Tutto fa di questo lavoro di Joon-ho un film strepitoso, che merita di essere visto, nonostante la tensione emotiva e i sentimenti contrastanti che suscita, dato il contenuto narrativo che, attraverso una descrizione simbolica che assomiglia alla struttura di una fiaba, in fondo ci parla di quanto più concreto e comune ci sia al mondo: ci parla di lotta di classe. E se certe recensioni giustamente avvertono in questo film echi di Hanecke, immagino per “Funny Games” e Lathimos per “Il sacrificio del cervo sacro”, io penserei anche a “Il servo” di Losey, per quel rapporto dialettico servo-padrone di cui ci parla Hegel nella sua “Fenomenologia dello spirito”. O anche a “Quel che resta del giorno” di Ivory (non a caso tratto da un romanzo di Ishiguro, autore così vicino culturalmente e geograficamente alla Corea) facendo però presente che mentre Mr. Stevens, il protagonista di quest’ultimo film, è di fede incrollabilmente servile, in “Parasite” il servo, la servitù, si rovescia alla fine in aperta e furiosissima ribellione verso il padrone.
Chi è dunque il parassita cui allude il titolo? Colui che s’insinua con l’inganno nella villa meravigliosa di un ricchissimo signore, per trarne una fonte di salario e così sfuggire a una vita destinata ad essere vissuta come e insieme a insetti, in un lurido seminterrato, o chi seppur raggirato vive in un mondo tanto meraviglioso quanto ovattato e distantissimo dalla condizione esistenziale di una marea di reietti? Questa domanda s’impone, quasi subito, quando le due condizioni di vita, quella della famiglia del giovane Ki-woo, e quella della ricchissima famiglia Park: la quale vive in una straordinaria villa-bunker con parco, in cima a una collina (la via d’accesso mette sempre in mostra una ripida salita) un mondo empireo che pretende di essere e restare del tutto avulso dal brulicare dei poveracci che abitano la città bassa, che sopravvivono di lavori miseri e le cui catapecchie sono facilmente allagate e spazzate via da una banale pioggia torrenziale.
C’è qualcosa di profondamente simbolico che unisce le due realtà sociali, così ferocemente polarizzate, ed è quella porta nera, perennemente nera, che dal salone amplissimo al piano terra della villa conduce attraverso uno spaventoso cordone ombelicale, nelle profondità labirintiche costituite da cupi antri in cemento armato sottostanti alla villa vera e propria, i quali, par di capire, sfuggono alla conoscenza e comunque all’interesse dei padroni di casa: in fondo, per quanto immensi, sono locali di sgombero, cantine, depositi forse, comunque locali che solo la servitù è destinata a frequentare, non certo i signori. Un po’ come i membri della famiglia Agnelli o Rothschild o Soros certamente non conoscono, delle decine di ville e castelli che si ritrovano a giro per i paradisi fiscali di tutto il mondo, le soffitte o le rimesse.
Ma poi la dialettica hegeliana entra in gioco, e mentre i padroni non sanno fare a meno del lavoro salariato dei loro servi, vera intermediazione tra il loro empireo e il concreto quotidiano, altrimenti per essi inattingibile, ecco che i servi appena possono si approfittano di questa unilateralità esistenziale dei padroni, di questa loro incapacità di vivere senza fare a meno del lavoro salariato, e li infinocchiano facilmente, giocando sulle loro oggettive debolezze, imponendosi, fino poi ad appropriarsi (seppur solo temporalmente) della loro casa e delle loro cose, disponendone a piacimento.
Alla fine, dopo vari rovesciamenti che la trama, ricca ma lineare, ci apparecchia, c’è la nemesi. E chi si meritava di pagare, anche se non sa di meritarlo, paga. La dialettica hegeliana si fa sentire perfino in una rivisitazione della dantesca legge del contrappasso, cosicché Ki-taek, cioè il padre del giovane protagonista Ki-woo e di sua sorella Ki-jeong, alla fine si ritrova rinchiuso in quello stesso labirinto nel quale aveva cercato di rinchiudere la vecchia governante e suo marito.
Se la porta oscura è simbolo delle due realtà sociali, l’una solare, apollinea, tutta armonia, giardini curatissimi, boschetti di bambù e musica al violoncello, l’altra ctonia, tellurica, la “pietra della ricchezza” ne costituisce il totem: il quale, dopo varie vicissitudini, darà finalmente segno agli spettatori di una qual forma di Aufhebung, una volta calata nell’acqua pura di un torrente, e lì finalmente lasciata a riposare, assieme ad altre a essa simili.
Tra gli attori, tutti bravi, secondo me eccellono Choi Wooh-shik, che interpreta il giovale Ki-woo, e Song Kang-ho che ne interpreta il padre Kim ki-taek. La fotografia è prodigiosa, soprattutto direi nelle lente riprese notturne all’interno della villa, quando più o meno tutti i protagonisti si ritrovano (all’insaputa dei padroni) all’interno della sala: marito e moglie a masturbarsi reciprocamente sul divano, la servitù nascosta ai loro sguardi sotto un tavolo basso. Ugualmente geniali le riprese del budello in cemento armato, illuminato da una fioca luce livida, verdastra, claustrofobico quanto basta dal far passare una persona alla volta, e che ripidamente porta giù, nelle profondità… O le riprese della pioggia torrenziale fuori e dentro la stamberga della famiglia Kim, completamente sommersa dall’acqua, col wc che rigurgita escrementi, e lattine altri oggetti galleggianti in un caos infernale.
Anche la colonna sonora è curata, e va da composizioni minimaliste e morbide, a brani di Haendel a, curiosamente e per me incomprensibilmente, “In ginocchio da te” di Gianni Morandi.
Complimenti a Bong Joon-ho!
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