Renato Castellani è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, scenografo, assistente alla regia, è nato il 4 settembre 1913 a Finale Ligure (Italia) ed è morto il 28 dicembre 1985 all'età di 72 anni a Roma (Italia).
Iniziò aderendo alla cosidetta corrente formalista con Un colpo di pistola (1941) e Zazà (1942), per divenire nel dopoguerra il maggiore autore del neorealismo «rosa» con un trittico di commedie piene di vivacità e di sapore (Sotto il sole di Roma, 1948;È primavera, 1949;Due soldi di speranza, 1952), girate in esterno e con attori non professionisti. Con Giulietta e Romeo vinse il Leone d'oro a Venezia nel 1954. Cineasta appartato e fuori dal grande giro continuò a girare film interessanti come il racconto a sfondo sociale I sogni nel cassetto (1957) e il Il brigante (1961). Si dedicò poi a biografie televisive, delle quali si ricordano Vita di Leonardo (1971) e Giuseppe Verdi (1982).
Autore composito, ricco di ispirazioni letterarie e nello stesso tempo attento all'osservazione della vita di tutti i giorni, Renato Castellani si impose trionfalmente nel cinema italiano con Due soldi di speranza (1952) in cui, rinverdendo i temi drammatici del neorealismo con uno spirito umoristico che partecipava a volte del nostro antico Novellino, a volte del Basile del Cunto delli Cunti, approdava a risultati di vivacissima freschezza in un'atmosfera quasi di canto, schietta, autentica, calda.
La stessa vicenda - l'amore contrastato di due giovani, soffocati da una rissosa atmosfera di faida paesana - veniva ripresa più tardi da Castellani con una opera di grandi ambizioni culturali, Romeo e Giulietta che, a detta dello stesso autore, voleva essere un Due soldi di speranza in chiave scespiriana e, nello stesso tempo, la riscoperta non solo delle fonti italiane di Shakespeare, ma anche delle sue segrete inclinazioni classiche.
Dal principio alla fine così il film dispiega il testo scespiriano di fronte ai nostri occhi ponendo sempre in evidenza le sue più intime ragioni logiche, i suoi motivi segreti, i contrattempi narrativi che via via si inseguono in un gioco limpidissimo di situazioni ciascuna ferreamente concatenata all'altra, ciascuna nata dalla precedente, ciascuna causa alla seguente. Lo Shakespeare colorato e ardente, ribelle ad ogni regola drammatica, continuatore impetuoso di quei canoni del teatro elisabettiano che tutti si assommavano nella libertà di modi e di espressioni, diventa qui l'ispirato assertore di una meticolosa alchimia teatrale, il sostenitore convinto di un edificio dalle linee classiche e sicure, dove ogni cosa trova il suo posto, la sua funzione, la sua rispondenza, la sua regola.
Castellani, però, non si è fermato qui, a questa riscoperta di una concezione classica e « italiana » del Romeo and Juliet. Italiano lo schema, italiana e classica la concezione narrativa, italiani dovevano essere anche lo spirito, lo stile, il gusto figurativo; italiani come poteva immaginarseli Shakespeare, come li pensavano i Novellieri cui egli attinse le sue mirabili storie: e il film, così ci offre un susseguirsi abbacinato e prezioso di immagini
costruite e ricostruite o interpretate secondo la nostra più splendida pittura rinascimentale, affidandosi invece per le scene in esterni alle nostre città e alle nostre chiese quattrocentesche (Verona, Siena, il Duomo di Verona).
Non c'è un solo momento in cui un'evoluzione di un personaggio o una scenografia non ricordi qualcuno fra i più celebri dipinti di Piero della Francesca o del Pollaiolo o del Masaccio o del Carpaccio o del Lippi (né mancano qua e là ricordi di Jeronimo Bosch). È tutta la nostra pittura aurea che sfila davanti agli occhi, divenuta non solo cornice, ma cosa viva, materia dolorante di un dramma d'amore, fiato, respiro, clima, umanità concreta. E quando non è questa pittura a ispirare una immagine, è sempre il suo gusto a suggerirne le linee, le composizioni e i colori; colori incantati, commoventi che anche sulle sete, gli arazzi, i visi umani, hanno sempre le sfumature un po' pallide dell'affresco, le sue ombre delicate, i suoi dolci chiaroscuri, colori che per scene intere sono spesso giocati solo su due tinte (il giallo d'ocra e la terra di Siena, ad esempio) o su una sola tonalità soffusa di intuizioni rosee o dorate (come nelle pagine incantate del conventino veronese o in quelle ieratiche e quasi arcane dei funerali in San Zeno che prendono vibrazioni di tramonto, di sole subacqueo, di spighe mature). E colori, naturalmente, che si ritrovano più caldi e più decisi su tutti i costumi dei personaggi e che ricordano immediatamente « ritratti d'epoca » : con la differenza che in quei ritratti le cornici appartengono al loro stesso tempo mentre qui gli sfondi (specie quelli veronesi) son tutti antecedenti e il contrasto suscita una suggestione anche maggiore.
Se sono esatte, però, la scoperta d'una italiana classicità del Romeo and Juliet e la sua visiva trasposizione sullo schermo in una chiave figurativa squisitamente rinascimentale (e senza mai un errore di gusto, uno scompenso, un cedimento di tono), il racconto che Castellani ci ha proposto con il cinema, degli amori eterni di Giulietta e Romeo scanditi, quasi parola per parola, sulla scorta dei versi scespiriani, riesce a dar vita a un vero spettacolo cinematografico?
È la domanda, il dubbio che già molti si sono posti per le opere di Olivier, per il suo Enrico V, per il suo Amleto, per il suo Riccardo III. Teatro o cinema? La risposta per il Romeo and Juliet di Castellani non è di quelle che si danno in modo categorico. La sua fedeltà al testo, la sua stessa scoperta di una interna regolare narrativa che, anziché dargli libertà di movimento lo ha rigidamente legato a regole fisse, hanno costretto il regista a una cadenza di racconto molto più vicina al teatro che non al cinema. Tra le pieghe, però, di questa cadenza l'invenzione cinematografica ha potuto limpidamente sbrigliarsi con una fertilità ed un ardire luminosi ed esemplari; basterebbero, agli inizi, quegli scorci di Verona, quel mercato di Piazza delle Erbe tutto folla multicolore, tutto risse, chiasso, gazzarra e poi, poco dopo, quel ballo in casa Capuleti (tutto in rosso, solo Giulietta è in bianco e Romeo in nero) che è un ricamo di preziose armonie, una pagina squisita di cinema, e quei frati in ginocchio a cantare in gregoriano nelle cripte rosate di San Zeno, e quei funerali quasi bizantini di Giulietta fra le arcate sonore del Duomo, le luci a pioggia dai rosoni, il silenzio alto che regna intorno: il silenzio, soprattutto, e i suoni precisi, felicissimi, di cui vibra la colonna sonora, il ritmo preciso con cui si accendono o cadono le note della musica: tutti elementi perfetti di una perfetta poesia cinematografica, motivi tutti di lirica emozione.
E anche quando scene piùchiuse non consentono alla regia tanta inventiva (perché son duetti al balcone o dialoghi serrati fra padre e figlia, o gli incontri nella cella di padre Lorenzo) ci si accorge che il linguaggio cinematografico cerca sempre di imporsi anche fra le battute teatrali o con una scena vista di scorcio dal fondo di un corridoio (sì che i personaggi vi si dispongono tutti in piani diversi, quasi a scala), o con un variare continuo di punti di vista e di posizioni dei personaggi (come nel duetto al balcone che è tutto giocato fra gli archi di una quadrifora e la prospettiva sempre mutata di una scala di marmo).
Più tardi, invece, richiamato dall'osservazione della realtà, Castellani con I sogni nel cassetto doveva darci un film di ben più modeste proporzioni, venato di note forse eccessivamente romantiche, ma comunque acceso da un intenerito affetto per i personaggi più consuetudinari della vita d'ogni giorno, per i loro casi, per i loro problemi. Quasi pentito, però, di tanta indulgenza per le note tenere, ecco Castellani affrontare duramente il problema della donna in carcere con Nella città l'inferno, protagonista addirittura divorante la nostra grande Anna Magnani, un affresco di vaste proporzioni, tesò nei suoi climi drammatici fino allo spasimo. Anche se taluno ha ritenuto dovergli rimproverare una mancanza di equilibrio e di misura proprio per le atmosfere di più lacerante tensione.
L'ora sociale, cui raramente Castellani aveva accondisceso, lo vede impegnato ne Il brigante, un film tratto da un romanzo di Giuseppe Berto ambientato in una Calabria sconvolta da rivolgimenti di classe. La vicenda trova in lui un narratore attento e preciso, ora polemico, ora ispirato, non sempre capace, però, di imprimere al racconto una armoniosa compattezza e di tener lontano dal clima spesso epico del film certi errori di gusto e di stile, certi pleonasmi drammatici che più che eli esasperazione sanno solo di esagerazione.
Tali errori sono soprattutto sensibili sul piano della sceneggiatura che, con le incertezze proprie ai racconti troppo lunghi tratti da romanzi troppo densi di fatti, ci propone personaggi spesso un po' approssimativi ed altri che, pur definiti e sicuri, non trovan sempre il loro posto più felice nell'economia del racconto.
Sul piano della regia, comunque, il film s'impone a una meritata attenzione soprattutto per certe pagine corali in cui Castellani ha profuso tensione drammatica e rigore realistico per descriverci, ad esempio, l'occupazione delle terre o la vita dimessa e rassegnata dei contadini nelle loro case o sulla piazza del paese in attesa di lavoro; affidate, e queste e quelle pagine, a uno stile in cui il gusto dell'immagine preziosa e forbita sapientemente si fonde al rispetto asciutto e sincero per il dato reale e ad un ritmo che riesce quasi sempre a mantenersi agile e sciolto, con la cadenza di una ballata western e lo slancio di un'epopea.
Le stesse ineguaglianze di stile e le stesse contraddizioni di ispirazione, Castellani doveva però rivelarle di recente nel Mare matto dove, riprendendo i temi gai di È primavera e ambientandoli fra la gente di mare, tentava di raggiungere risultati umoristici e commossi ad un tempo: dimostrandosi felice soltanto in alcune notazioni di ambiente e nel disegno colorato e festoso di alcuni personaggi di secondo piano.
Da Cinema italiano 1952-1965, oggi, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, Roma 1966
Secondo il nostro caro Stendhal, «Giulietta e Romeo» è la tragedia «nella quale il divino Shakespeare ha saputo dipingere dei cuori italiani». Forse è in questa osservazione del romanziere della «Certosa di Parma» che va cercata la ragione dell’ultima scelta del regista Renato Castellani. Perché «Romeo and Juliet»? Perché vi si tratta di «cuori italiani». E chi è più italiano nei temi del regista di Due soldi di speranza?
Secondo alcuni, Renato Castellani sarebbe giunto al cinema quasi per caso: chiamato a «dare una mano» a una «troupe» cinematografica in Etiopia, dove il futuro regista si trovava come ufficiale. Secondo altri, Si tratta di una vocazione precisa. Uomo del settentrione che aveva compiuto studi di architettura, Castellani trovò ne,l cinematografo la misura artistica che più rispondeva alle autentiche ambizioni sue. È certo che nel cinema egli entra subito con una autorità da maestro: Un colpo di pistola colpisce (non è un giuoco di parole) subito gli intenditori. È un lavoro che ha sicurezza di gusto e di esecuzione e che possiede in più quel calore poetico, quel timbro di autenticità che non si possono fingere. Formalismo, si è detto poi, e anche decorazione ed evasione: parole che vorrebbero essere di condanna, ma non significano nulla se uno tien conto, com’è suo stretto dovere, del clima culturale e politico, e soprattutto della temperie morale, in cui il film è nato. In una produzione di film che riecheggia puntualmente voci e suoni del regime, Un colpo di pistola è un atto di non conformismo elegante e anche, senza farlo parere troppo, un atto di accusa. L’universalismo della concezione puskiniana batte infatti in breccia il meschino particolarismo delle «direttive» gerarchiche, mentre piovono da tutte le parti sugli spettatori smarriti i cinici prodotti dei registi a tuttofare.
La nuova aria, anzi il vento, che soffiò nel dopoguerra immediato, trovò Castellani al giusto posto di lavoro. Non solo egli comprese a pieno i nuovi metodi espressivi e i partiti poetici cui sembrava invitare la poetica neorealistica; ma subito contribuì ad arricchirli e a variarli con apporti originali e profondi. Nacquero così tre pellicole che tutti abbiamo in mente: Sotto il sole di Roma, È primavera, Due soldi di speranza, cui critica e pubblico fecero festose accoglienze. In queste opere un sottofondo comune regola l’ispirazione di Castellani verso esiti ben definiti: egli si rivela il poeta della giovinezza incorrotta, della irrefrenabile e pura e lirica forza vitale, che si esplica da un lato in quel «vert paradis des amours enfantines» di cui ha parlato indicibilmente Baudelaire, e dall’altro in quell’arruffata, smagliante, allegra competizione con gli uomini e con il destino che è il segno certo, la prova dell’originalità di Renato Castellani come narratore cinematografico.
Ora è piuttosto lampante che il passo tra Sotto il sole di Roma, È primavera, Due soldi di speranza e Giulietta e Romeo è piuttosto lungo. Sembra piuttosto lungo, ma in verità non lo è affatto: tra il primo e l’ultimo di questi film esiste una distanza temporale, non c’è invece la distanza ideale e poetica, che è quella che conta.
Spieghiamoci meglio, non senza aggiungere un piccolo dato di fatto che serva a chiarire maggiormente il nostro discorso. Ci può essere qualcuno che per ragioni di diverso genere può accettare con riluttanza il «messaggio», la poetica di Castellani; nessuno anzi, che noi si sappia, l’ha rifiutato in pieno; ma ci sono delle mezze accettazioni, dei sì con riserva (dei superiori) che la dicono lunga. Nessuno tuttavia si è mai sognato di negare le sorprendenti qualità tecniche del regista, le sue svarianti e poliedriche capacità artigianali. Per dirla in fretta, il cinema come mestiere non ha segreti per lui. È evidente che in Giulietta e Romeo son presenti entrambe le anime di Castellani: la prima, esornativa e svagata, di Un colpo di pistola, e la seconda, concreta e pungente, che toccò in Due soldi di speranza il suo momento più completo (non il più alto) di espressione.
Tornando ora alla definizione stendhaliana del testo di Shakespeare, «Romeo and Juliet» è dunque, secondo il «milanese» Henri Beyle, «la tragedia nella quale il divino Shakespeare ha saputo dipingere cuori italiani». Dopo aver osservato di passata che per Stendhal non vi può essere elogio più grande, aggiungeremo subito che Giulietta e Romeo non è altro che Sotto il sole di Roma in panni reali e curiali, e ambientato in una civiltà artistica di suprema raffinatezza ed eleganza. Ecco perché Castellani ha rifiutato gli attori più rinomati della scena inglese accontentandosi di un Lawrence Harvey non ancora affermato e di una Susan Shentall pescata in un ristorante del centro di Londra. Ciò che ha rattristato ed urtato i critici britannici (buonissimo film, gusto e colori perfetti ma interpreti inadeguati, essi affermano) è proprio la «spia» delle intenzioni del regista.
Egli ha voluto, per la sua trascrizione, degli attori che fossero il più possibile vicini alla realtà poetica voluta dal grande Will: due adolescenti, due ragazzi quasi, in preda al vento rapace e alle ambasce del primo amore. Due giovanissimi amanti, infantilmente indifesi contro le insidie del passato e del male, immersi nel fuoco di un amoroso furore, nel magico scenario del Rinascimento italiano. Da una parte il Castellani «formalistico» tenéva d’occhio i grandi muri, le straordinarie tele di Carpaccio e di Giorgione, dall’altra meditava un trasferimento ardito ma vivo dei «bulli»di Trastevere nei ricchi costumi degli amanti di Verona. Il giuoco è riuscito solo sino a un certo punto: è vero che Susan non è Norma Shearer e che, soprattutto, Harvey non somiglia neanche da lontano a Leslie Howard. Ma in compenso quale senso di verità effettiva, che sapienza compositiva, che sfolgorio di colore e di luce. Anche l’altra e più sottile osservazione che, cioè, al tempo degli amanti giovinetti, i muri e i dipinti che vediamo ora corrosi e offesi dal tempo erano nuovi e intatti come l’aria del mattino, perde d’importanza al lume di una nuova strategia che sopprime, come s’è accennato, le dimensioni temporali a beneficio di un tempo «ritrovato» od «eterno» che ha l’immobile, perfetta fissità dei cieli platonici.
Giulietta e Romeo è la tragedia della disfatta dei giovani. Invidiosa di un bene per sempre perduto, la gente matura attacca la gioventù con le armi della maliziosa maturità e della disincantata vecchiaia; ma mai riesce a vincere, nelle opere di Castellani, l’ingenuità dei giovani insidiati.
L’impresa dunque era assai impegnativa. Castellani ha lavorato tre anni al suo film; diciamo subito che nella sfera limitata di un’opera di gusto più che creativa, i suoi risultati sono memorabili. Anche il geniale Orson Welles aveva tentato nel suo Otello di servirsi di autentici muri, ma non ci aveva convinti. Il nostro Castellani ha saccheggiato letteralmente alcune città d’arte italiane, ha tenuto sott’occhio i grandi pittori, si è servito del colore (fotografo Robert Crasker, lo stesso che continuò l’opera di Aldo per Senso) con arte mirabile, senza mai cadere nel pedantesco o nella eccessiva raffinatezza.
In realtà il critico abituale di film si trova davanti a Giulietta e Romeo in non piccolo imbarazzo. Da una parte rischia di scambiare un’intelligente esercitazione di erudizione antiquaria per un’opera d’arte; dall’altra, affronta notevoli perplessità di ordine critico se si limita a tener conto di una pura e semplice riuscita di gusto quando è chiaro che Castellani ha mirato a ben altro che a un’ostinata, rigorosa ricerca di effettismi più o meno teatrali.
Giulietta e Romeo è infatti un risultato soprattutto figurativo. È Shakespeare, con presenti tuttavia tutte le sue fonti italiane, visto attraverso i nostri grandi pittori. È una festa di colori e di luce: come s’è detto, gli amanti giovinetti hanno l’età giusta del racconto, l’età delle guance fresche come rose di maggio e dei rapimenti del primo amore. I loro movimenti sono armoniosi, decisi senza violenza ed eleganti senza fasto: e come cinema puro, il ballo in casa di Giulietta è uno dei punti più alti raggiunti sino ad oggi dal sapiente e paziente Castellani. Rompendo poi la crosta di una certa convenzione retorica, secondo la quale il nostro cinema era significativo solo sul piano del neorealismo di stretta osservanza, Castellani ha dimostrato che le nostre squadre d’attacco sono ormai in grado di fare con successo film, realistici o non, in grado di esaurire molte delle possibilità del reale. Anche «L’Orlando Furioso» (il discorso per. Giulietta e Romeo vale pure per La strada) era un’opera di «evasione». Tuttavia è dotato ancor oggi di una vivezza che pare immortale. Senza contare che in quella sua particolare accezione realistica, Castellani ha saputo conferire a Giulietta, ragazza dei «quartieri alti», squisito frutto di una classe da lungo tempo ricca ed assestata, e a Romeo, borghese ancora un po’ bullo, di fresca estrazione e quindi di opulenza recente, caratteri di saporita evidenza.
Seguito con simpatia dal pubblico intelligente e da una critica illuminata, ed illuminante, Castellani, che ha poco più di quarant’anni, può giungere molto lontano; anche perché non gli è ignota la «boutade» di Malraux, che cioè il cinema è «anche» un’industria. Ci sia permesso solo, concludendo, di esprimere un rincrescimento, questo: che al Festival di Venezia Giulietta e Romeo sia stato premiato non «con» ma «contro» il film di Visconti. In tal modo l’opera di Castellani ha perso un poco del suo ultimo significato: di essere una delle due alternative, dei due moduli nei quali è solita manifestarsi la cultura del vecchio Occidente: realtà e sogno, Platone ed Aristotele. Tanto più che sappiamo da tempo che anche l’ombra è sole.
Tre anni durano le riprese e la lavorazione del Brigante di Renato Castellani (tratto dal romanzo di Giuseppe Berto) e per la sua realizzazione il regista gira centomila metri di pellicola, da cui trae un film di tre ore circa. La versione che giunge nelle sale è tuttavia già più breve di un'ora e compromette, in maniera decisiva, l'intenzione generale di costruzione di un grande affresco epico e corale di vita nella Calabria contadina negli anni tra fascismo e dopoguerra. La storia, raccontata in prima persona dal protagonista («Nell'ottobre del 1942 avevo dieci anni...»), secondo un ritmo e una struttura tutta spezzata a metà tra lingua e dialetto, pur ambiziosa nella sua struttura, nella costruzione dell'intreccio e delle cadenze narrative, è rifiutata all'unanimità dal pubblico e dalla critica.
Castellani subisce la sorte di altri registi della sua generazione (Soldati ha dovuto accettare compromessi forse più avvilenti ed è stato ridotto per primo al silenzio cinematografico), Giuseppe De Santis lo sarà in pratica dopo la realizzazione di Italiani brava gente perché pretende di continuare a difendere un proprio modello di cinema, senza accettare di essere rimesso in gioco dalla contemporanea dinamica «catastrofica» dei significanti e dei significati. La possibilità di continuare a raccontare come se attorno nulla fosse successo sarà concessa solo a Visconti tra tutti i registi della sua generazione. Ma Visconti possiede una statura stilistica e una poetica e un potere contrattuale che evidentemente gli altri non hanno.
Le altre opere di Castellani - Mare matto (1963), Questi fantasmi (1968), Una breve stagione (1969) - si situano in una specie di terra di nessuno, anche se l'ultima in particolare tenta di sintonizzarsi col presente, riproponendo però una variante dell'amour fou di Giulietta e Romeo. Dagli anni Settanta egli lavora a grandi progetti televisivi (Vita di Leonardo è del 1971, Verdiani 1982), dove ritrova la misura del grande racconto e delle grandi biografie romanzate, che gli consentono di valorizzare la sua professionalità, la carica di passione nello scolpire e sbalzare figure a tutto tondo che si scontrano e determinano avvenimenti e trasformazioni fondamentali nella storia. Grazie a Rossellini e a Castellani inizia il grande fenomeno della migrazione mediatica dal cinema alla televisione che ha contribuito a far sparire dagli anni Ottanta i generi dalla sala, ma anche le trascrizioni dei classici della letteratura e le opere con intenti didattici, le biografie e per qualche anno i film d'impegno civile.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
Renato Castellani, il regista cinematografico scomparso alla fine del 1985, era un uomo civile e ostinato, uno sperimentatore insaziabile, un tecnico di rara finezza. C'è un lontano profilo di lui, apparso sulla rivista La Fiera del Cinema nel novembre 1961, sotto il titolo Il regista architetto, per la spiritosa penna di Adriano Baracco. Eccone un brano: «Quell'estate pellicolare vestiva con trascuratezza, mangiava come un lupo, non gli si conosceva-no legami femminili. Aveva due piccoli occhi irrequieti e una testa di selce. Quieto e ragionevole, sembrava facile fargli cambiare idea, ma chi ci provò dovette combattere contro la più impervia testardaggine del secolo. Fin che aveva argomenti difendeva con quelli il proprio punto di vista, poi si isolava in un blando silenzio e parlava d'altro, lasciando cuocere l'oppositore a fuoco lento; infine lo sbranava con tutta una serie l'argomenti nuovi. Dopo una settimana di discussione, aveva fatto compiere all'oppositore il giro del mondo, senza spostarsi d'un centimetro».
Castellani è sempre stato il bastian contrario del cinema italiano. Nato a Finale Ligure nel 1913, trascorse la fanciullezza in Argentina ma frequentò il ginnasio e il liceo a Milano, laureandosi in architettura al Politecnico e facendo parte del gruppo detto «degli architetti milanesi» come altri futuri cineasti, Lattuada e Comencini, coi quali iniziò anche le ricerche di vecchi film che sarebbero sfociate nella fondazione della Cineteca. Sceneggiatore a Roma per Camerini, Blasetti e altri, nei suoi primi film come regista (Un colpo di pistola, 1941; Zazà, 1942) s'inserì con Poggioli, Soldati e lo stesso Lattuada nella corrente chiamata «dei formalisti», che fu un modo di resistere al cinema di regime per un cinema che Castellani spinse al limite del calligrafismo.
Nè si comportò diversamente, in fondo, nel primo dopoguerra, sebbene fin da Mio figlio professore (1946) in cui aveva fatto debuttare Suso Cecchi d'Amico come sceneggiatrice e Mario Soldati come attore, egli avesse mutato il suo stile in concomitanza col fiorire del neorealismo. Anche qui resistette alla tendenza dominante, almeno nel senso che i suoi soggetti non riflettevano la tragedia della nazione ma l'allegria della giovinezza, che non privilegia-vano il sociale ma il vitale, che si occupavano meno del pubblico e più del privato.
Sotto il sole di Roma non è accostabile né a Roma città aperta né a Roma ore 11. Risale al 1948, lo stesso anno in cui De Sica propose Ladri di biciclette e Visconti La terra trema, ma si piazzava agli antipodi. Usava anch'esso interpreti presi, come si diceva allora, dalla strada (se si esclude Alberto Sordi nella particina del maligno commesso). D'altronde Castellani non era meno maestro nel dirigerli: tant'è che uno di essi, Francesco Golisano detto il Geppa, sarebbe stato poi scelto da De Sica per il ruolo di Totò il buono in Miracolo a Milano. E anche Sotto il sole di Roma era ambientato in esterni, in una città prima invasa dai tedeschi, poi dagli americani, tra guerra, miseria, borsanera e sconquasso generale; ma la filosofia era sorridente, e il gruppetto di giovani popolani viveva avventure spericolate o squallide, ma tutto sommato con gioia, con l'incoscienza della loro età. C'era più neorealismo nel modo in cui il regista aveva fatto il film, accontentandosi del minimo indispensabile a impressionare la pellicola, che nel messaggio del film stesso: il quale permane scanzonato fin quasi alla fine, allorché il padre del protagonista Ciro, che è guardia notturna, resta ucciso in una sparatoria provocata da ladruncoli durante un colpo cui non è estraneo anche il figlio; e costui, che ha narrato in prima persona, conclude: «La gioventù senza pensieri era finita. Ora toccava a me pagare». I protagonisti di Rossellini, di De Sica, di Visconti, invece, avevano cominciato a pagare dall'inizio.
Per commemorare Castellani, la televisione ha riproposto il suo trittico di «neorealismo rosa», come lo si chiamò allora, e il cui secondo atto, Primavera (1949), costituì un ulteriore passo verso la commedia di costume che si sarebbe imposta negli anni Cinquanta. Era la vicenda, tratta da uno sconcertante fatto di cronaca e brillantemente raccontata, di un soldatino bigamo: una moglie a Catania, una moglie a Milano, e tutto perché la sua innocente irruenza fiorentina piace alle donne, esattamente come non piace alle autorità militari che indulgono ai trasferimenti improvvisi, senza tener conto dei legami sentimentali. A un certo punto il nodo da sciogliere in tribunale si è fatto così intricato, che il film sfiora il grottesco, e sembra anticipare le commedie sicule di Germi negli anni Sessanta, Divorzio all'italiana e Sedotta e abbandonata.
La televisione aveva già dedicato al regista che si sentiva «dimenticato» un ciclo di sei film nel 1980, con il titolo Il breve volo della giovinezza che ben sintetizza la caratteristica fondamentale del suo cinema. Al termine di ciascuna opera l'autore,
notoriamente schivo di dichiarazioni all'epoca in cui le realizzò, conversava col curatore della rassegna, Pietro Pintus, che nel saggio Storia e film su trent'anni di cinema italiano dal 1945 al '75, non aveva mancato di ricordare, per esempio, le polemiche suscitate dal terzo e più famoso film della trilogia, Due soldi di speranza, girato nel 1951 e uscito l'anno successivo. Il neorealismo si tingeva di rosa, come s'è detto, e stava per diventare «arcadia», mentre un duro clima di restaurazione e di censura processava Militarmente, per un progetto di film apparso su "Cinema Nuovo", Renzo Renzi e Guido Aristarco, i quali avrebbero poi ricostruito la loro esperienza in un libro intitolato appunto Dall'Arcadia a Peschiera (luogo, quest'ultimo, del carcere militare in cui erano stati rinchiusi).
Che cosa c'entrava Castellani con tutto questo? Nulla; e infatti nulla disse in proposito, neppure discorrendo in televisione nel 1980. Evidentemente era solo responsabile di rare i fini che sentiva e di farli con sincerità e lo scrupolo ch'erano tipicamente suoi, e ai quali va reso onore, oggi come allora. Ma la morale è che il suo lavoro veniva sempre strumentalizzato per umiliare o soffocare il neorealismo di punta. Così Sotto il sole di Roma fu ritenuto alla Mostra di Venezia il miglior film italiano nell'anno stesso in cui concorreva La terra trema. Così Due soldi di speranza, vincitore a Cannes, fu> sostenuto in alternativa a Umberto D. di De Sica, e venne incoraggiata la nascita della commedia all'italiana, del divismo e delle maggiorate fisiche attraverso Pane, amore e fantasia di cui Castellani risultò l'incolpevole antesignano. Infine, alla Mostra del '54, si preferì al risorgimentale Senso di Visconti il suo rinascimentale spettacolo a colori Giulietta e Romeo, che tutti oggi ritengono accademico e glaciale, ma che allora ebbe il Leone d'oro per quanto la copia proiettata fosse, contro il regolamento, ancora quella di lavorazione in lingua inglese.
Insomma, per essere un bastian contrario, a Castellani non mancarono i riconoscimenti ufficiali. Il suo neorealismo non fu maledetto come quello degli altri maestri, bensì singolarmente «benedetto» in un momento in cui c'era proprio bisogno, per coloro che intendevano affossare il cinema italiano che li disturbava, di una voce «d'opposizione» come la sua. La tematica fresca, giovanile, «positiva» di questo regista - che in Due soldi di speranza trovò, a partire dal titolo fino all'in-quadratura conclusiva della chiesa, il suo compendio e la sua esaltazione - serviva
benissimo a combattere e ad annullare il «pessimismo» di De Sica e Zavattini che in Umberto D. si occupavano di un vecchio e sgradevole pensionato. C'era bensì una giovanissima servetta accanto al protagonista, ma essa non mostrava certo l'ottimistica grinta della memorabile Carmela di Castellani, sintesi delle sue figure di donna. Anzi costei doveva essere ancor più aggressiva. Come rivela Sergio Trasatti nel «Castoro» dedicato a Castellani nel 1984, nella sceneggiatura originale Carmela si rivolgeva alla madre, spaventata del matrimonio miserabile che la figlia vuole invece affrontare, con queste parole: «Non ho niente, ma metterò al mondo tanti di quei ragazzi che grideranno `ho fame' così forte che qualcuno ci dovrà pur sentire». Ma la battuta (chissà se suggerita da Titina De Filippo che firmò con lui i dialoghi) fu eliminata dal regista perché «troppo da pamphlet». In realtà perché rompeva una certa «misura» del film.
Per restar fedele a questa misura, infatti, il nostro autore era disposto a ben altri sacrifici che alla soppressione d'una sola battuta, anche se tanto aderente alla situazione sociale della coppia in quel paesino meridionale. Era disposto a sottrarre alla realtà il suo spessore drammatico, a tenersi alla superficie dei problemi, a non spingersi a fondo nella sostanza delle cose per non incrinare il delizioso, calcolatissimo scoppiettio delle trovate. La commedia alla Castellani possiede l'aureo meccanismo della pochade borghese travestita in stracci e ambienti proletari. E un irresistibile congegno a orologeria, con un montaggio incalzante e una inappuntabile direzione di interpreti: una macchina di divertimento perfettamente oliata e che spacca il minuto, coinvolgendo lo spettatore in un ritmo senza respiro, ma che appunto non gli concede il respiro per pensare.
Si può quindi capire che il suo cinema fosse benvenuto e osannato nel clima che si voleva creare in Italia dopo la fiammata neorealistica. Castellani inseriva si nel neorealismo un aspetto nuovo e vitale, ma occultando tutti gli altri aspetti più importanti. Cosicché il vitalismo dei suoi personaggi, concepito col fervore di un tecnico raffinato ma con una totale assenza di sensualità (sensualità intesa anche come profondità), lasciava sempre alla ime una sensazione di limitatezza e di freddezza.
In ogni caso, nel suo isolamento di artista ribelle alle mode e refrattario alle ideologie, lui non era e non fu il tipo da profittare dei favori che gli rendevano e del ruolo che gli facevano assumere. Non diede ascolto a nessuna sirena e proseguì imperterrito per la sua via. Ma la gioventù che ora gli usciva sullo schermo era assai meno spensierata di un tempo e sempre più duramente contrastata dalla fatalità (I sogni nel cassetto, 1957) e dal disagio esistenziale (Una breve stagione, 1969). Castellani si trovava sempre più spiazzato nel bel mezzo della commedia all'italiana di cui era stato il precursore. E la contraddizione si rivelò più clamorosamente che mai con Il brigante, che nel 1961 affrontava la fame e le lotte nel Sud, mentre la nuova borghesia rampante era tutta protesa a bearsi del miracolo economico al Nord. Fu il suo film preferito: il più impegnato in una stagione di disimpegno, il più censurato dalla sua stessa produzione, il più doloroso dei suoi insuccessi, mentre avrebbe meritato più successo di tutti gli altri. Adesso che finalmente emetteva «messaggi», i messaggi non erano ascoltati e apparivano fuori tempo; e soltanto la sua singolarità di autore controcorrente veniva ancora una volta confermata, imo al paradosso. Si ritirò per sempre dal cinema dopo Una breve stagione, e cioè alla fine degli anni Sessanta per lui così deludenti, ma già l'amaro calice delibato con Il brigante aveva segnato la data del suo distacco.
Tuttavia quest'uomo così dotato, questo professionista così serio, non poteva rimanere inattivo. Da giovane s'era occupato di radio, lasciandone una testimonianza teorica in un articolo pubblicato sul fascicolo di Natale 1936 della rivista "Cinema" e intitolato La radio a lezione dal cinematografo. Ma vi si parlava anche di televisione: quella televisione cui dedicò, in pratica, gli ultimi quindici anni di vita. Una parabola che assomigliava in parte a quella di Rossellini. Aveva lavorato esclusivamente per il piccolo schermo, ma con grandi spettacoli biografici, dalla Vita di Leonardo del 1971 al Giuseppe Verdi del 1982. In questi «sceneggiati» a puntate, con la sua inesausta devozione al perfezionismo, Castellani sostituiva le ricerche storiche (come già in Un colpo di pistola e in Giulietta e Romeo) alle interviste sulla contemporaneità, le biblioteche ai materiali raccolti dal vivo, la filologia del passato a quella del presente. Poi sì era dato all'avvenirismo col progetto di un'isola del tesoro in chiave fantascientifica. S'intitolava provvisoriamente Sotto il vasto cielo stellato ed era in fase di avanzata preparazione al momento della sua morte, la sera del 28 dicembre 1985, a settantadue anni.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006