Dopo quattro premi Oscar, che hanno dato un nuovo impulso alla visione del film presso il grande pubblico, è difficile scrivere qualcosa che non sia già stato detto. Il regista sudcoreano Bong Joon-ho utilizza in quest’opera potente tutti i codici del linguaggio cinematografico, tanto che ciascuno di loro meriterebbe un’analisi approfondita (montaggio, inquadrature, movimenti di macchina, fotografia e luci, sonoro, sceneggiatura): ma qui si entrerebbe nello specialistico. Meglio concentrarsi sul messaggio del regista.
Allora si può affrontare “Parasite” partendo dal contesto sociale di riferimento: la Corea del Sud oggi. Negli anni ’90 era una delle cosiddette Tigri asiatiche per la curva esponenziale dello sviluppo, momentaneamente interrotto dalla crisi del 1997-1998, da cui seppe riprendersi. Ricordiamo le Olimpiadi del 1988, che permisero alla Corea di affacciarsi alla scena internazionale. Ma crescita del PIL non vuol dire benessere generalizzato e lavoro per tutti: anzi, il consolidarsi del capitalismo e delle sue leggi, accentua il gap tra ricchi e poveri.
Già nel 2012 uscì “Pietà”, un film capolavoro dallo stesso Paese (regista Kim Ki-Duk), ambientato nei laboratori artigiani di un sobborgo popolare di Seul degradato, sporco, grigio, sommerso da rifiuti e stridori agghiaccianti, oltre ad essere soggetto a controlli mafiosi). “Pietà” ci mostra disoccupati che si indebitano, non potendo onorare gli interessi pazzeschi del 1000 per cento degli usurai , e finiscono così preda di vendette crudeli e inenarrabili da parte del racket.
“Parasite” ritorna al tema della disoccupazione, che per altro è cavalcato da registi di aree diverse dalla Corea del Sud: si pensi all’Inghilterra (da Peter Cattaneo con il geniale e fortunatissimo “Full Monty” del 1997 all’ultimo di Ken Loach), ma anche all’are balcanica (“Dio è donna e si chiama Petrunya”). Il capitalismo è globale, e così la disoccupazione che la terza rivoluzione industriale, quella dei servizi, dell’automazione e dell’informatica, porta con sé come elemento essenziale, non accidentale (molti ne hanno scritto, ma può bastare l’economista Jeremy Rifkin). Ma cosa significa questo nella vita reale delle persone? Come possono reagire a questa situazione?
Bong Joon-ho mostra una famiglia che, con grande intesa, persegue la strada dell’ascesa furba (tanto furba da sembrare “napoletana”, nel senso buono del termine), ma anche priva di scrupoli. Gli obiettivi dei “piani” della famiglia Kim, che vive in un seminterrato puzzolente, non conoscono deroghe di carattere morale e vanno così a scontarsi con altri “piani” di altri disoccupati. Ne deriva una feroce lotta per la sopravvivenza tra poveri, senza esclusione di colpi, talmente cieca da aver dimenticato, almeno in apparenza, la famiglia ricca Park, che abita in una casa firmata da un architetto famoso, circondata da un parco favoloso.
Nella prima parte del film l’intelligenza e l’astuzia dei giovani (e bellissimi) fratelli Kim sembra avere buon frutto: approfittando dell’assenza della famiglia Park, si illudono di essere padroni di tutto quel ben di dio. Poi il destino ci mette la sua, e tutto rovina, tutto precipita verso il basso, come la pioggia torrenziale che scendendo dai quartieri alti (con una simbologia dello spazio che sembra dantesca) arriva a invadere il seminterrato dei Kim.
Bong Joon-ho dunque sembra concentrarsi sulla violenza che si instaura tra pesci piccoli, nel tentativo di restare a galla. Tuttavia il capofamiglia Kim finirà per prendere di mira anche il signor Park, dirigente industriale, che lo stimava (pur manifestando disagio per l’odore di muffa, o altro, che emanava dai suoi vestiti custoditi sotto il livello del suolo). Perché questo? Forse perché il signor Park teorizza che non bisogna oltrepassare i limiti. Cosa che la famiglia Park ha fatto, con conseguente nemesis (vendetta) per il peccato di ibris (tracotanza). Il film si conclude in modo nichilistico, come l’ultimo di Ken Loach
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