marcobrenni
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lunedì 17 febbraio 2020
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brillante tragicommedia sulla ingiustizia sociale
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Finalmente con Bon Joong ho, si ritorna a fare del vero cinema senza l'ausilio di inuitili-disturbanti effetti speciali, ma con l'ingegno, la fantasia, la vera creativtà, la grande recitazione, il paradosso, il giostrare tra realtà e il surreale-onirico. Solo eccelsi registi sono capaci di sfruttare le incredibili possibilità che offre il mezzo cinematografico che va ben oltre le limitate possibilità del teatro. Grandi esempi del passato sono ad es. Fellini, Bergman, Bunuel, Altman, Allen, ecc. e nei tempi più recenti ad es. un Inarritu. Purtroppo oggi si pensa che bastino gli effetti speciali computerizzati per "andare oltre": eh no, facile, troppo facile! Bisogna saper far far vivere metafore, giochi spazio-temporali, paradossi, realtà/surrealtà senza ricorrere all'ausilio di supoporti informatici che spesso risultano ridondanti, ripetitivi e persino irritanti (salvo forse per i teenager).
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Finalmente con Bon Joong ho, si ritorna a fare del vero cinema senza l'ausilio di inuitili-disturbanti effetti speciali, ma con l'ingegno, la fantasia, la vera creativtà, la grande recitazione, il paradosso, il giostrare tra realtà e il surreale-onirico. Solo eccelsi registi sono capaci di sfruttare le incredibili possibilità che offre il mezzo cinematografico che va ben oltre le limitate possibilità del teatro. Grandi esempi del passato sono ad es. Fellini, Bergman, Bunuel, Altman, Allen, ecc. e nei tempi più recenti ad es. un Inarritu. Purtroppo oggi si pensa che bastino gli effetti speciali computerizzati per "andare oltre": eh no, facile, troppo facile! Bisogna saper far far vivere metafore, giochi spazio-temporali, paradossi, realtà/surrealtà senza ricorrere all'ausilio di supoporti informatici che spesso risultano ridondanti, ripetitivi e persino irritanti (salvo forse per i teenager). Qui l'eterno conflitto sociale, o vera lotta di classe (!) assume aspetti tragicomici che passano dall'iniziale a commedia ilare, alla tragedia finale, che solo a prima vista può sembrare eccessiva ma che - ricordiamolo - sempre più spesso accade nella nostra contraddittoria reatà postmoderna. Vedasi ad es. il femminicidio dilagante, le sparatorie all'impazzata soprattutto negli States, ma anche altrove, persino in Asia. Dopo sempre ci si chiede stupiti: "Ma come è potuto accadere? Devono essere dei pazzi furibondi". Eh no, non sempre si può prendere a scusante la follìa: l'esasperazione, il senso di frustrazione-umiliazione da continue ingiustizie subite possono portare al "folle gesto". Poi, il tutto nei processi vien liquidato con qualche grado di "scemata responsabilità" secondo il parere dei guru della psichiatria. Non è sempre così semplice: questo film mostra come membri di una famiglia, sia pur poverissima, ma all'inizio moralmente sana, a seguito di ingiustizie vere o presunte tali, di confronti sociali insostenibili, di frustrazioni represse per anni, possano trasformasri in veri mostri. In buona sostanza, è una lotta di classe portata agli estremi dall'esasperazione (!) ove dapprima ci si limita a giocare d'astuzia ("la necessità aguzza l'ingegno"), ma poi lo scontro fra certo infantilismo esibizionista da "nouveaux riches" e la povertà umiliata, finisce per esplodere in un bagno di sangue che fa sobbalzare-rabbrividire. Notevole pure l'idea del mondo sotterraneo fatto di profondissime oscure cantine ricavate da ex bunker della guerra di Corea, che rievocano l'inferno, mentre sopra vi è il mondo solare e paradisiaco della luminosissima villa milionaria, dal prestigioso design architettonico.
Grande merito pure agli ottimi attori, all'incredibile ritmo di narrazione, al sapiente utilizzo di forti contrasti, al saper giostare fra il reale e il surreale, a volte pure carico di simbolismi: tutto quanto riconducibile alla regia da vero maestro del cinema. Il voto 5 stelle potrebbe apparire un po' eccessivo, ma vista la rarità di opere di simile contenuto, impegno e calibro, rievocanti pure il grande cinema metaforico del passato, mi sono sentito in dovere di attribuire in tutta serenità.
Oscar e premi meritatissimi!
Marco Brenni
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felicity
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lunedì 2 marzo 2020
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magistrale, tecnicamente impeccabile, divertente
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In un’epoca di fratture sociali sempre più profonde e laceranti, Parasite mette in scena un’eccellente parabola della lotta di classe, ora riproposta in una dimensione domestica.
Il regista si destreggia con profonda arguzia e gusto satirico tra la commedia e il dramma sociale, fino al thriller dalle tinte scure.
In Parasite assume un ruolo, assolutamente determinante e simbolico, lo spazio; o meglio le case, i luoghi dove le famiglie vivono, e si fanno carico di raccontare la storia.
La prima, un seminterrato squallido, dagli spazi stretti e angusti, tra le cui quattro mura i Ki-taek si dimenano alla ricerca di un segnale wi-fi senza password, e una minuscola finestra che dà su un vicolo usato dagli ubriachi per urinare.
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In un’epoca di fratture sociali sempre più profonde e laceranti, Parasite mette in scena un’eccellente parabola della lotta di classe, ora riproposta in una dimensione domestica.
Il regista si destreggia con profonda arguzia e gusto satirico tra la commedia e il dramma sociale, fino al thriller dalle tinte scure.
In Parasite assume un ruolo, assolutamente determinante e simbolico, lo spazio; o meglio le case, i luoghi dove le famiglie vivono, e si fanno carico di raccontare la storia.
La prima, un seminterrato squallido, dagli spazi stretti e angusti, tra le cui quattro mura i Ki-taek si dimenano alla ricerca di un segnale wi-fi senza password, e una minuscola finestra che dà su un vicolo usato dagli ubriachi per urinare. La seconda, una lussuosa villa progettata da un famoso architetto, e un enorme vetrata su un giardino baciato dal sole, che genera tanta invidia nella famiglia di reietti sociali. Proprio quel giardino sarà il teatro dell’esplosione drammaturgica finale, e luogo della memoria tanto amaro.
Seppure si passi da una rappresentazione di genere ad un altro, il regista riesce a direzionare il film, e i suoi personaggi con esso, verso una spirale discendente verso la tentazione e i suoi demoni. Bong Joon-ho è tanto ispirato nella componente narrativa – innalzandosi a dio efferato e feroce della sua creazione condotta ad un climax inevitabile – quanto in quella registica.
A rendere Parasite il film paradigma degli anni che viviamo probabilmente è la trama, l’invenzione di questi parassiti dei parassiti che svelano altri parassiti.
Ma è la mano di Bong Joon-ho, la maniera in cui lavora tra primo piano e sfondo a fare la differenza. Il suo stile prevede che le informazioni non le prendiamo solo da ciò che accade in primo piano, ma che quel che il film ci dice o che una scena ci dice venga sempre dall’interazione tra il primo piano e il secondo piano, tra le due persone che parlano e le altre due che nello sfondo stanno facendo qualcos’altro, qualcosa di fondamentale.
Proprio da quella relazione, dal fatto magari che le prime due non vedano, non sentano o scelgano di trascurare le seconde, viene tutto il senso.
È un modo di fare cinema complicato molto appoggiato alle immagini, impossibile da copiare se non si ha quella testa e terribilmente coinvolgente, perché mette sempre lo spettatore nella condizione di operare delle piccole e facili decodifiche delle immagini.
Interpretando, capendo e facendosi una propria idea non sì è solo destinatari dei dialoghi, ma si interagisce con le immagini, le si capisce e capendole si viene a sapere qualcosa di più sulla storia. Un esercizio di attività che consente a Parasite di dire molto più di quel che svelano i suoi eventi.
Parasite è costruito secondo un registro impeccabile, dalla composizione geometrica delle scene fino al montaggio, determinando magnifici contrappunti antitetici tra le inquadrature e le musiche, con un gusto pop per l’antifrasi.
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francesco maria ricciardi
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mercoledì 12 febbraio 2020
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la maschera nuda della miseria
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Grottesco, claustrofobico, feroce, radicale, "Parasite" ripropone la tematica della scalata sociale fondendo la visione verghiana del conflitto fra classi con la rigidità fatalista e castale del mondo orientale. Protagonista è la tensione dicotomica alto/basso, che attraversa spazi, gruppi sociali e singoli individui, per mostrare quanto le più forti aspirazioni possano nutrirsi degli istinti meno nobili e condurre ad ineluttabili esiti catastrofici. Gli ambienti, ora squallidi, fatiscenti, ora eleganti e luminosi, enfatizzano successi e sconfitte, rendendo palpabile la bruttura fisica e morale della povertà in contrapposizione al geometrico equilibrio invariabile della ricchezza.
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Grottesco, claustrofobico, feroce, radicale, "Parasite" ripropone la tematica della scalata sociale fondendo la visione verghiana del conflitto fra classi con la rigidità fatalista e castale del mondo orientale. Protagonista è la tensione dicotomica alto/basso, che attraversa spazi, gruppi sociali e singoli individui, per mostrare quanto le più forti aspirazioni possano nutrirsi degli istinti meno nobili e condurre ad ineluttabili esiti catastrofici. Gli ambienti, ora squallidi, fatiscenti, ora eleganti e luminosi, enfatizzano successi e sconfitte, rendendo palpabile la bruttura fisica e morale della povertà in contrapposizione al geometrico equilibrio invariabile della ricchezza. Il desiderio di elevarsi si declina in orchestrazione di furbizia prevaricativa ed inganno, che incontra tuttavia l'ostacolo insormontabile della fissità congenita di ruoli e condizioni: la miseria è intesa come tratto biologico e dato sensoriale, un marchio olfattivamente riconoscibile e fastidiosamente ineliminabile. Lo scontro più cruento avviene però all'interno del medesimo ordine di censo, a significare che la guerra fra poveri è il limite che frustra ogni velleità di improvvido cambiamento. Se la scaltrezza consente l'ascesa precaria di Ki-woo e dei suoi familiari, lo spirito di sopravvivenza li mette in contatto con un mondo infero, d'ogni luce muto, rivelando un abisso più nero della loro infelice situazione di partenza, in cui si sono aggrumati follia ed ostinato attaccamento alla vita. Il registro del film muta d'accento, da beffardo diventa brutale, a sottolineare la polarizzazione della faida: il parassita, dopo aver pasciuto sull'opima ingenuità ed inconsapevolezza del suo ospite, deve liberarsi dei rivali suoi simili. Nell'agone, che trascolora in tinte sempre più surreali, uno solo o nessuno è destinato a salvarsi. Vendetta e raptus d'orgoglio gridano furenti nell'epilogo e sugellano lo scacco definitivo, in cui si assiste alla volontaria, inevitabile inumazione del vinto nell'avello della sua impotenza. Il finale, regressivo e determinista, registra il fallimento anche attraverso l'involuzione dei mezzi di comunicazione: dagli accessi abusivi via rete di un'interazione superficiale, dematerializzata, che non attenua divari, si riscopre il valore simbolico del codice morse e la matericità della scrittura epistolare, la sola capace di unire i superstiti nell'illusione (scevra però della minima concreta speranza) che il domani possa essere un giorno migliore.
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(di vito spericolato)
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