Mauro Bolognini è un regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 28 giugno 1922 a Pistoia (Italia) ed è morto il 14 maggio 2001 all'età di 78 anni a Roma (Italia).
Mauro Bolognini ha riportato fin dai suoi esordi nel cinema italiano un gusto figurativo e letterario insieme che, pur muovendosi sempre nell'ambito del realismo e, a volte, addirittura del neorealismo, rispecchiava tendenze più colte, di derivazione francese, nell'ambito di una seria e maturata contaminazione fra realtà e pittura.
Ce lo dimostrò subito con Gli innamorati in cui, prospettandoci una vicenda corale ambientata a Trastevere, tra baruffe, ripicche, giochi d'amore, equivoci, dispetti, pur facendosi suggerire dalla cornice trasteverina quel tanto di schietto, di vivace, di scabro che il realismo poteva proporgli, svelava già delle evidenti intenzioni letterarie che, anche senza essere chiaramente indicate, partccipavano quasi interamente del mondo di un Belli o di un Goldoni.
Più tardi, con Giovani mariti, lo stesso clima è visto sotto l'angolo di una diversa classe sociale (negli Innamorati c'era il popolo, qui c'è la borghesia di provincia) ma l'atmosfera gaia e malinconica ad un tempo resta la stessa e già si pongono temi e problemi che, senza proprio allargarsi a meditazioni sociali, cercano comunque di risolvere interrogativi precisi sulla psicologia dell'uomo moderno, sul costume contemporaneo.
Discutibile e discussa, invece, La notte brava, in cui la gioventù trasteverina, considerata in chiave garbatamente letteraria negli Innamorati, viene ora esaminata alla luce di un neorealismo crudo, spietato, non certo gradevole che, per restare in sede letteraria, è suggerito a Bolognini dai testi di Pier Paolo Pasolini, tutti rivolti all'indagine senza veli della vita delle borgate romane.
Un'indagine che Bolognini prosegue, con risultati altrettanto dubbi, nella Giornata balorda, dove però, quasi a ribellarsi ai suoi stessi temi troppo vistosamente accentrati sulla realtà più cruda, si compiace di darsi un linguaggio sempre più prezioso e calligrafico: in contraddizione con i personaggi, ma non con le sue aspirazioni culturali.
Queste aspirazioni, superata la fase letteraria pasoliniana, trovano pieno e compiuto sviluppo nei film seguenti, a cominciare da quel Bell'Antonio, che Bolognini ricavò con sensibilità dolorosa dall'omonimo romanzo di Vitaliano Brancati, raggiungendovi una fusione quasi perfetta fra linguaggio letterario e linguaggio cinematografico, con uno stile di cui ormai sempre più sembrava divenuto decisamente padrone: anche se i personaggi del romanzo, che avevano una loro ragion d'essere soprattutto se visti un po' anche in una atmosfera di caricatura, sono diventati cupi e grotteschi come maschere tragiche e hanno svelato un'umanità che, per essere tutta esasperata, è risultata non di rado più vicina all'esagerazione che non alla misura.
Più perfetto, La viaccia, tratto anch'esso da un'opera letteraria: Bolognini lo ha svolto con una serietà, un impegno stilistico e un rigore drammatico veramente notevoli, dosando lo scontro dei personaggi con un piglio nervoso ed asciutto, sorretto e guidato ad ogni passo da un'ispirazione realista, ora aspra, impetuosa, desolata, ora volutamente piegata a sfumature intimamente letterarie. Con un gusto pittorico che conferisce al suo linguaggio una dignità insolita, una nobiltà colta e preziosa cui si aggiunge la grazia di un gruppo di personaggi sorpresi tutti in una Firenze fine secolo, rievocata con il colore e l'atmosfera di una vecchia stampa, parlanti correttamente in lingua: una lingua ovviamente fiorita dai riboboli, dalle coloriture e dai modi di dire non solo dei fiorentini di città, ma anche di quelli di campagna, ma una lingua che è pur sempre l'italiano «vero », quello che può indifferentemente figurare nell'eloquio di tutti i giorni e in un testo letterario.
Il film però in cui Bolognini ha più vivacemente raggiunto il punto d'incrocio tra cinema e letteratura è senza dubbio Senilità, tratto dal celebre romanzo di Italo Svevo.
Suo protagonista è un intellettuale triestino, sprovveduto, ingenuo, tutto generosità e giovanili candori (nonostante tocchi la quarantina). Costui, sul finire del secolo, si fa conquistare dal fascino di una bella ragazza bionda, piena di vitalità e di ardore che, sulle prime, gli sembra timorata e onesta. Se ne innamora liricamente, la rispetta, ne fa quasi l'oggetto di un culto, ma la sua povertà, il suo poco coraggio, la presenza in casa di una sorella nubile di cui è tenuto a occuparsi, gli impediscono di parlare di nozze e lo inducono a un certo momento a consigliare alla ragazza un matrimonio qualsiasi, con uno che possa proteggerla senza toglierla a lui. Quando però l'altra non solo si dimostra pronta a seguire quei consigli, ma si rivela addirittura di costumi facili e corrivi, avida, bugiarda, ricca di un passato tutt'altro che raccomandabile, l'intellettuale non tarda a cadere in preda a una furiosa gelosia che, oltre a non scemare quando, quasi con disprezzo, sarà divenuto l'amante della ragazza, aumenterà a tal segno da fargli preferire, con il tempo, una definitiva anche se straziante separazione.
Portare sullo schermo questo contrasto non era semplice soprattutto per la complessità e l'apparente contraddittorietà del carattere del protagonista con quel suo voler e disvolere, quella sua falsa disinvoltura e quella sua autentica debolezza, frutto di un animo credulo, impreparato, quasi umile. Bolognini invece ha affrontato l'impresa con salda preparazione culturale e con risultati che, con delle incertezze, possono essere considerati in buona parte positivi.
È vero, il personaggio principale risulta meno timido ed esitante di quello di Svevo e il suo scontro con la donna, il cui carattere è più forte e più felino di quello del romanzo, denuncia qualche oscurità e persino talune incongruenze (accentuate dallo spostamento dell'azione dal 1898 al 1927, in un'epoca, cioè, in cui era più arduo l'equivoco romantico della donna leggera scambiata per virtuosa) ; anche con queste varianti, però, le dimensioni umane e morali dell'opera di Svevo non risultano sminuite e il regista, anzi, arriva ad esprimerle con austera nobiltà: nel duetto fra i due amanti, ad esempio, preparato, svolto e poi concluso nel dolente clima di interrogativi, di passioni represse e di finzioni cui lo scrittore lo aveva affidato; nel sapiente alternarsi dei personaggi secondari (la sorella, specialmente, e l'amico scultore) e in quella cornice triestina che, pur mutata di epoca, ha fedelmente saputo conservare quel sapore desolato, invernale, disadorno che è uno dei pregi, e non solo formali, del romanzo.
Con uno stile che, eccezion fatta per un finale pleonastico e per nulla sveviano, sa unire nelle immagini lo splendore della composizione alla immediatezza della realtà pazientemente ricostruita.
Da Cinema italiano 1952-1965, oggi, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, Roma 1966
Anche Mauro Bolognini, che pure ha alle spalle una decina di lungometraggi, raggiunge la maturità negli anni Sessanta.
Bolognini non prospetta un'idea di cinema d'avanguardia, non rivoluziona le tecniche e le forme, non anticipa le mode: il suo sistema espressivo è soprattutto un perfetto esempio di trascrizione artigianale di opere letterarie.
La sua presenza discreta ha favorito - fin dai primi anni Sessanta - la circolazione e stabilizzazione di luoghi comuni sull'eleganza, ma sulla sostanziale freddezza delle sue illustrazioni, sul predominio delle scenografie sull'impianto drammatico e ideologico. Il modello narrativo è quello, a tutto tondo, del romanzo ottocentesco: Bolognini non si è mai vergognato di filmare la contessa che esce di casa alle cinque, anche se, al posto della contessa, ha preferito mettere una prostituta, o un'operaia. In pratica ha percorso senza scarti la strada del racconto lineare, nel pieno rispetto delle categorie spazio-temporali, delle regole dell'intreccio, dello sviluppo organico del racconto e delle psicologie dei personaggi.
A un primo esame, il più contiguo punto di riferimento è Visconti: come lui ama controllare tutte le fasi del processo realizzativo, si confronta di preferenza con i testi letterari e procede ad accurate ricostruzioni ambientali. Rispetto a Visconti le sue preferenze vanno però ad autori maledetti, a zone subalterne della letteratura (l'area degli Scapigliati per esempio) o ad autori contemporanei: da Pratesi, Chelli, Charles-Louis Philippe giunge attraverso Svevo a Moravia, Tobino, Parise, Pratolini, ecc. L'incontro con Pasolini invece gli consente di prendere contatto col mondo dei sobborghi romani, di cambiare standard della rappresentazione. Del mondo delle borgate il regista da un'immagine meno violenta, più morbida, in cui giocano mediazioni spettacolari (attori professionisti contro i ragazzi di vita di Pasolini), scelte figurative, un'attenzione per i valori tonali dell'illuminazione, una ricerca accurata del taglio dell'inquadratura e una precisa scansione ritmica del montaggio. Bolognini non riprende frontalmente i suoi personaggi piazzando la macchina da presa ad altezza d'uomo: cerca piuttosto un'inquadratura non orizzontale che privilegi gli scorci, i valori prospettici, il movimento del personaggio lungo la profondità del campo, le riprese dal basso e dall'alto.
Oltre che per una qualità visiva che sa mantenere standard molto alti e per la capacità di ricostruire con grande cura e verosimiglianza ambienti del passato, riuscendo a esaltare il lavoro della scuola italiana di scenografi e costumisti, Bolognini rivela dai primi anni Sessanta le sue qualità di direttore d'attori che gli consentono di ottenere memorabili interpretazioni da parte di alcuni dei suoi interpreti, da Massimo Ranieri a Ottavia Piccolo, da Claudia Cardinale a Marcelle Mastroianni, in uno dei ruoli più difficili della sua carriera (II bell'Antonio). Bolognini ha lavorato con scrittori, sceneggiatori e con i migliori artigiani, scenografi, costumisti e attori del cinema italiano. Si è sempre considerato fortunato nell'aver potuto lavorare con Pasolini, Parise, Moravia e con scenografi come Garbuglio, Buccianti, Polidori, Scaccianoce, costumisti come Donati, Tosi, Pescucci, musicisti come Piccioni, Rizzitelli, Morricone, Trovajoli, fotografi come Rotunno, Martelli, Nannuzzi, Tonti, Guerrieri, attori come Mastroianni, Cardinale, Lea Massari, Silvana Mangano, Gina Lollobrigida... Mentre Visconti e altri registi hanno concepito le proprie équipes come una famiglia e nel tempo le hanno mantenute il più possibile Bolognini è stato assai più libero e ha cercato di ottenere di volta in volta i migliori collaboratori possibili per quel tipo di lavoro.
Gli anni dal 1960 al 1962 registrano un salto di livello e lo portano alla realizzazione di tre film (II bell'Antonio, La viaccia, Senilità), in cui il passato è visto come limpido specchio del presente. Sotto un identico sguardo carico di affettività Bolognini fa muovere una folla di personaggi: proletari, contadini, operai, intellettuali, piccoli borghesi, anarchici, forze di polizia, burocrati, prostitute, alienati mentali, ecc. Folla, in genere, composta da vinti, da uomini e donne che lottano per l'affermazione di qualcosa e urtano inesorabilmente contro forze maggiori di loro. Persone che vanno contro la storia, che perdono perché non hanno - come dice un personaggio dell'Eredità Ferramenti (1976) - dalla loro parte il mondo, ma che, nonostante tutto, continuano nella lotta. Soprattutto lo hanno affascinato le donne - sorelle e figlie delle eroine dei melodrammi pucciniani - che, con ammirevole coraggio, iniziavano la loro ascesa sociale, spesso risultandone travolte, ma sempre riuscendo ad affermare qualcosa in più rispetto agli uomini.
Il progetto di ricostruzione di un vasto affresco della società italiana post-unitaria rivela la struttura di un puzzle, ricomponibile solo grazie a uno sguardo che disponga, sincronicamente, le diverse opere.
Il film della svolta è Il bell'Antonio del 1960. Rispetto al romanzo di Brancati l'azione si sposta dal fascismo al presente: viene così a mancare l'identificazione voluta dallo scrittore tra l'impotenza del protagonista e quella del regime, ma si porta lo sguardo su una società che continua a vivere dei miti ereditati dal fascismo. Nello stesso anno La viaccia (tratto dal racconto di Mario Pratesi L'eredita) segna il primo spostamento dell'attenzione alla società dell'Ottocento. Il film è figurativamente costruito in alcuni momenti (le scene del bordello) sul modello della pittura dei macchiaioli (Telemaco Signorini e Adriano Cecioni in particolare): al regista interessa più la rappresentazione del conflitto tra città e campagna, tra fedeltà a principi che si pongono al di sopra di ogni valore (come quello della conservazione a ogni costo dell'unità del patrimonio agricolo) e il rapido mutare dei costumi. Il lavoro di recupero di una memoria storica perduta attraverso i testi letterari si viene disponendo poco a poco come una vera e propria recherche e ha legittimamente portato Pietro Bianchi a definire Bolognini come «il più proustiano dei nostri registi».
Come per II bell'Antonio, anche in Senilità (1962) l'azione del romanzo di Svevo dalla fine dell'impero austro-ungarico è spostata alla Trieste degli anni Venti. Si perde così la motivazione profonda dello spirito irredentista del romanzo, e si continua il discorso sui tabù, sulle convenzioni e repressioni che condizionano la vita dell'individuo. Anche nel successivo Agostino, tratto dal romanzo omonimo di Moravia, vi sono spostamenti geografici e temporali, e si cerca di intrecciare, in modo stretto, i motivi psicologici con quelli sociali. C'era inoltre in lui una capacità di cogliere il volto e l'anima di alcune delle maggiori città italiane - da Trieste a Venezia, da Bologna a Firenze, da Roma a Catania - con una sensibilità e un'attenzione che nessun altro regista ha mostrato.
Ormai di fronte allo sguardo del regista si sono stabilizzate due realtà privilegiate: da una parte quella popolare, come luogo di una montante spinta sociale, e dall'altra quella borghese, in cui si svolge una lotta senza quartiere per il denaro e dove tutte le pulsioni vengono incanalate, sublimate, represse. Salvo poi esplodere e degenerare nel delitto, nella follia, nella violenza più cieca.
Tra il 1962 e il 1966 il regista realizza una decina di episodi per altrettanti film tra cui il memorabile La balena bianca, tratto da un soggetto originale di Goffredo Parise: l'esperienza è importante per verificare inediti livelli del proprio registro espressivo, dal comico al grottesco.
Dopo la realizzazione di un paio di film di routine (Madamigella di Maupin, 1966, eArabella, 1967) il lavoro sui testi letterari riprende. Il regista non pare traumatizzato dalla dinamica del linguaggio cinematografico e le tecniche, il modo di narrare e costruire il racconto continuano lungo il medesimo asse praticato in precedenza. Questo gli garantisce di non uscire dal livello medio-alto della produzione.
Metello, alle soglie degli anni Settanta, apre una ulteriore fase (piuttosto che Un bellissimo novembre tratto da Ercole Patti, o L'assoluto naturale da Parise) in quanto, più che rivoluzionare il sistema, porta in superficie e rende più esplicite idee finora rimaste sullo sfondo del suo lavoro.
La trascrizione del romanzo è distante dalle polemiche che lo avevano visto assumere un ruolo di guida - assieme a Senso - nella prospettiva teleologica del «passaggio dal neorealismo al realismo». Metello segna per il regista un riappaesamento nella Toscana, un ritorno ad ambienti perfettamente noti e un passo avanti verso una maggiore definizione del linguaggio politico dei personaggi.
Poi Bubù (1971), tratto da un romanzo di Charles-Louis Philippe, vibrante di riferimenti (la pittura di Auguste Renoir o alcune scene di Casco d'oro di Jacques Becker sono i più immediati), opera in cui si attua un'ulteriore messa a punto figurativa e ideologica («Solo quando ci sarà piena giustizia potremo sapere dov'è il bene e dov'è il male. E il meccanismo del mondo che va cambiato»).
Alcune opere successive, come Libera, amore mio o Fatti di gente perbene, non hanno avuto da parte della critica e del pubblico l'attenzione che avrebbero meritato. In Fatti di gente perbene Bolognini affronta in chiave metaforica, attraverso la storia del processo Murri, un episodio sintomatico e iniziale di manipolazione dell'opinione pubblica e di strategia della tensione agli inizi del secolo. Con la vicenda di Libera, amore mio si cerca di dimostrare l'interpretazione della continuità del fascismo nel dopoguerra. L'inquadratura finale del corpo di Libera (uccisa casualmente all'indomani della liberazione da un cecchino fascista) vestito di rosso, circondato da pomodori rossi usciti dalla borsa della spesa, mi sembra uno dei momenti in cui più sincreticamente il regista offre in termini visivi il senso della sua visione del mondo. Per le antiche scale, tratto dal romanzo di Tobino, L'eredità Ferramenti, così come Gran bollito riprendono e variano gli stessi temi, ormai più volte eseguiti. Il cinema di Bolognini non è un cinema rivoluzionario, ma deve alla sua coerenza interna, al suo spirito laico, al suo rispetto della lettera dei testi a cui si ispira, e al suo tentativo di produrvi un senso ulteriore, non pochi motivi di distinzione e di legame con gli autori che occupano i gradini più alti nella scala dei valori espressivi.
Tra i titoli degli anni Ottanta: La vera storia della signora delle camelie, La venexiana, dall'omonima commedia cinquecentesca, Mosca addio, sulla figura di Ida Nudel, dissidente sovietica ebrea.
Bolognini potenzia, nell'ultima fase della carriera, la sua attività di regista teatrale e di opere liriche e pone in secondo piano il lavoro cinematografico, scegliendo quasi una sorta di precoce prepensionamento. In effetti, i film dalla fine degli anni Settanta, a eccezione di Gran bollito ricostruzione di un faits divers del dopoguerra (la storia di Ida Cianciulli - variante nostrana di Landru - che negli anni della ricostruzione aveva ideato una piccola impresa autogestita di saponificazione di persone attirate in casa e uccise in vari modi), non mutano il valore complessivo della sua opera, né vi aggiungono nuovi elementi.
Volendo ispirarci al titolo di un romanzo di Ferdinando Camon (La donna dei fili), Bolognini si può considerare «l'uomo dei fili» del cinema italiano, l'autore che in maniera più sistematica ha tentato di raccordare i vari sistemi espressivi all'interno di una trama e un ordito che hanno prodotto un disegno pressoché unico per ampiezza e coerenza, una sorta di panorama o di gigantesca veduta che rappresenta nella sua continuità lo sviluppo coeso e continuo della storia e geografia dell'Italia dall'Unità agli anni del boom.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007