thomas
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venerdì 29 novembre 2019
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stile eccelso - filosofia rasoterra
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Ci sono film che, nel lanciare messaggi evolutivi alle sinapsi degli spettatori, vengono frenati dalla qualità non eccelsa della loro realizzazione.
E ci sono film che migliorano la mente di chi li vede perchè sanno trasmettere un messaggio evolutivo arricchito da tanta qualità artistica.
E poi ci sono i film come "Parasite", che veicolano un messaggio involutivo incartato in una confezione estetica eccellente.
Secondo Bong Joon - Ho i poveri troveranno la loro felicità nella sostanziale accettazione dell'ineluttabilità della propria situazione (vedasi la parte iniziale del film): guai a cercare di prendere l'ascensore per salire la scala socio economica, il risultato sarà sempre la rovina, perchè i poveri non riusciranno mai a non oltrepassare "il limite" .
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Ci sono film che, nel lanciare messaggi evolutivi alle sinapsi degli spettatori, vengono frenati dalla qualità non eccelsa della loro realizzazione.
E ci sono film che migliorano la mente di chi li vede perchè sanno trasmettere un messaggio evolutivo arricchito da tanta qualità artistica.
E poi ci sono i film come "Parasite", che veicolano un messaggio involutivo incartato in una confezione estetica eccellente.
Secondo Bong Joon - Ho i poveri troveranno la loro felicità nella sostanziale accettazione dell'ineluttabilità della propria situazione (vedasi la parte iniziale del film): guai a cercare di prendere l'ascensore per salire la scala socio economica, il risultato sarà sempre la rovina, perchè i poveri non riusciranno mai a non oltrepassare "il limite" ....
E' il "limite" il vero punto centrale della riflessione di "Parasite", la capacità di sapersi disciplinare nel salire la scala sociale.
Più volte nel corso del film il ricco proprietario della casa riflette sul fatto che il suo autista "arriva spesso al limite, ma si sa fermare".
Ma Bong Joon - Ho ci dice che un Parasite prima o poi è destinato a superarlo quel limite, è proprio più forte di lui.
Ecco perchè il finale è un atto di disperazione: l'unico modo perchè un Parasite non superi il limite, rovinando altri e rovinandosi, è nell'accettazione serena dello status quo mascherato dall'illusione (non dalla speranza!) che domani sarà molto meglio di oggi.
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nino raffa
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venerdì 28 febbraio 2020
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la gentilezza dei ricchi
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Seul. I Kim - padre, madre e due figli sull’orlo della miseria, alloggiati in un malsano seminterrato - riescono a farsi assumere in blocco dai ricchi Park, carpendone la fiducia e soppiantando con disonesti stratagemmi la precedente servitù.
I ricchi sono ricchi anche perché sono gentili, oppure sono gentili perché sono ricchi? si chiedono i Kim ubriacandosi sul divano dei Park durante una loro assenza. Dall’alto della scala sociale, i Park invece apprezzano l’apparente compostezza, ovvero il senso del limite, dei Kim. Limite naturalmente stabilito dai Park stessi: paritari e alla mano finché credono che i Kim stiano al loro posto. Del resto i Kim puzzano e quindi ribaltando la domanda iniziale: i poveri sono poveri anche perché puzzano, oppure puzzano perché sono poveri?
Tra questi dilemmi espressi o sottintesi, si dipana Parasite, una tragedia venata di comicità, dall’esatta meccanica e dai significati universali.
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Seul. I Kim - padre, madre e due figli sull’orlo della miseria, alloggiati in un malsano seminterrato - riescono a farsi assumere in blocco dai ricchi Park, carpendone la fiducia e soppiantando con disonesti stratagemmi la precedente servitù.
I ricchi sono ricchi anche perché sono gentili, oppure sono gentili perché sono ricchi? si chiedono i Kim ubriacandosi sul divano dei Park durante una loro assenza. Dall’alto della scala sociale, i Park invece apprezzano l’apparente compostezza, ovvero il senso del limite, dei Kim. Limite naturalmente stabilito dai Park stessi: paritari e alla mano finché credono che i Kim stiano al loro posto. Del resto i Kim puzzano e quindi ribaltando la domanda iniziale: i poveri sono poveri anche perché puzzano, oppure puzzano perché sono poveri?
Tra questi dilemmi espressi o sottintesi, si dipana Parasite, una tragedia venata di comicità, dall’esatta meccanica e dai significati universali. La storia coreana funzionerebbe benissimo a New York, come a Milano o Roma, confermando le sperequazioni sociali come la più riuscita forma di globalizzazione. I poveri, sovrappeso, nelle loro stamberghe piene di cianfrusaglie, si abbuffano di cibo spazzatura; i ricchi in perfetta forma fisica, abitano collinari ville razionaliste dagli arredi minimalisti, facendosi servire raffinati piatti di frutta. Certe schiacciate finestre rasoterra sulla strada danno indecoroso spettacolo della peggiore umanità, mentre ampie vetrate disegnate da prestigiosi architetti si affacciano su curatissimi giardini. La stessa natura completa un fosco quadro di anti-provvidenza: il temporale che romanticamente bagna il prato inglese sulla collina, allo stesso tempo devasta strade e tuguri dei quartieri bassi. Anche l’aria, la notte e la pioggia apparentemente di tutti e per tutti, in realtà dipendono dal censo.
Il regista coreano Bong Joon-ho maneggia pure con destrezza gli stereotipi del genere. I furbi Kim sono uomini del sottosuolo, non solo nella loro casa e nella menzogna, ma nei tavoli e nei letti sotto cui la necessità degli eventi li costringe a nascondersi; un sottosuolo materiale già compiuto senza dover accedere a dostoevskiani recessi psicologici. Al contrario, i Park mostrano una stupidità essenziale, un’ottusità derivante dalla lontana posizione rispetto all’umanità in cui li ha posti il denaro; più gli adulti dei ragazzini, a indicare il pericolo di progressiva corrosione legato alla ricchezza.
Ma forse la riflessione etica più significativa di Parasite riguarda il fatto che almeno uno dei Kim (la madre Chung-sook) proviene da un decoroso passato borghese, in cui ha pure ottenuto dei successi sportivi; anche il figlio Ki-woo, prima debole ed esitante, acquista sicurezza quando ottiene dai Park un lavoro dignitoso che mette a frutto i suoi talenti. Le due opposte parabole sottolineano la naturale vulnerabilità morale di donne e uomini alle circostanze pratiche, affermando che qualsiasi discorso etico o legale in ogni società deve partire da una decente distribuzione delle risorse materiali che mitighi le inevitabili disparità di nascita, talenti naturali e fortuna. Constatazione abbastanza ovvia, ma in genere dolosamente trascurata dai decisori politici.
Dai toni leggeri e dalle minori colpe iniziali il duettare tra i Kim e i Park innescherà presto una serrata, quanto distruttiva, catena di eventi fino al fatale epilogo. L’ottimo Bong Joon-ho non nasconde le sue simpatie, né si preclude la speranza, inventando un quasi-lieto fine onirico per i Kim; ma rappresenta pure una più realistica chiusura della storia, tragica per tutti nell’unica forma di eguaglianza – la catastrofe generale – che gli uomini si sappiano dare. Il limite, una volta custodito dagli dei e sopra di loro dal fato, sfugge dalle mani dei ricchi, che nella moderna tragedia gli dei vorrebbero sostituire. La hybris, la colpa della dismisura, la pagano anche loro.
Ottima pellicola anche dal punto di vista formale. In una controllata successione di stili, la commedia iniziale vira al thriller, fino all’efferato epilogo in chiave quasi horror. Il grottesco e il feroce, che pure sono cifre della narrazione, non eccedono la misura necessaria. Notevole anche la fotografia.
Un’ultima annotazione sul titolo Parasite. I Kim lavorano, quindi, pur con le loro colpe, sarebbero parassiti solo secondo quella bizzarra mentalità che vede il povero comunque scansafatiche e scroccone, punito per questo dalla miseria. Ma forse, più significativamente, Parasite potrebbe alludere ai sempre più numerosi diseredati, privati dal cosiddetto progresso tecnologico pure dallo storico ruolo di manodopera a basso costo, verso un’abbrutita sopravvivenza fatta d’assistenza, criminalità o espedienti.
Dall’altra parte, i ricchi Park sembrano meritare pienamente l’appellativo, per la loro ristrettezza mentale e l’uso sterile della ricchezza. Simbolo di quella piccolissima parte di umanità che detiene le varie forme di potere: (ir)responsabile della cattiva distribuzione e della gratuita consumazione d’immense risorse. Sfruttatori, parassiti – loro sì – del resto dell’umanità e del pianeta.
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zarar
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mercoledì 13 novembre 2019
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un tema forte penalizzato dal virtuosismo
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Apologo sulla società post-industriale con i suoi errori e orrori, questo film è stato accolto con un entusiasmo a mio parere eccessivo. Non che l’opera non abbia aspetti interessanti. Il messaggio che il regista sud-coreano Bong Joon-ho vuol trasmettere, incrociando storie e personaggi della misera famiglia di Ki-Taek e della ricchissima famiglia del signor Park, tocca sicuramente un nervo scoperto: non solo viviamo in una situazione di insostenibile ingiustizia sociale, ma si crea una generale perversione e una infelicità diffusa, perché i pochi ricchi sempre più ricchi sono distrutti da nevrosi e oscuri fantasmi; i molti poveri sempre più poveri per parte loro non sanno più che cosa sia coscienza di classe, non hanno orizzonti alternativi; vivacchiano ai margini della società dei consumi, telefonino in mano, finché non colgono l’opportunità di una vita: fare i parassiti del ricco epulone, come scarafaggi in una dispensa ben fornita, usando la furberia e l’inganno per lucrare sulle nevrosi e le paure dei ricchi e la loro oscura volontà di farsi perdonare la ricchezza.
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Apologo sulla società post-industriale con i suoi errori e orrori, questo film è stato accolto con un entusiasmo a mio parere eccessivo. Non che l’opera non abbia aspetti interessanti. Il messaggio che il regista sud-coreano Bong Joon-ho vuol trasmettere, incrociando storie e personaggi della misera famiglia di Ki-Taek e della ricchissima famiglia del signor Park, tocca sicuramente un nervo scoperto: non solo viviamo in una situazione di insostenibile ingiustizia sociale, ma si crea una generale perversione e una infelicità diffusa, perché i pochi ricchi sempre più ricchi sono distrutti da nevrosi e oscuri fantasmi; i molti poveri sempre più poveri per parte loro non sanno più che cosa sia coscienza di classe, non hanno orizzonti alternativi; vivacchiano ai margini della società dei consumi, telefonino in mano, finché non colgono l’opportunità di una vita: fare i parassiti del ricco epulone, come scarafaggi in una dispensa ben fornita, usando la furberia e l’inganno per lucrare sulle nevrosi e le paure dei ricchi e la loro oscura volontà di farsi perdonare la ricchezza. E per questo non esitano a schiacciare senza pietà altri miserabili concorrenti, in una spirale sempre più feroce. Ma gli equilibri sono troppo precari, la lotta fra poveri presenta le sue vendette, il gioco diventa facilmente pericoloso e la commedia si trasforma prima in insensata caricatura e da un attimo all’altro in dramma, e infine in follia e horror. Possiamo considerare dunque questa storia estrema una audace metafora delle forme deformate dell’odierno conflitto sociale e della disumanizzazione e ferocia dei nostri tempi. Altro elemento a favore del film è la fotografia, che crea luoghi perfetti per il loro valore simbolico, conducendoci dalle altezze di luce nitida e dallo stile levigato e algido del mondo dei ricchi al formicolante e lurido mondo sotterraneo dei poveri, attraverso una fuga di vicoli a scala che segnano una vera e propria discesa agli inferi (vedi la scena bellissima della corsa dall’alto in basso sotto una bomba d’acqua che travolge la città). Con tutto ciò il film non convince fino in fondo. Non c’è coerenza e vera ‘necessità’ nello svilupparsi della narrazione. Il percorso dalla allegra truffa all’horror alla Tarantino del finale suona più come la sperimentazione virtuosistica di registri e cifre stilistiche diverse che come l’articolarsi di una parabola che scivola inesorabile verso il dramma. I segnali sotto traccia che dovrebbero sottilmente indicare i passaggi sono più curiosi che inquietanti; manierismo ed estetismo il più delle volte distraggono e diluiscono l’allarme. Infine il regista sembra non aver deciso fino in fondo che fare degli attori, se ridurli a puri stereotipi e marionette di una storia a tesi unica protagonista o dare loro umanità e profondità psicologica: nel dubbio non sono né carne né pesce, ed è impossibile provare una qualche empatia nei loro confronti. Viene alla mente, a contrasto, il film Un affare di famiglia di Hirokazu Kore'eda, che, pur affine per qualche verso, ha ben altro equilibrio e ben altro livello espressivo.
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ghisi gr�tter
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domenica 10 novembre 2019
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eterno conflitto tra ricchi e poveri
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“Parasite” è una commedia nera piena di sarcasmo e carica farsesca. Un film grottesco, ma anche metaforico, che se da un lato diverte, dall’altro inquieta perché è rivelatore dei grossi problemi sociali e di classe presenti nella Corea del Sud.
Così il film mostra gli strati sociali a Seul: quello dei ricchissimi - che vivono in una splendida villa minimalista - e quello dei poverissimi che vivono in uno scantinato dove sono infestati da scarafaggi e inondati dai bisogni degli ubriachi di passaggio e dove la connessione wi-fi sembra essere un bisogno primario.
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“Parasite” è una commedia nera piena di sarcasmo e carica farsesca. Un film grottesco, ma anche metaforico, che se da un lato diverte, dall’altro inquieta perché è rivelatore dei grossi problemi sociali e di classe presenti nella Corea del Sud.
Così il film mostra gli strati sociali a Seul: quello dei ricchissimi - che vivono in una splendida villa minimalista - e quello dei poverissimi che vivono in uno scantinato dove sono infestati da scarafaggi e inondati dai bisogni degli ubriachi di passaggio e dove la connessione wi-fi sembra essere un bisogno primario.
Ancora più in basso, nei rifugi antiatomici costruiti nel sotterraneo, vivono quelle persone disperate che hanno perso tutto e non hanno di che sopravvivere.
Una famiglia di indigenti - moglie e marito sono senza lavoro e vivono del sussidio di disoccupazione - vive di espedienti e piccoli lavoretti ai margini della legalità e, per guadagnare un po' di soldi, piega i cartoni per le pizze. Abili nella truffa e nel raggiro riescono a infiltrarsi uno ad uno nella sofisticata dimora di una ricca famiglia grazie ai documenti falsi del figlio Ki-woo. Un suo amico infatti, dovendo partire per gli Stati Uniti, gli chiede di sostituirlo come insegnante di inglese della giovane figlia della famiglia Park. Così inizia a lavorare lì, nella splendida villa moderna e man mano riesce a far assumere i vari membri della sua famiglia, senza dire che sono i suoi parenti, facendo licenziare a turno gli attuali inservienti. Il capofamiglia Ki-taek (interpretato dal famoso attore coreano Kang-ho Song) si fingerà un autista esperto, la sorella Ki-jung, una psicologa esperta di pittura che usa come metodo l’art-therapy per il bambino con crisi epilettiche, e infine la madre Chung-sook, si improvvisa una governante tuttofare. Viene così messa in scena la furbizia proletaria ai danni dei ricchi i quali sono rappresentati come persone fiduciose e ingenue e, come nel teatro boulevardier, nessuno è veramente quello che dice di essere.
Ma c’è chi sta ancora peggio: la ex governante da ben quattro anni nasconde il marito nel bunker antiatomico - che vive come i topi senza finestre e senza luce - dilaniato dai debiti e rincorso dai debitori. Infatti, il primo proprietario della villa era un famoso architetto che aveva progettato il rifugio sotterraneo nel timore di una guerra con la Corea del Nord.
Si scatenerà in tal modo una battaglia tra poveri con ricatti e violenze. A scatenare un’ulteriore violenza da parte di Ki-taek sarà l’atteggiamento razzista del padrone di casa che afferma che i poveri puzzano, uno strano odore che hanno anche quelli che vanno in metropolitana.
Come nel recente “Downton Abbey” la suddivisione tra padroni e servi avviene in verticale: sopra, ai piani alti, gli uni, sotto in basso, gli altri. La vista di questi ultimi è sottolineata dal regista Bong Joon-ho con prospettive con il punto di vista in basso - lo usava anche Yasujiro Ozu nella rappresentazione degli interni - che sembrano seguire i personaggi, specialmente nel loro scendere o salire le scale della villa e nel loro essere sempre “sotto”: il letto, il tavolo.
Come mostra Kor-eda in “Affare di famiglia” una famiglia di truffaldini che vive di espedienti e come Yorgos Lanthimos in “Il sacrificio del cervo sacro” in cui la revanche sociale passa per la violenza.
“Parasite” - che è contemporaneamente dramma, melodramma, grottesco e satira - ha già vinto la Palma d’oro a Cannes nel 2019, primo film coreano a ottenere questo premio. È stato selezionato per rappresentare la Corea del Sud ai prossimi Oscar, nella categoria miglior film in lingua straniera.
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(di jack beauregard)
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melina
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giovedì 16 aprile 2020
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parasite
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Dei calzini appesi a un piccolo stendibiancheria da soffitto e la visuale su una strada dalla finestra di un appartamento seminterrato.
Per 30 secondi la scena di apertura resta fissa su quanto descritto dando quasi l’impressione di voler far ambientare lo spettatore al luogo.
L’inquadratura si abbassa lentamente riprendendo un ragazzo che siede tenendo il cellulare che ha tra le mani di fronte al viso:
“Ci hanno fregati, niente più Wi-Fi gratis“. Questa la significativa scena iniziale di un capolavoro che porta la firma di Bong Joon-ho.
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Dei calzini appesi a un piccolo stendibiancheria da soffitto e la visuale su una strada dalla finestra di un appartamento seminterrato.
Per 30 secondi la scena di apertura resta fissa su quanto descritto dando quasi l’impressione di voler far ambientare lo spettatore al luogo.
L’inquadratura si abbassa lentamente riprendendo un ragazzo che siede tenendo il cellulare che ha tra le mani di fronte al viso:
“Ci hanno fregati, niente più Wi-Fi gratis“. Questa la significativa scena iniziale di un capolavoro che porta la firma di Bong Joon-ho.
La storia narra in maniera comico-fiabesca come, dopo aver ricevuto una roccia “porta ricchezze“, la povera famiglia Kim intraprenderà quella che sembra essere a tutti gli effetti un arrampicata sociale, raggirando una ricca famiglia, i Park. Avvicinandosi alla conclusione la vicenda assumerà tinte tragiche con sviluppi inaspettati.
La maestria di Bong Joon-ho sta nel riuscire a mettere alla luce le problematiche relative alle disuguaglianze sociali e le tragiche condizioni di vita delle persone povere attraverso uno stile di recitazione che non rende pesante o impegnativa la visione del film, difatti i momenti in cui lo stile comico non mitizza la tragicità delle situazioni sono ben pochi. L’innesco che farà esplodere i velati sentimenti repressi del signor Kim, più volte discriminato silenziosamente per il suo “odore speciale” definito una peculiarità di chi prende la metropolitana, è il gesto con cui il signor Park, intento a recuperare le chiavi della sua auto, si tappa il naso per non sentire la puzza di un uomo morto esitando per qualche momento prima di afferrarle, mentre in torno a lui si sta consumando una tragedia.
Nel film emerge una filosofia di vita promulgata dal signor Kim nel dialogo che avviene tra lui e suo figlio:
“No, Ki woo sai quale tipo di piano non fallisce mai? Non avere mai alcun tipo di piano, neanche l’ombra. Sai perché? Se elabori un piano la vita non va mai nel verso che vuoi tu (…). Ecco perché non si dovrebbe mai fare un piano. Se non hai un piano niente può andare storto figlio mio.” Quest’idea del non pianificare qualcosa per evitare di rimanere inevitabilmente delusi dalla non attualizzazione di esso, a mio parere, non esprime passività e pessimismo da parte del signor Kim, piuttosto si fa portatrice dell’esperienza che egli ha acquisito vivendo nella miseria. Non fare piani e quindi di conseguenza non rimanere delusi da un esito negativo, dato quasi per certo, è l’unico modo che si ha per tutelarsi. Come biasimarlo?
La ricchezza di questo film è la sua cruda realtà in questa straordinaria e insolita storia di fantasia.
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frascop
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martedì 12 novembre 2019
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tre famiglie ma chi sono i parassiti?
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Bong-Joon-Ho (1969) è lo Spielberg sudcoreano e con questo capolavoro ha vinto a Cannes. La prima parte è divertente, una famigliola che vive in un tugurio sotto la strada cerca di sbarcare il lunario e solo con l’astuzia riuscirà, uno alla volta, a far lavorare i suoi quattro componenti, come se fossero perfetti estranei, al servizio di una ricca famiglia di un manager informatico. Quando una sera la famiglia povera rimasta sola nella villa stupenda sta finalmente assaporando come vivono i ricchi, alla porta suona la vecchia governante. Da questo momento la commedia diventa nera e la tensione sale in un crescendo incredibile. L’atmosfera talvolta è quella di Jordan Peele talvolta di Tarantino, ma c’è chi ha pensato a Bunuel.
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Bong-Joon-Ho (1969) è lo Spielberg sudcoreano e con questo capolavoro ha vinto a Cannes. La prima parte è divertente, una famigliola che vive in un tugurio sotto la strada cerca di sbarcare il lunario e solo con l’astuzia riuscirà, uno alla volta, a far lavorare i suoi quattro componenti, come se fossero perfetti estranei, al servizio di una ricca famiglia di un manager informatico. Quando una sera la famiglia povera rimasta sola nella villa stupenda sta finalmente assaporando come vivono i ricchi, alla porta suona la vecchia governante. Da questo momento la commedia diventa nera e la tensione sale in un crescendo incredibile. L’atmosfera talvolta è quella di Jordan Peele talvolta di Tarantino, ma c’è chi ha pensato a Bunuel. Ad un certo punto nella colonna sonora irrompe “In ginocchio da te” di Gianni Morandi e la storia diventa universale, tra quelli che vivono sopra e quelli che vivono sotto. Speranza non c’è, si può forse sognare ma speranza ormai non c’è più. Un film che ci parla delle nostre vite, con realismo, perchè si vive meglio senza fare piani, così non si subiscono delusioni. La domanda dello spettatore alla fine è inevitabile: chi sono i parassiti?
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fabiofeli
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mercoledì 13 novembre 2019
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"anch'io sarei gentile, se fossi ricca! ..."
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Non c’è grande differenza tra la Seul disastrata ricreata in studio e le città dell’occidente assediate da un caotico disordine urbanistico e gravi problemi ambientali. Nella capitale coreana la povertà è nascosta. L’intera famiglia Kim, costituita da 4 persone, vive di piccoli lavori saltuari; abita in un tugurio seminterrato scroccando la connessione non protetta a internet a chi vive a pianterreno. Il giovane Ki-woo riesce a farsi assumere come insegnante di inglese di Da-hye, una liceale della ricca famiglia Park: come referenza Ki-jung, la sorella di Ki-woo, ha falsificato un certificato di iscrizione all’università e si farà credere insegnante di belle arti, adatta a sviluppare le qualità del piccolo Da-song; quest’ultimo è scolaro alle elementari con propensione al disegno horror, viziatissimo dai Park e segnato dal ricordo traumatico di un “fantasma” apparso ad una sua festa di compleanno.
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Non c’è grande differenza tra la Seul disastrata ricreata in studio e le città dell’occidente assediate da un caotico disordine urbanistico e gravi problemi ambientali. Nella capitale coreana la povertà è nascosta. L’intera famiglia Kim, costituita da 4 persone, vive di piccoli lavori saltuari; abita in un tugurio seminterrato scroccando la connessione non protetta a internet a chi vive a pianterreno. Il giovane Ki-woo riesce a farsi assumere come insegnante di inglese di Da-hye, una liceale della ricca famiglia Park: come referenza Ki-jung, la sorella di Ki-woo, ha falsificato un certificato di iscrizione all’università e si farà credere insegnante di belle arti, adatta a sviluppare le qualità del piccolo Da-song; quest’ultimo è scolaro alle elementari con propensione al disegno horror, viziatissimo dai Park e segnato dal ricordo traumatico di un “fantasma” apparso ad una sua festa di compleanno. I Park fanno parte dell’ upper class di Seul e sono creduloni e gentili. “Anche io sarei gentile, se fossi ricca!” commenta Chung-sook, madre dei giovani Kim, brava in cucina. Grazie alla creduloneria dei Park spodesta la governante della lussuosa magione e, infine, lì viene accolto anche il marito Ki-taek (Song Kang-ho) come autista al posto del precedente, licenziato per uno sporco trucco ideato da Ki-jung. I 4 si sono installati senza intoppi nella “casa d’autore” con la menzogna e tutto sembra filare liscio. Ma ci sono anche altri che raccontano frottole …
Il regista coreano Bong Joon-ho collabora alla sceneggiatura del film tratto da un libro di successo e sa creare la giusta concatenazione di fatti che portano a binari obbligati con l’inevitabile scontro di treni in corsa. Le scorciatoie ideate dai vari personaggi per una emersione nel sociale sono gradini-trabocchetto, pioli di una scala che cedono sotto il peso di chi li calpesta: come in un cinico gioco dell’oca si “cade nel pozzo” e si torna alla casella di partenza. Per emergere, venir fuori bisogna lavorare duramente e studiare, ed poi ancora lavorare e studiare: è questa la condizione, necessaria ma non sufficiente, per fare denaro e vivere una vita agiata, fuori da marginalità, precarietà ed indigenza. E’ sempre e solo il sogno americano del self-made-man (o della self-made-woman) da raccontare a chi ci vuole credere e rimane nel seminterrato senza ribellarsi, uscendo fuori, stanato solo in caso di alluvione per non finire come i topi che colonizzano le fogne delle odierne metropoli. L’amara morale del film è che i ricchi sono democratici, finché non si invadono i loro spazi: accettano la vicinanza dei poveri anche se questi hanno addosso un certo “puzzo”, ma il difetto – seppure chiaramente percettibile – non deve superare un certo limite. Tra i poveri, dediti al si salvi chi può, non c’è alleanza, né coesione e tanto meno solidarietà; una volta erano riuniti in una “classe sociale” (il proletariato), ma ora essi sgomitano per restare individualmente a galla e subiscono una grave sconfitta di fronte a un capitalismo asso pigliatutto. L’ottima fotografia si affianca al montaggio, con una raffinata e divertente ironia pur nella tragedia; la colonna sonora musicale riserva anche la sorpresa di un Gianni Morandi “d’epoca”. Tutto funziona, compresa la recitazione, per afferrare la Palma d’oro al Festival di Cannes 2019. Da non mancare.
Valutazione ****
FabioFeli
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adriana moltedo
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lunedì 11 novembre 2019
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la puzza di parassita fa scoppiare la furia
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Parasie.
Il 50enne Bong Joon-ho nato nella Corea del Nord, ci regala un film straordinario.
Parasite.
Il fil narra di tre famiglie, a loro modo molto unite tra loro.
Una povera, formata da marito, interpretato dal grande attore coreano Kang-ho Song, moglie, una figlia e un figlio.
!Qui nonostante i quattro vivano in un tugurio sottoscala, pieno di rumori e inondato di di disinfestazione, dai colori vivacissimi si evince il loro rapporto affettivo molto solido.
Sono praticamente in un basso napoletano. I quattro ridono,scherzano, cantano, si arrangiano come possono, rubano e sono uniti nello stare insieme così.
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Parasie.
Il 50enne Bong Joon-ho nato nella Corea del Nord, ci regala un film straordinario.
Parasite.
Il fil narra di tre famiglie, a loro modo molto unite tra loro.
Una povera, formata da marito, interpretato dal grande attore coreano Kang-ho Song, moglie, una figlia e un figlio.
!Qui nonostante i quattro vivano in un tugurio sottoscala, pieno di rumori e inondato di di disinfestazione, dai colori vivacissimi si evince il loro rapporto affettivo molto solido.
Sono praticamente in un basso napoletano. I quattro ridono,scherzano, cantano, si arrangiano come possono, rubano e sono uniti nello stare insieme così.
Tutto intorno è come loro ma i colori brillano.
Anche fuori dalle loro finestre, i colori e le luci della città illuminano il basso.
La seconda famiglia è molto benestante.
Qui i colori non brillano. Probabilmente è solo una questione di classe sociale.
L'architettura della loro casa è di un'eleganza suprema, opera di un famoso architetto.
Una casa enorme con parco stupendo.
Anche questa famiglia è una famiglia unita. I coniugi e i figli adorati si amano tra di loro.
La terza famiglia vive nel bunker sotterraneo della villa, di cui i proprietari non sono al corrente.
Moglie e marito si nascondono uscendo solo quando i proprietari non sono in casa, da una porta segreta per mangiare.
Qui i colori non esistono. Solo il sangue rosso che scorrerà lungo le scale, avrà il colore forte della morte.
Casualmente la prima famiglia invaderà la seconda e la terza.
La puzza di parassita farà scoppiare la furia.
La straordinaria fotografia è di Hong Kyung-po.
Il film è stato premiato al Festival di Cannes.
Adriana M
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alesimoni
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mercoledì 13 novembre 2019
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esilarante.inquietante
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Gran film. Dura e spietata analisi delle differenze tra classi sociali, che fa sorridere in moltissime scene ma che lascia un'angoscia di fondo che ti segue anche nei giorni successivi alla visione del film. Non è facile trovare un equilibrio così efficace tra l'ansia di denuncia e i conseguenti pugni nello stomaco che ne derivano e una cornice da commedia, ma il buon Bong Joon-ho, giustamente Palma d'Oro (vinta contro gente del calibro di Tarantino e Almodovar). La rappresentazione della gerarchia sociale è di tipo dantesco se vogliamo: i ricchi sopra, i poveri sotto: sia nell'ambiente in cui vivono le famiglie (interessantissimo anche il riproporsi del medesimo tema all'interno dell'abitazione stessa che si erge a protagonista e parte integrante del film) , ma anche in alcune situazioni manifesto come la scena del divano o loro che corrono verso casa tra la pioggia , come topi.
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Gran film. Dura e spietata analisi delle differenze tra classi sociali, che fa sorridere in moltissime scene ma che lascia un'angoscia di fondo che ti segue anche nei giorni successivi alla visione del film. Non è facile trovare un equilibrio così efficace tra l'ansia di denuncia e i conseguenti pugni nello stomaco che ne derivano e una cornice da commedia, ma il buon Bong Joon-ho, giustamente Palma d'Oro (vinta contro gente del calibro di Tarantino e Almodovar). La rappresentazione della gerarchia sociale è di tipo dantesco se vogliamo: i ricchi sopra, i poveri sotto: sia nell'ambiente in cui vivono le famiglie (interessantissimo anche il riproporsi del medesimo tema all'interno dell'abitazione stessa che si erge a protagonista e parte integrante del film) , ma anche in alcune situazioni manifesto come la scena del divano o loro che corrono verso casa tra la pioggia , come topi. Geniale, toccante e inquietante il modo in cui viene mostrato (e squarciato...) il falso velo perbenista di cui sono ricoperti i ricchi. Gran regia, ottimo il cast.Tra i top film del 2019.
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carlosantoni
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giovedì 19 marzo 2020
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hegel in corea
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Tutto fa di questo lavoro di Joon-ho un film strepitoso, che merita di essere visto, nonostante la tensione emotiva e i sentimenti contrastanti che suscita, dato il contenuto narrativo che, attraverso una descrizione simbolica che assomiglia alla struttura di una fiaba, in fondo ci parla di quanto più concreto e comune ci sia al mondo: ci parla di lotta di classe. E se certe recensioni giustamente avvertono in questo film echi di Hanecke, immagino per “Funny Games” e Lathimos per “Il sacrificio del cervo sacro”, io penserei anche a “Il servo” di Losey, per quel rapporto dialettico servo-padrone di cui ci parla Hegel nella sua “Fenomenologia dello spirito”.
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Tutto fa di questo lavoro di Joon-ho un film strepitoso, che merita di essere visto, nonostante la tensione emotiva e i sentimenti contrastanti che suscita, dato il contenuto narrativo che, attraverso una descrizione simbolica che assomiglia alla struttura di una fiaba, in fondo ci parla di quanto più concreto e comune ci sia al mondo: ci parla di lotta di classe. E se certe recensioni giustamente avvertono in questo film echi di Hanecke, immagino per “Funny Games” e Lathimos per “Il sacrificio del cervo sacro”, io penserei anche a “Il servo” di Losey, per quel rapporto dialettico servo-padrone di cui ci parla Hegel nella sua “Fenomenologia dello spirito”. O anche a “Quel che resta del giorno” di Ivory (non a caso tratto da un romanzo di Ishiguro, autore così vicino culturalmente e geograficamente alla Corea) facendo però presente che mentre Mr. Stevens, il protagonista di quest’ultimo film, è di fede incrollabilmente servile, in “Parasite” il servo, la servitù, si rovescia alla fine in aperta e furiosissima ribellione verso il padrone.
Chi è dunque il parassita cui allude il titolo? Colui che s’insinua con l’inganno nella villa meravigliosa di un ricchissimo signore, per trarne una fonte di salario e così sfuggire a una vita destinata ad essere vissuta come e insieme a insetti, in un lurido seminterrato, o chi seppur raggirato vive in un mondo tanto meraviglioso quanto ovattato e distantissimo dalla condizione esistenziale di una marea di reietti? Questa domanda s’impone, quasi subito, quando le due condizioni di vita, quella della famiglia del giovane Ki-woo, e quella della ricchissima famiglia Park: la quale vive in una straordinaria villa-bunker con parco, in cima a una collina (la via d’accesso mette sempre in mostra una ripida salita) un mondo empireo che pretende di essere e restare del tutto avulso dal brulicare dei poveracci che abitano la città bassa, che sopravvivono di lavori miseri e le cui catapecchie sono facilmente allagate e spazzate via da una banale pioggia torrenziale.
C’è qualcosa di profondamente simbolico che unisce le due realtà sociali, così ferocemente polarizzate, ed è quella porta nera, perennemente nera, che dal salone amplissimo al piano terra della villa conduce attraverso uno spaventoso cordone ombelicale, nelle profondità labirintiche costituite da cupi antri in cemento armato sottostanti alla villa vera e propria, i quali, par di capire, sfuggono alla conoscenza e comunque all’interesse dei padroni di casa: in fondo, per quanto immensi, sono locali di sgombero, cantine, depositi forse, comunque locali che solo la servitù è destinata a frequentare, non certo i signori. Un po’ come i membri della famiglia Agnelli o Rothschild o Soros certamente non conoscono, delle decine di ville e castelli che si ritrovano a giro per i paradisi fiscali di tutto il mondo, le soffitte o le rimesse.
Ma poi la dialettica hegeliana entra in gioco, e mentre i padroni non sanno fare a meno del lavoro salariato dei loro servi, vera intermediazione tra il loro empireo e il concreto quotidiano, altrimenti per essi inattingibile, ecco che i servi appena possono si approfittano di questa unilateralità esistenziale dei padroni, di questa loro incapacità di vivere senza fare a meno del lavoro salariato, e li infinocchiano facilmente, giocando sulle loro oggettive debolezze, imponendosi, fino poi ad appropriarsi (seppur solo temporalmente) della loro casa e delle loro cose, disponendone a piacimento.
Alla fine, dopo vari rovesciamenti che la trama, ricca ma lineare, ci apparecchia, c’è la nemesi. E chi si meritava di pagare, anche se non sa di meritarlo, paga. La dialettica hegeliana si fa sentire perfino in una rivisitazione della dantesca legge del contrappasso, cosicché Ki-taek, cioè il padre del giovane protagonista Ki-woo e di sua sorella Ki-jeong, alla fine si ritrova rinchiuso in quello stesso labirinto nel quale aveva cercato di rinchiudere la vecchia governante e suo marito.
Se la porta oscura è simbolo delle due realtà sociali, l’una solare, apollinea, tutta armonia, giardini curatissimi, boschetti di bambù e musica al violoncello, l’altra ctonia, tellurica, la “pietra della ricchezza” ne costituisce il totem: il quale, dopo varie vicissitudini, darà finalmente segno agli spettatori di una qual forma di Aufhebung, una volta calata nell’acqua pura di un torrente, e lì finalmente lasciata a riposare, assieme ad altre a essa simili.
Tra gli attori, tutti bravi, secondo me eccellono Choi Wooh-shik, che interpreta il giovale Ki-woo, e Song Kang-ho che ne interpreta il padre Kim ki-taek. La fotografia è prodigiosa, soprattutto direi nelle lente riprese notturne all’interno della villa, quando più o meno tutti i protagonisti si ritrovano (all’insaputa dei padroni) all’interno della sala: marito e moglie a masturbarsi reciprocamente sul divano, la servitù nascosta ai loro sguardi sotto un tavolo basso. Ugualmente geniali le riprese del budello in cemento armato, illuminato da una fioca luce livida, verdastra, claustrofobico quanto basta dal far passare una persona alla volta, e che ripidamente porta giù, nelle profondità… O le riprese della pioggia torrenziale fuori e dentro la stamberga della famiglia Kim, completamente sommersa dall’acqua, col wc che rigurgita escrementi, e lattine altri oggetti galleggianti in un caos infernale.
Anche la colonna sonora è curata, e va da composizioni minimaliste e morbide, a brani di Haendel a, curiosamente e per me incomprensibilmente, “In ginocchio da te” di Gianni Morandi.
Complimenti a Bong Joon-ho!
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