Il film comincia con inquadrature dall’altro, in verticale, su un agglomerato urbano che definire caotico è un eufemismo. S’intuisce che è un agglomerato urbano, ma non è facile percepirne i contorni, tanto la trama delle strade e dei palazzi è incasinata, priva di razionalità. Poi la scena scende giù per le strade, un caos incredibile di brulicante disordine fatiscente, una bolgia, lungo le quali un gruppo di ragazzini gioca mettendo la fantasia al servizio di ciò che la realtà gli ammannisce: la guerra. Poi la scena cambia e si scorge un bambino (non un adolescente: un bambino) che, in manette, viene tratto davanti a un giudice, in tribunale: si saprà che ha circa 12 anni ed è stato condannato a cinque anni di galera! Da qui in poi la storia si svolge in flash back e narra, appunto, l’universo infernale in cui questo bambino ha vissuto e continua a vivere.
La mdp non dà tregua, dall’inizio alla fine filma ogni scena a spalla e le sue continue oscillazioni comunicano inquietudine, precarietà. Incessante, implacabile, si fissa in primissimo piano sull’ira, la disperazione, la tenerezza, la stanchezza sul volto di Zain, il piccolo protagonista: uno straordinario Zain Alrafeea. E poi sugl’interni caotici delle abitazioni, spesso niente di più che baracche schifose, o su trombe di scala che avrebbero molto da invidiare a quelle pur sommamente cupe del Piranesi, e sugli esterni che continuamente ci parlano di disfacimento, caos, sporcizia, trasando, rumore, totale mancanza di razionalità sociale.
Il film è una storia di storie che s’intrecciano nell’inferno di un quartiere popolare di Beirut, ma soprattutto la storia di Zain, figlio di una famiglia dalla prole assai numerosa (il padre sembra non fare altro che fumare, dormire sul divano e mettere incinta la moglie), particolarmente affezionato alla sorella Sahar, più o meno sua coetanea, che i genitori vendono come sposa undicenne a un commerciante, in cambio di benefici economici. La storia ha inizio con il tentativo infruttuoso di Zain di opporsi a questo scempio. Dopo di che Zain sceglie la via della fuga lontano dai genitori, che non lo amano e che lui lucidamente odia (una volta davanti al giudice, arriverà a chiedere la loro incriminazione per... averlo messo al mondo!). Zain non ha niente con sé, solo odio e disperazione, e amore per la sorella venduta. E tanta, tanta fame; ma è un bimbo e come tale non può fare a meno di sognare e di stupirsi: lo fa di fronte a un grande parco giochi, le cui meraviglie lo incantano. Qui incontra Rahil, un’inserviente eritrea senza permesso di soggiorno e con un piccolo che è costretta a nascondere per non rischiare l’espulsione. È tra queste vite di reietti, di ultimi della Terra che non hanno praticamente niente all’infuori di un senso dell’umanità che a tutti gli altri pare far difetto, che da qui in avanti si sviluppa una storia fatta di solidarietà, di affetto profondo.
Il piccolo Zain Alrafeea è semplicemente straordinario per bravura e intensità espressiva, e colpisce veramente apprendere che tutti quanti gl’interpreti, tutti di notevole capacità espressiva, sono tutti attori non protagonisti! Alla faccia dell’Actor’s Studio e dei Marlon Brando!
Fotografia frenetica ed eccellente: mi chiedo come sia stato possibile filmare certe scene negl’interni, soprattutto nel caos dei vani scala, o nel descrivere il rapporto tra Zain e il piccolissimo “fratellino” etiope.
Film crudo e coraggioso, “Cafarnao” non fa sconti nel narrare con durezza la trama. Al tempo stesso descrive i vari passaggi con profonda umanità, direi con dolcezza. Anche le figure del padre e della madre di Zain, certo non positive, vengono però adeguatamente contestualizzate, ed è, questa scelta della brava Labaki, utilissima a impedirci di condannare sommariamente, come saremmo portati a fare con troppa leggerezza. È come se c’invitasse a capire il dramma di quelle vite misere, comunque prive di ogni riparo.
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