In un’epoca di fratture sociali sempre più profonde e laceranti, Parasite mette in scena un’eccellente parabola della lotta di classe, ora riproposta in una dimensione domestica.
Il regista si destreggia con profonda arguzia e gusto satirico tra la commedia e il dramma sociale, fino al thriller dalle tinte scure.
In Parasite assume un ruolo, assolutamente determinante e simbolico, lo spazio; o meglio le case, i luoghi dove le famiglie vivono, e si fanno carico di raccontare la storia.
La prima, un seminterrato squallido, dagli spazi stretti e angusti, tra le cui quattro mura i Ki-taek si dimenano alla ricerca di un segnale wi-fi senza password, e una minuscola finestra che dà su un vicolo usato dagli ubriachi per urinare. La seconda, una lussuosa villa progettata da un famoso architetto, e un enorme vetrata su un giardino baciato dal sole, che genera tanta invidia nella famiglia di reietti sociali. Proprio quel giardino sarà il teatro dell’esplosione drammaturgica finale, e luogo della memoria tanto amaro.
Seppure si passi da una rappresentazione di genere ad un altro, il regista riesce a direzionare il film, e i suoi personaggi con esso, verso una spirale discendente verso la tentazione e i suoi demoni. Bong Joon-ho è tanto ispirato nella componente narrativa – innalzandosi a dio efferato e feroce della sua creazione condotta ad un climax inevitabile – quanto in quella registica.
A rendere Parasite il film paradigma degli anni che viviamo probabilmente è la trama, l’invenzione di questi parassiti dei parassiti che svelano altri parassiti.
Ma è la mano di Bong Joon-ho, la maniera in cui lavora tra primo piano e sfondo a fare la differenza. Il suo stile prevede che le informazioni non le prendiamo solo da ciò che accade in primo piano, ma che quel che il film ci dice o che una scena ci dice venga sempre dall’interazione tra il primo piano e il secondo piano, tra le due persone che parlano e le altre due che nello sfondo stanno facendo qualcos’altro, qualcosa di fondamentale.
Proprio da quella relazione, dal fatto magari che le prime due non vedano, non sentano o scelgano di trascurare le seconde, viene tutto il senso.
È un modo di fare cinema complicato molto appoggiato alle immagini, impossibile da copiare se non si ha quella testa e terribilmente coinvolgente, perché mette sempre lo spettatore nella condizione di operare delle piccole e facili decodifiche delle immagini.
Interpretando, capendo e facendosi una propria idea non sì è solo destinatari dei dialoghi, ma si interagisce con le immagini, le si capisce e capendole si viene a sapere qualcosa di più sulla storia. Un esercizio di attività che consente a Parasite di dire molto più di quel che svelano i suoi eventi.
Parasite è costruito secondo un registro impeccabile, dalla composizione geometrica delle scene fino al montaggio, determinando magnifici contrappunti antitetici tra le inquadrature e le musiche, con un gusto pop per l’antifrasi.
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