This Must Be the Place |
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Un film di Paolo Sorrentino.
Con Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Harry Dean Stanton, Joyce Van Patten.
continua»
Drammatico,
durata 118 min.
- Italia, Francia, Irlanda 2011.
- Medusa
uscita venerdì 14 ottobre 2011.
MYMONETRO
This Must Be the Place
valutazione media:
3,62
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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La rinascita onirica di Cheyennedi osteriacinematografoFeedback: 4575 | altri commenti e recensioni di osteriacinematografo |
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sabato 3 marzo 2012 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
John Smith, più noto semplicemente come Cheyenne, è una rock star in pensione, che raggiunse l’apice del successo negli anni ottanta come front man del gruppo “Cheyenne & The Fellows”. Vive di rendita con la moglie in una ricca magione irlandese, curando le sue azioni in borsa e la vita sentimentale di una fanciulla. Il suo aspetto è rimasto quello degli anni 80, indossa abiti e occhiali neri ha il volto truccato e una folta chioma scomposta; attraversa un tempo lento e compassato come i suoi stessi micromovimenti, che si producono al fianco di un carrello della spesa lo accompagna come un’ombra meccanica. Cheyenne riceve improvvisamente la notizia che il padre è malato di una malattia chiamata vecchiaia, e parte per gli Stati Uniti. Sceglie il percorso via mare, a causa della fobia degli aerei, e nel tempo prolungato del tragitto marittimo il padre muore. A New York l’uomo scopre che il padre effettuava delle ricerche su un tale di nome Aloise Lange, un ufficiale nazista che lo aveva umiliato durante la prigionia ad Auschwitz. Contatta Mordecai Midler, un facoltoso e determinato cacciatore di nazisti; prende in prestito il pick-up di un uomo d’affari, e inizia un lungo viaggio di ricerca che lo condurrà prima in Michigan, e poi giù fino al New Mexico, allo Utah, e oltre lo spazio fisico dei confini americani. Cheyenne risale a Lange col concorso inconsapevole della moglie e della nipote di lui e del deus ex machina Midler, dopo aver incontrato gli strambi personaggi di cui è popolata la provincia americana, l’America vera (Harry Dean Stanton in particolare interpreta l’inventore delle valigie a rotelle). Lo scenario cambia notevolmente, ma l’approccio di Cheyenne alla realtà rimane il medesimo: la confusione metropolitana prima e le sterminate e mutevoli distese statunitensi sostituiscono la tranquillità rurale irlandese, così come un trolley –che è più protesi che bagaglio- prende il posto dell’inseparabile carrello della spesa; John si accosta alle persone con la solita affabile e pacata tranquillità, con un disincanto che lo cala nell’insieme con leggerezza ed estemporaneità, quasi fosse un corpo estraneo a tutto il resto, agli avvenimenti, al fuoco che divampa nel motore del pick-up davanti al suo corpo immobile. “Qualcosa mi ha turbato, non saprei dire cosa, ma qualcosa mi ha turbato”- ripete di tanto in tanto il protagonista del film, che nel viaggio alla ricerca di un nazista vince le proprie paure e ritrova se stesso, uscendo dal limbo in cui troppo a lungo è vissuto, liberandosi di una maschera che rappresenta il passato e forse l’infanzia stessa, sganciandosi definitivamente dal carrello e dal trolley che rappresentano al contempo un’intima coperta di Linus e il pesante fardello di situazioni irrisolte e sospese: Cheyenne in un certo senso trova l’interruttore con cui poter rimettere in play una vita che pare un fermo immagine, liberandosi della noia e delle simboliche zavorre dietro cui si cela e rinasce John Smith. Sean Penn si presta all’ennesima trasformazione, mettendo in scena un personaggio memorabile: il suo modo lento e goffo di porsi, di parlare, di ridere persino, i suoi passi legnosi e appena accennati vengono riequilibrati dal contrappeso di due occhi attenti e penetranti che rivelano sensibilità ed ironia, e un’intelligenza sagace e profonda. Sorrentino scrive e dirige un’opera toccante e splendida dal punto di vista visivo: il suo esercizio di stile non è fine a se stesso, e ogni immagine è un quadro in movimento, ogni suo quieto indugiare accompagna con delicatezza le movenze misurate del protagonista; ogni singolo personaggio più o meno accentuato fa parte di un insieme armonioso e del percorso di un uomo che sembra cercare il proprio inventore per risolvere una tara del sistema di cui egli stesso è padrone. Ogni tappa del viaggio di Cheyenne, ogni singolo sguardo del film rappresentano i capitoli simbolici di una rinascita al rallenty, di una danza lenta e liberatoria, di un percorso romantico e immaginario che ricorda le eleganti e flessuose attitudini espressive di “My blueberry nights” di Wong Kar-wai.
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