Sandro fu il re dello sceneggiato (da «Il mulino del Po» a «I promessi sposi»). Susanna produce serie per la tv. E dice: «Era abituato ad avere carta bianca. Questa Rai della politica non la capirebbe più».
Susanna Bolchi è la figlia dei Promessi sposi. Cioè di quel Sandro Bolchi che fu uno dei padri dello sceneggiato televisivo, insieme con Anton Giulio Majano e Daniele D'Anza. Oltre al celebre adattamento dal Manzoni, Bolchi, scomparso due anni fa, girò anche Il mulino del Po, I fratelli Karamazov, Anna Karenina, I miserabili e Le mie prigioni. La figlia Susanna, 52 anni, produce fiction, le eredi di quei solenni, epocali polpettoni. Ne ha realizzate circa 25; la prossima è Zodiaco, quattro puntate dal 30 gennaio su Raidue.
Cosa avrebbe detto suo padre, leggendo le intercettazioni tra Silvio Berlusconi e Agostino Saccà?
«Non so, lui è sempre stato abituato ad avere carta bianca. Oggi è tutto più complicato. Un conto è concordare, un altro è subire. Non era un uomo capace di mediare e discutere: non avrebbe mai sopportato queste riunioni con decine di persone in cui ognuno dice la sua e alla fine ogni minima decisione è frutto di una lunga trattativa».
E di questa Rai cosa pensava?
«Non gli piaceva come s'è trasformata. Era schifato dall'imbarbarimento. Per un periodo fece anche parte di una consulta sulla qualità, un organismo creato per controllare il livello di volgarità televisiva e mai utilizzato. Però ha amato la tv fino alla fine, anche quando non avrebbe più potuto e voluto farne parte. La tv invece ha la memoria corta. In America si tributano standing ovation ai vecchi leoni: da noi si stacca il telefono. Non c'era nessuno della Rai al suo funerale».
Anche lei riceve raccomandazioni e direttive dall'alto?
«No: Le raccomandazioni ci sono state e sempre ci saranno: è un costume italiano. Ma non abbiamo mai subito pressioni. In ogni caso Saccà è un professionista che sa di cosa parla: è in grado di capire una sceneggiatura, conosce gli attori».
Sì, ma non è disgustoso scoprire quanto la politica s'insinui anche nella fiction?
«Noi siamo etichettati come produttori di destra, ma raccontiamo
storie che sembrano di sinistra: la verità è ché ila fiction è bella o brutta, non ci sono altre divisioni».
Ma questa vostra «appartenenza» non vi ha favorito al momento della spartizione della grande torta?
«No. Ci ha aiutato fare proposte che hanno avuto consenso di pubblico e critica, in un momento in cui le case di produzione proliferano. E sicuramente in questo c'entra la politica. Aver lavorato bene per 25 anni non basta a fare la differenza».
Quindi anche voi vittime?
«Siamo sempre riusciti più o meno faticosamente a fare le nostre cose, tranne in un paio d'anni in cui nessuno ci ascoltava».
Governava il centrosinistra?
«Sì, ma è del tutto casuale. La Rai è una girandola. Ogni partito ha i suoi uomini, ma quel che impedisce di lavorare non è la politica, quanto la stupidità dei suoi servi sciocchi».
Cosa le è rimasto del lavoro di suo padre?
«Era tutta un'altra tv, ma l'uso del mezzo era straordinariamente moderno. C'era molta più Russia nella cartapesta dei suoi Fratelli Karamazov che nel recente kolossal Guerra e pace. Ispirarsi ai libri è una strada che percorriamo sempre: il romanzo ha un lavoro alle spalle che si sente. Di idee autonome nuove non ce ne sono tante. Inoltre metto la stessa cura nella scelta degli attori: anche di chi deve dire solo "buonasera". Quelli di mio padre erano straordinari». Quelli di oggi no?
«La qualità media si è abbassata. Alcuni sono molto bravi, ma il pubblico, abituato a quei devastanti reality, s'accontenta e non si scandalizza più di nulla».
Eppure anche molti big si cimentano nel genere.
«Sì, ma conviene puntare sui giovani, perché il grande attore non garantisce il risultato. Bisognerebbe piuttosto investire sugli sceneggiatori: non ci vuol niente a rovinare tutto con una battuta sbagliata. Purtroppo in molti casi si lavora di cucina e non di creatività. La serialità non aiuta: se un'idea va bene, bisogna farne 125 puntate».
Nella guerra dì religione tra fiction e cinema; si: può immaginare dove stia lei.
«Secondo me c'è bella fiction e brutta fiction, come c'è bel cinema e brutto cinema. Mi dà fastidio lo snobismo nei confronti della fiction, dove però prima o poi arrivano tutti perché ti dà la possibilità di raccontare ed essere visto: quegli attori o registi che si dicono inorriditi dalla tv, ma che poi capitolano turandosi il naso. La tv ben fatta ha pari dignità».
Per gli addetti ai lavori la differenza è quella tra un abito di sartoria e uno industriale.
«Se confrontiamo Ozpetek con Un posto al sole o con Carabinieri, sì. Ma nell'80 per cento dei casi la distanza non è abissale. Dipende sempre dai tempi e dai budget».
A proposito: quanto ci si guadagna su una fiction? Per «Nebbie e Delitti» avete avuto più di un milione a puntata.
«La Rai ha una società di monitoraggio che controlla il lavoro di produzione passo passo, per verificare come vengono spesi i soldi. Di Graffio di tigre Saccà disse che avevamo fatto miracoli con un budget assolutamente inadeguato».
E ora che non c'è più Saccà?
«Un'azienda non si può fermare. Si era scelto di accentrare molto su una sola persona, ora penso che si lavorerà più di concerto. Spesso si fanno prodotti senza pensare a come collocarli, specie su Raidue, che è da ristrutturare e vive in una situazione difficile da anni, senza che si veda la luce».
Da Il Venerdì di Repubblica, 25 gennaio 2008