Grottesco, claustrofobico, feroce, radicale, "Parasite" ripropone la tematica della scalata sociale fondendo la visione verghiana del conflitto fra classi con la rigidità fatalista e castale del mondo orientale. Protagonista è la tensione dicotomica alto/basso, che attraversa spazi, gruppi sociali e singoli individui, per mostrare quanto le più forti aspirazioni possano nutrirsi degli istinti meno nobili e condurre ad ineluttabili esiti catastrofici. Gli ambienti, ora squallidi, fatiscenti, ora eleganti e luminosi, enfatizzano successi e sconfitte, rendendo palpabile la bruttura fisica e morale della povertà in contrapposizione al geometrico equilibrio invariabile della ricchezza. Il desiderio di elevarsi si declina in orchestrazione di furbizia prevaricativa ed inganno, che incontra tuttavia l'ostacolo insormontabile della fissità congenita di ruoli e condizioni: la miseria è intesa come tratto biologico e dato sensoriale, un marchio olfattivamente riconoscibile e fastidiosamente ineliminabile. Lo scontro più cruento avviene però all'interno del medesimo ordine di censo, a significare che la guerra fra poveri è il limite che frustra ogni velleità di improvvido cambiamento. Se la scaltrezza consente l'ascesa precaria di Ki-woo e dei suoi familiari, lo spirito di sopravvivenza li mette in contatto con un mondo infero, d'ogni luce muto, rivelando un abisso più nero della loro infelice situazione di partenza, in cui si sono aggrumati follia ed ostinato attaccamento alla vita. Il registro del film muta d'accento, da beffardo diventa brutale, a sottolineare la polarizzazione della faida: il parassita, dopo aver pasciuto sull'opima ingenuità ed inconsapevolezza del suo ospite, deve liberarsi dei rivali suoi simili. Nell'agone, che trascolora in tinte sempre più surreali, uno solo o nessuno è destinato a salvarsi. Vendetta e raptus d'orgoglio gridano furenti nell'epilogo e sugellano lo scacco definitivo, in cui si assiste alla volontaria, inevitabile inumazione del vinto nell'avello della sua impotenza. Il finale, regressivo e determinista, registra il fallimento anche attraverso l'involuzione dei mezzi di comunicazione: dagli accessi abusivi via rete di un'interazione superficiale, dematerializzata, che non attenua divari, si riscopre il valore simbolico del codice morse e la matericità della scrittura epistolare, la sola capace di unire i superstiti nell'illusione (scevra però della minima concreta speranza) che il domani possa essere un giorno migliore.
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