“Marigold hotel” racconta la storia di sette inglesi attempati che decidono per i motivi più disparati di recarsi in India per trascorrere i loro ultimi anni di vita in un mondo antitetico alla sobria e ordinata Inghilterra.
Evelyn (Judy Dench) è una vedova che deve fare i conti con i debiti del marito, e che compie la prima scelta “indipendente” della sua esistenza; Muriel (Maggie Smith) è una ex governante rigida e xenofoba, alle prese con un intervento al femore che sceglie di fare a Mumbai per ovviare alle liste d’attesa inglesi; Graham (Tom Wilkinson) è un giudice in pensione omosessuale con un passato misterioso in India; Douglas e Jean (Bill Nighy e Penelope Wilton) sono una coppia in crisi dopo quarant’anni di matrimonio; Norman e Madge (Ronald Pickup e Celia Imrie) sono due single alla perpetua ricerca di una nuova avventura.
Le vite e le vicende di questi individui s’intrecciano nel cuore pulsante del Rajasthan, al Marigold Hotel, una struttura gestita dal giovane e maldestro Sonny (Dev Patel), che si rivela ben presto più fatiscente di quanto il titolare sostenesse: il Marigold è infatti un palazzo esotico e affascinante, ma in evidente stato di degrado.
I protagonisti si trovano ben presto immersi in una realtà inimmaginabile, storditi dai colori, dai sapori e dagli odori di una terra travolgente che accosta un’intensa spiritualità a un caos ininterrotto, che vede cadenti baracche a ridosso di strutture opulenti e modernissime.
“Come i fringuelli di Darwin, ci stiamo lentamente adattando all’ambiente circostante, e chi riesce ad adattarsi, mio dio, quanta ricchezza trova! Il passato non torna più, non importa quanto lo desideri, resta solo un presente che prende forma mano a mano che il passato si ritira”- scrive Evelyn nel suo blog, ponendo l’accento sullo spirito di adattamento necessario ad affrontare ogni cambiamento.
I personaggi si disvelano per gradi, con modulazione e riservatezza. C’è chi, come Graham, conosce già quel mondo per averlo vissuto, e si muove con disinvoltura alla ricerca di un passato scabroso; c’è chi, come Muriel, sfida i propri limiti entrando in contatto con un Paese di cui diffida, prima di divenirne complice; chi, come Evelyn, trova la sua prima occupazione per mantenersi, scoprendo una parte sconosciuta di sé; e chi, come Norman e Madge, ripete i soliti schemi d’approccio con diversa energia e con alterne fortune; ma la rottura più consistente si verifica fra Douglas e Jean: mentre l’uomo si rivela curioso di conoscere le tradizioni indiane, bramoso di tuffarsi in una cultura in cui intravede una libertà nuova (“La persona che non corre alcun rischio non ottiene niente. Non avrà niente. Tutto quello che sappiamo sul futuro è che sarà diverso.”), la donna rifiuta a prescindere il contatto con quella civiltà e batte i tasti di una nevrosi ossessiva che ne impedisce il movimento stesso (“L’unico vero fallimento è rinunciare a provarci, e il nostro successo dipende da come affrontiamo le sconfitte, perché dobbiamo farlo sempre.”), fino a rivelare una crisi coniugale insanabile.
Sullo sfondo si muove, sotto l’egida di una madre egemone, il goffo e bizzarro Sonny, impegnato allo spasimo nel dare lustro a quel palazzo che lega al ricordo del padre, e nell’intento di sposare Sunaina, la donna che ama, nonostante un matrimonio già combinato.
Da questa variegata miscela di personaggi emerge un’opera agrodolce e delicata, che si posa con grazia fra i variopinti paesaggi del Rajasthan: la storia si dipana attraverso un percorso onirico in cui perfino le tappe più dolorose vengono affrontate in modo lieve, col disincanto e la strana consapevolezza degli anziani, che accettano il fato senza autocommiserarsi, senza rinunciare ai cambiamenti, a una nuova via luminosa e incerta, alla sfida di una vecchiaia che diviene un’altra vita da affrontare con coraggio, con quella linfa senza cui sarebbe inutile e insensato continuare a vivere.
“Marigold hotel” è un’opera poetica e garbata, che si muove sullo schermo in modo tenue e vibrante al contempo. John Madden realizza un film surreale e simbolico, tracciando un sentiero narrativo che galleggia beatamente fra ironia ed emotività, senza mai eccedere, nonostante l’evidenza dei clichè rappresentati dai protagonisti e di una rappresentazione alquanto stereotipata dell’India.
I protagonisti sono mostri sacri del cinema inglese, e questo rende tutto più facile: in particolare, Tom Wilkinson conserva una classe senza eguali; la Dench mostra una forza espressiva devastante e un magnetismo che attrae e pare inafferrabile; Maggie Smith si disimpegna con la solita innata eleganza, lungo il percorso che la conduce dalla debilitazione alla rinascita; Bill Nighy si muove sullo schermo con tratto gentile e aggraziato, quasi fosse sospeso, in assenza di gravità.
I legami che si fanno e si disfano nel film, che si formano dopo una vita intera sono al tempo stesso intensi e leggeri, tanto estemporanei da sembrare inconsapevoli, ma dotati di un’affettività travolgente e solidale, al punto da far pensare e sperare che “andrà tutto bene alla fine, e se non andasse bene, allora, credetemi, significa che non è ancora arrivata la fine”.
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