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Rassegna stampa di Renato Castellani

Renato Castellani è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, scenografo, assistente alla regia, è nato il 4 settembre 1913 a Finale Ligure (Italia) ed è morto il 28 dicembre 1985 all'età di 72 anni a Roma (Italia).

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Iniziò aderendo alla cosidetta corrente formalista con Un colpo di pistola (1941) e Zazà (1942), per divenire nel dopoguerra il maggiore autore del neorealismo «rosa» con un trittico di commedie piene di vivacità e di sapore (Sotto il sole di Roma, 1948;È primavera, 1949;Due soldi di speranza, 1952), girate in esterno e con attori non professionisti. Con Giulietta e Romeo vinse il Leone d'oro a Venezia nel 1954. Cineasta appartato e fuori dal grande giro continuò a girare film interessanti come il racconto a sfondo sociale I sogni nel cassetto (1957) e il Il brigante (1961). Si dedicò poi a biografie televisive, delle quali si ricordano Vita di Leonardo (1971) e Giuseppe Verdi (1982).

GIAN LUIGI RONDI
Il Tempo

Autore composito, ricco di ispirazioni letterarie e nello stesso tempo attento all'osservazione della vita di tutti i giorni, Renato Castellani si impose trionfalmente nel cinema italiano con Due soldi di speranza (1952) in cui, rinverdendo i temi drammatici del neorealismo con uno spirito umoristico che partecipava a volte del nostro antico Novellino, a volte del Basile del Cunto delli Cunti, approdava a risultati di vivacissima freschezza in un'atmosfera quasi di canto, schietta, autentica, calda.
La stessa vicenda - l'amore contrastato di due giovani, soffocati da una rissosa atmosfera di faida paesana - veniva ripresa più tardi da Castellani con una opera di grandi ambizioni culturali, Romeo e Giulietta che, a detta dello stesso autore, voleva essere un Due soldi di speranza in chiave scespiriana e, nello stesso tempo, la riscoperta non solo delle fonti italiane di Shakespeare, ma anche delle sue segrete inclinazioni classiche.
Dal principio alla fine così il film dispiega il testo scespiriano di fronte ai nostri occhi ponendo sempre in evidenza le sue più intime ragioni logiche, i suoi motivi segreti, i contrattempi narrativi che via via si inseguono in un gioco limpidissimo di situazioni ciascuna ferreamente concatenata all'altra, ciascuna nata dalla precedente, ciascuna causa alla seguente. Lo Shakespeare colorato e ardente, ribelle ad ogni regola drammatica, continuatore impetuoso di quei canoni del teatro elisabettiano che tutti si assommavano nella libertà di modi e di espressioni, diventa qui l'ispirato assertore di una meticolosa alchimia teatrale, il sostenitore convinto di un edificio dalle linee classiche e sicure, dove ogni cosa trova il suo posto, la sua funzione, la sua rispondenza, la sua regola.

PIETRO BIANCHI

Secondo il nostro caro Stendhal, «Giulietta e Romeo» è la tragedia «nella quale il divino Shakespeare ha saputo dipingere dei cuori italiani». Forse è in questa osservazione del romanziere della «Certosa di Parma» che va cercata la ragione dell’ultima scelta del regista Renato Castellani. Perché «Romeo and Juliet»? Perché vi si tratta di «cuori italiani». E chi è più italiano nei temi del regista di Due soldi di speranza?
Secondo alcuni, Renato Castellani sarebbe giunto al cinema quasi per caso: chiamato a «dare una mano» a una «troupe» cinematografica in Etiopia, dove il futuro regista si trovava come ufficiale. Secondo altri, Si tratta di una vocazione precisa. Uomo del settentrione che aveva compiuto studi di architettura, Castellani trovò ne,l cinematografo la misura artistica che più rispondeva alle autentiche ambizioni sue. È certo che nel cinema egli entra subito con una autorità da maestro: Un colpo di pistola colpisce (non è un giuoco di parole) subito gli intenditori. È un lavoro che ha sicurezza di gusto e di esecuzione e che possiede in più quel calore poetico, quel timbro di autenticità che non si possono fingere. Formalismo, si è detto poi, e anche decorazione ed evasione: parole che vorrebbero essere di condanna, ma non significano nulla se uno tien conto, com’è suo stretto dovere, del clima culturale e politico, e soprattutto della temperie morale, in cui il film è nato. In una produzione di film che riecheggia puntualmente voci e suoni del regime, Un colpo di pistola è un atto di non conformismo elegante e anche, senza farlo parere troppo, un atto di accusa. L’universalismo della concezione puskiniana batte infatti in breccia il meschino particolarismo delle «direttive» gerarchiche, mentre piovono da tutte le parti sugli spettatori smarriti i cinici prodotti dei registi a tuttofare.

GIAN PIERO BRUNETTA

Tre anni durano le riprese e la lavorazione del Brigante di Renato Castellani (tratto dal romanzo di Giuseppe Berto) e per la sua realizzazione il regista gira centomila metri di pellicola, da cui trae un film di tre ore circa. La versione che giunge nelle sale è tuttavia già più breve di un'ora e compromette, in maniera decisiva, l'intenzione generale di costruzione di un grande affresco epico e corale di vita nella Calabria contadina negli anni tra fascismo e dopoguerra. La storia, raccontata in prima persona dal protagonista («Nell'ottobre del 1942 avevo dieci anni...»), secondo un ritmo e una struttura tutta spezzata a metà tra lingua e dialetto, pur ambiziosa nella sua struttura, nella costruzione dell'intreccio e delle cadenze narrative, è rifiutata all'unanimità dal pubblico e dalla critica.

UGO CASIRAGHI

Renato Castellani, il regista cinematografico scomparso alla fine del 1985, era un uomo civile e ostinato, uno sperimentatore insaziabile, un tecnico di rara finezza. C'è un lontano profilo di lui, apparso sulla rivista La Fiera del Cinema nel novembre 1961, sotto il titolo Il regista architetto, per la spiritosa penna di Adriano Baracco. Eccone un brano: «Quell'estate pellicolare vestiva con trascuratezza, mangiava come un lupo, non gli si conosceva-no legami femminili. Aveva due piccoli occhi irrequieti e una testa di selce. Quieto e ragionevole, sembrava facile fargli cambiare idea, ma chi ci provò dovette combattere contro la più impervia testardaggine del secolo. Fin che aveva argomenti difendeva con quelli il proprio punto di vista, poi si isolava in un blando silenzio e parlava d'altro, lasciando cuocere l'oppositore a fuoco lento; infine lo sbranava con tutta una serie l'argomenti nuovi. Dopo una settimana di discussione, aveva fatto compiere all'oppositore il giro del mondo, senza spostarsi d'un centimetro».
Castellani è sempre stato il bastian contrario del cinema italiano. Nato a Finale Ligure nel 1913, trascorse la fanciullezza in Argentina ma frequentò il ginnasio e il liceo a Milano, laureandosi in architettura al Politecnico e facendo parte del gruppo detto «degli architetti milanesi» come altri futuri cineasti, Lattuada e Comencini, coi quali iniziò anche le ricerche di vecchi film che sarebbero sfociate nella fondazione della Cineteca. Sceneggiatore a Roma per Camerini, Blasetti e altri, nei suoi primi film come regista (Un colpo di pistola, 1941; Zazà, 1942) s'inserì con Poggioli, Soldati e lo stesso Lattuada nella corrente chiamata «dei formalisti», che fu un modo di resistere al cinema di regime per un cinema che Castellani spinse al limite del calligrafismo.
Nè si comportò diversamente, in fondo, nel primo dopoguerra, sebbene fin da Mio figlio professore (1946) in cui aveva fatto debuttare Suso Cecchi d'Amico come sceneggiatrice e Mario Soldati come attore, egli avesse mutato il suo stile in concomitanza col fiorire del neorealismo. Anche qui resistette alla tendenza dominante, almeno nel senso che i suoi soggetti non riflettevano la tragedia della nazione ma l'allegria della giovinezza, che non privilegia-vano il sociale ma il vitale, che si occupavano meno del pubblico e più del privato.

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