personaggi marginali, per gli ambienti claustrofobici e per le tensioni emotive non filtrate.
Molto apprezzato dalla critica per aver fuso esperienze personali e restituzione sociale in opere che coniugano urgenze narrative, estetiche documentaristiche e una regia immersiva, ha conquistato l'attenzione internazionale per la sua autenticità e per la radicalità del suo sguardo, distinto da un uso frenetico della camera a mano, incollata ai volti dei protagonisti, sporchi e dominati da luci fluorescenti e da riflessi notturni.
Serrato e sincopato nel montaggio (spesso curato da Ronald Bronstein), è ottimo nel seguire spirali autodistruttive, narrazioni non lineari e climax anticipati, imponendosi come esploratore di ossessioni e rischi di uomini e donne, spiati in maniera documentaristica, all'interno della quale ognuno sceglie le proprie traiettorie complementari e autonome.
Studi
Nato nella Grande Mela del 1984, figlio di un gioielliere e di una casalinga, Josh Safdie cresce con suo fratello minore, Benny, nel Queens, salvo poi trasferirsi a Manhattan dopo il divorzio dei suoi genitori, venendo affidato alla madre, che viveva in quel quartiere assieme al nuovo marito.
Pronipote del famoso architetto Moshe Safdie e cugino del drammaturgo Oren Safdie, Josh è appassionato di basket e di cinema fin da adolescente (un interesse, quest'ultimo, che gli è stato trasmesso dal padre), e si diploma alla Columbia Grammar & Preparatory School di Manhattan, iscrivendosi poi alla Boston University, dove fonda il collettivo creativo Red Bucket Films, che poi diventerà l'omonima casa di produzione, co-fondata dal fratello minore, da Sam Lisenco, Zachary Treitz, Brett Jutkiewicz e Alex Kalman.
L'esordio nei cortometraggi
Il debutto dietro la macchina da presa è ufficialmente segnato nel 2002, quando dirigerà (con David Gelb) Robert Downey Jr. ed Edward Burns nel cortometraggio Lethargy, che sarà apprezzato dalla critica per la sua capacità di trasformare una premessa minimale (la stasi esistenziale di un adolescente apatico) in una riflessione postmoderna sul disorientamento giovanile, la ricerca di senso e la performatività dell'identità. Presentato come dark comedy, il corto segue un ragazzo pigro e disilluso che fatica a trovare il proprio posto nel mondo in un racconto che mescola ironia surreale e malinconia urbana. L'opera adotta una struttura episodica e frammentata, dove la narrazione non si sviluppa secondo una logica causale, bensì attraverso incontri e deviazioni, riflettendo lo smarrimento del protagonista e la sua incapacità di aderire a un modello sociale coerente. Una variazione sul tema dell'anti-coming-of-age, dove il percorso di crescita è sostituito da una deriva esistenziale che rifiuta la trasformazione, richiamando l'estetica mumblecore e le prime sperimentazioni indie americane degli Anni Duemila, e anticipando la sensibilità di Safdie per la bellezza dell'inadeguatezza.
Seguiranno altri corti (Alberto Lives in a Bathroom, I Think I'm Missing Parts, We're Going to the Zoo, If You See Something, Say Something, The Back of Her Head) da lui esclusivamente diretti, salvo poi appoggiarsi al fratello per The Adventures of Slaters's Friend (2005) e There's Nothing You Can Do (2008) e ad Ariel Schulman per Jerry Ruis, Shall We Do This? (2007).
Il debutto nei lungometraggi
L'esordio nei lungometraggi è segnato con The Pleasure of Being Robbed (2008), storia di una giovane cleptomane che vaga per New York rubando borse e oggetti senza scopo apparente. Girata in super-16mm con camera a mano e attori non professionisti, nata come corto promozionale per le borse Kate Spade, l'opera adotta un'estetica che richiama il neorealismo italiano e il cinema verité, ma con una sensibilità contemporanea che privilegia l'improvvisazione e la deriva narrativa. Come la Roma di Vittorio De Sica, la metropoli americana (con i suoi parchi, le intersezioni, le vetrine e le inferriate che compongono un mosaico brulicante e indifferente) diventa protagonista involontaria ed è parte della spinta di un'identità in fuga, di un'innocenza disperata in un poema che omaggia ancora una volta John Cassavetes, ma anche la nouvelle vague e il cinema outsider.
I lavori con il fratello
Assieme al fratello, dirigerà poi l'autobiografico Daddy Longlegs (Go Get Some Rosemary) (2009), un film semi-autobiografico che racconta con sguardo affettuoso e inquieto due settimane nella vita di Lenny, un proiezionista di 34 anni, divorziato e caotico, che ritrova vitalità quando può trascorrere del tempo con i suoi figli. Tenero e comico, i Safdie dissolvono il ruolo genitoriale in una pozza di complicità giocosa e irresponsabile, all'interno della quale il padre non è più un padre, ma un compagno di avventure (gite sregolate, dimenticanze scolastiche e decisioni discutibili). Realizzato con mezzi essenziali, il titolo predilige uno stile diretto, composto da riprese spontanee, e una narrazione che rifiuta la morale per abbracciare la complessità emotiva. Evocando l'energia del cinema indipendente americano, con rimandi a Jim Jarmusch, all'immancabile Cassavetes, al realismo iraniano Anni Novanta e alla radicalità di Robert Kramer, è un ritratto d'amore per il padre eccentrico e anticonformista dei due registi. Un tributo alla sua fragilità, alla sua difficoltà di crescere e alla bellezza imperfetta dei loro legami familiari. Un racconto che è al tempo stesso personale e universale.
Da questo momento in poi, continueranno a lavorare insieme in un'altra serie di cortometraggi, che saranno fortemente elogiati dalla critica americana, come John's Gone (2010), Straight Hustle (2011), Why? (This Movie Exists) (2010), The Black Balloon (2012), The Trophy Hunter (2012), Solid Gold (2012) e Goldman v Silverman (2020). Piccole opere che si metteranno in luce per la coerenza della loro poetica cinematografica, privilegiando l'esperienza vissuta rispetto alla costruzione narrativa ed esplorando, con sguardo empatico e non convenzionale, le vite di soggetti marginali, vulnerabili e spesso disorientati.
Con una regia in tandem che è viscerale e dinamica, fatta di inquadrature instabili, luce naturale e dialoghi sovrapposti, i Safdie riusciranno a catturare la densità emotiva del quotidiano, trasformando ambienti congestionati e interni claustrofobici in paesaggi mentali che riflettono l'interiore dei protagonisti. Che si tratti di un uomo stordito dalla solitudine, di una truffa improvvisata in strada o della convivenza con una condizione mentale, i due fratelli affrontano ogni soggetto con una sensibilità che rifiuta il sentimentalismo e abbraccia la complessità, costruendo un linguaggio audiovisivo ruvido, eppure profondamente umano.
Similmente accadrà anche nel genere documentaristico con Buttons (2011) e Lenny Cooke (2013), distintisi per una visione autoriale che trasforma il genere documentaristico in uno strumento di indagine critica, capace di restituire con intensità la labilità delle vite in transito e la tensione tra potenziale e disillusione. Più che raccontare eventi, i Safdie tendono a costruire ritratti emotivi, dove il tempo diventa materia narrativa e il corpo filmato si fa archivio vivente di ciò che è stato e di ciò che non sarà.
In Lenny Cooke, la parabola di un giovane atleta destinato alla gloria e poi inghiottito dall'anonimato diventa emblema di una generazione sedotta dal culto della visibilità, mentre in Buttons (opera più breve e minimale) si coglie la stessa attenzione per il dettaglio quotidiano che rivela una condizione esistenziale.
La regia continua a scansare ogni forma di enfasi o didascalismo, preferendo un approccio contemplativo, e il loro cinema documentario si configura come uno spazio di resistenza contro la semplificazione.
Non si staccheranno da quest'ottica nemmeno con i loro successivi lungometraggi a soggetto: Heaven Knows What (2014); il bellissimo Good Time (2017); e Diamanti grezzi (2019), che confermano la traiettoria autoriale che li vede cineasti capaci di trasformare il disordine umano in un linguaggio visivo disturbante, ma intensamente empatico.
In Heaven Knows What, la dipendenza e l'amore ossessivo si intrecciano in un racconto crudo e lirico, dove la città e il corpo della protagonista (Arielle Holmes) si fanno veicoli di dolore e desiderio, in una regia che rifiuta ogni forma di idealizzazione. Good Time prosegue questa esplorazione del margine con un ritmo frenetico e una narrazione frammentata, seguendo l'odissea notturna di un antieroe contraddittorio e impulsivo (un sorprendente Robert Pattinson), in una New York spietata. E, infine, con Diamanti grezzi, raggiungono una densità drammaturgica ancora più estrema, raccontando la spirale autodistruttiva di Howard Ratner, gioielliere compulsivo e visionario, incarnato da un Adam Sandler inedito e magnetico (al quale Josh dedicherà il film tv Adam Sandler - Love You del 2024), con uno stile ipercinetico, amplificato, di urgente alienazione.
Solo nel 2025, i due fratelli si staccheranno e Josh tornerà a lavorare da solo per dirigere Timothée Chalamet in Marty Supreme, ennesimo film ambientato tra le atmosfere decadenti di New York (ma stavolta una New York Anni Cinquanta), con la scalata di un giovane outsider che sogna la gloria nel mondo del ping pong (si è ispirato liberamente alla figura reale di Marty Reisman, leggendario giocatore e scommettitore).
I video musicali
Assieme al fratello, Josh Safdie ha diretto i videoclip dell'amico Oneohtrix Point Never ("The Pure and the Damned" e "Lost But Never Alone"), che ha curato la colonna sonora di alcuni dei loro film, ma anche di Jay-Z ("Marcy Me").
La carriera di attore
Anche attore, ha recitato non solo in alcuni dei corti che lui stesso ha diretto con il fratello, ma ha avuto piccoli ruoli in pellicole di altri autori. Nel 2008, è infatti apparso in Yeast di Mary Bronstein, ma anche in Motel Woodstock (2009) di Ang Lee, Hellaware (2013) di Michael M. Bilandic (2013), Stand Clear of the Closing Doors (2013) di Sam Fleischner, Questo sentimento estivo (2015) di Mikhaël Hers, My Art (2016) di Laurie Simmons e in Ezer Kenegdo (2017) di Deniz Demirer e Daniel Kremer.
La carriera di produttore
Come produttore, ha vinto un Emmy per il documentario Pee-wee (2025), ma è noto per aver finanziato anche altre opere come Telemarketers (2024), il già nominato Adam Sandler - Love You (2025) e Ren Faire (2025).