Parlava di se stessa sempre in terza persona: non diceva "io" ma "la Koscina" ("la Koscina certe cose non le fa, la Koscina non ha mai avuto un regista-protettore, la Koscina sui principi non transige, per la Koscina il chirurgo estetico non esiste"). Anche adesso che tutto il lavoro spettacolare consisteva nella pubblicità per certe pellicce o in piccole parti come quella affidatale due anni fa da Christian De Sica in Ricky & Barabba, una miliardaria mascherata da fata con i capelli azzurri e con l'alto cappello a cono pure azzurro: "La Koscina è sempre la Koscina", la fede in se stessa era inalterabile. Identica a quando, negli Anni Sessanta per lei felici, andando a trovarla scoprivi infiniti pezzetti di carta su cui aveva scritto e ripetuto mille volte il proprio nome; oppure a quando, nei primi Settanta, vantava l'intatta fermezza del proprio petto molto bello: "Marmo di Carrara! Marmo di Carrara!"; oppure a quando, incontrandola alla Mostra di Venezia dove non presentava alcun film, ti spiegava seria: "Partecipo come ambasciatrice sorridente". La megalomania di Sylva Koscina era schietta e divertente, non aveva nulla di antipatico, neppure di arrogante: somigliava piuttosto al bisogno infantile di confermarsi esistente, importante. Alla fine degli Anni Cinquanta chiusi e bacchettoni, nel cinema italiano "la Koscina" portò un tocco in più di cosmopolitismo anche drammatico, di disinvoltura anche briosa: jugoslava, con racconti terribili e magari fantasiosi d'esperienze di guerra, con una spregiudicatezza inconsueta nel nostro provincialismo democristiano, la sua grazia piccante, il suo fascino malizioso, la sua eleganza signorile sempre inappuntabile (foulard, borsette, tacchetti, riccetti, tailleurini) risultavano quasi esotici. Nei film, la parte forse più bella fu la prima, ne Il ferroviere di Pietro Germi, 1956; alla seconda, Guendalina di Alberto Lattuada, 1957, per via della signorilità già recitava il personaggio della madre di Jacqueline Sassard. Come attrice, nelle commedie all'italiana era media e simpatica, nei film mitologici ridicola e simpatica, nelle epopee partigiane dislocata e simpatica, in Giulietta degli spiriti di Fellini era fugace e simpatica. Ma nella esistenza divistica o quasi era sempre un passo avanti: la prima nel cinema italiano a voler possedere in campagna, vicino a Roma, una gran villa hollywoodiana con piscina, cavalli, coltivazioni; la prima ad accettare di posare a torso nudo per Playboy americano, con divertimento proprio e scandalo altrui; una delle prime a tentare l'avventura hollywoodiana, fallimentare per lei come per ogni star europea; l'unica a dichiarare che Alberto Moravia era l'italiano più bello che conoscesse, l'unica ad accettare di recitare in Assoluto naturale di Mauro Bolognini le fantasie sessuali sfrenate, estetizzanti e misogine di Goffredo Parise. E una delle poche attrici, alla fine, capace d'affrontare gli anni e il passare del tempo senza lagne né rimpianti, ma con invitto trionfalismo; capace d'affrontare la malattia e la morte senza esibizioni melodrammatiche né lamentose, con coraggio e orgoglio, per conto suo, in silenzio.
Da La Stampa, 27 Dicembre 1994