•  
  •  
  •  
Apri le opzioni

Rassegna stampa di John Ford

John Ford (John Martin Feeney) è un attore statunitense, regista, produttore, produttore esecutivo, scrittore, è nato il 1 febbraio 1894 a Cape Elizabeth, Maine (USA) ed è morto il 31 agosto 1973 all'età di 79 anni a Palm Desert, California (USA).

PIERO DI DOMENICO
MYmovies.it

Il suo interesse per virtù umane primordiali quali la lealtà, l'orgoglio familiare o comunitario, il coraggio, lo spirito pionieristico, si è materializzato in una serie di lavori che costituiscono nella loro essenza la storia dell'America, dalla sua nascita alla depressione degli anni Trenta.
La sua devozione all'America e il suo punto di vista sulle leggendarie qualità di questo paese hanno origine nel suo passato di immigrante. Tredicesimo figlio di Sam O'Fenney, proveniente da Galway (Irlanda) e fortemente legato alla patria d'origine, Ford si recò diverse volte in Irlanda, crescendo con un forte senso dell'amicizia e della giustizia, ereditata nella sua forma virile dalle sue origini irlandesi.

DAVE KEHR
The New York Times

Film culture in this country has long been in need of a paradigm shift, a way of saving old films from the swamp of nostalgia and seeing them as vital cultural products rather than quaint artifacts of another age. People don't read Faulkner's “Light in August” to be reminded of their lost youth, but most studios continue to market their library titles (when they bother to market them at all) as so many trips down memory lane.
That approach might have worked at the dawn of home video in the late 1970s, but for obvious reasons the nostalgia audience for prewar films is not a growing market segment. What the home video industry needs is something that book publishers have had for a century: a sense of the backlist as a living body of work that merits and rewards the attention of each new generation.
“Ford at Fox,” a gargantuan set that assembles 24 of the 50-some films John Ford made for the studio that was his most consistent home, may be just the nudge the old paradigm needs. Other studios, notably Warner Brothers with Stanley Kubrick and Universal with Alfred Hitchcock, have produced collections devoted to single directors, but no previous effort has matched what Fox has put into this impressive undertaking.

EMANUELA MARTINI
Film TV

Una volta, interrogato sui suoi autori americani preferiti, Orson Welles rispose: “Tutti i classici. Che per me signifi.ca: John Ford, John Ford e John Ford”. E aggiunse: “Ford era un poeta e un commediante”. Una sintesi esemplare e un omaggio, da parte di un geniale maudit, all'autore più classico, diligentemente attento alle regole dell'industria ma non per questo meno autonomo, uno che, sollecitato da un producer perché indietro nella lavorazione, strappò le pagine del copione non girate e ringhiò: “Adesso puoi andare a dire al tuo capo che siamo di nuovo nei tempi”. Un brutto carattere, John Ford, nato in America (nel 1895) da solidissimo ceppo irlandese, e forse per questo rissoso, schivo, brusco. Non voleva sentir parlare di arte né dilungarsi sui significati psicologici ed estetici dei suoi film, odiava le interviste, non guardava quasi mai in macchina ma dirigeva sedendo accanto a essa, e diceva del suo lavoro: “Mi è sempre piaciuto fare film; sono stati tutta la mia vita. Mi piace la gente che ho attorno, gli attori, le attrici, i tecnici, gli elettricisti; e mi piace essere sul set, indipendentemente dalla storia che sto girando. L'unica cosa che riconosco di aver sempre avuto è occhio per la composizione; non so da dove mi viene, ma è tutto quello che ho. Da bambino, credevo che sarei diventato un artista. Ma dopo non ho mai pensato a quello che faccio in termini di arte. Per me, il mio è sempre stato un lavoro - che ho amato immensamente - e questo è tutto”. Ma per gli altri, per il pubblico, per Orson Welies, per Peter Bogdanovich e per Lindsay Anderson (altri due registi innamorati del cinema di Ford, che hanno scritto i due libri più belli su di lui, John Ford e About John Ford, riuscendo nell'impresa nella quale fallivano i giornalisti, due appassionate, devote interviste di carriera), non era tutto.

PIETRO BIANCHI

È curioso, così passa il tempo, che si sia ormai giunti a considerare il cinematografo come una faccenda già antica, come una acquisizione spirituale cui si ha diritto nascendo; e che sia venuta la stagione dei profili critici, dell'opera omnia e insomma dei bilanci artistici che comprendono tutta una vita. Eppure è storia di ieri quella nella quale si parlava sempre di un regista di qualche importanza come di un «ex»: Charlie Chaplin era un ex-clown; Dreyer un ex-giornalista come René Clair; mentre Eisenstein e Murnau venivano dalle arti figurative e De Sica dalle tavole del palcoscenico. Sin dal lontano 1925, quando si rivelò con Il cavallo d'acciaio, il regista John Ford mostrò i limiti dei suoi interessi e, nello stesso tempo, la sua forza di narratore. Il cavallo d'acciaio era un film sui pionieri del West, come lo sarà più tardi un'altra pellicola interessante, I tre birbanti, come lo saranno, vent'anni dopo, Ombre rosse e Sfida infernale. A parte, nell'opera di Ford, è da ricordare il bellissimo Tutta la città ne parla; mentre saranno da studiare i film della nostalgia irlandese: Il traditore, L'uomo tranquillo. Con i film Uomini alla ventura, Il sole splende alto, il panorama dell'opera è completo. Si può tentare, ora, una interpretazione d'assieme. Psicologicamente, Ford è un uomo semplice, un americano ottimista e bonario, cui però l'origine irlandese e la formazione cattolica conferiscono doti di tollerante comprensione e di umana pietà. Un americano tipico, dunque, con passioni, sentimenti, ignoranze, caratteristiche dell'uomo medio USA: ha il culto delle origini americane, dell'epos disegnato dal «carro coperto» e dalle donne di casa, fiere compagne dei pionieri, che all'occasione sapevano imbracciare il fucile, degli orizzonti metallici, incisi con estrema puntualità, dai deserti e dalle rocce del West. È questo l'uomo che incomparabilmente ha dato vigore nuovo a temi lisi, ormai vuotati di ogni calore: è l'uomo dei capolavori Ombre rosse e Sfida infernale. Vicino a questo Ford, bonario «narratore di storie», vi è poi il Ford doloroso e drammatico, e vi è il Ford della commedia domestica e rustica. Il Ford drammatico è quello che piace a tanti; ma che a noi piace meno: è la riflessione triste sul Traditore, il gigante dal cervello di bambino che commette un'azione infame senza misurarne esattamente il valore; è la tragedia corale della Pattuglia sperduta, soldati inghiottiti dal deserto e che rimangono vittime di nemici invisibili; è il prete del romanzo di Graham Greene, che continua il suo ministero in una regione desolata, percorsa da implacabili aguzzini. A questo filo va aggregato un film minore, ma non privo di interesse: Uomini alla ventura, rifacimento di un vecchio film, che serba visibili incongruenze del suo antiquato impianto teatrale, ma che raggiunge un certo sapore nella satira della vita militare. Il sole splende alto appartiene, come Tutta la città ne parla, al Ford, a nostro avviso, più complesso: quello della commedia rustica e domestica. Non inganni, a questo proposito, l'ambiente del vecchio capolavoro Tutta la città ne parla. Gangster, metropoli, impiegate spiritose e coraggiose son tutti elementi di comodo. Il fondo è quello della vecchia, familiare e sbronza follia irlandese; non il ramo intellettualistico, metropolitano, cosmopolita, che tende fatalmente a farsi inglese, cioè quello di Swift, di Wilde, di Shaw. Ma l'altro, come si diceva, più rustico, che s'è espresso in George Moore, soprattutto con Yeats e Synge nel teatro, e persino nel James Joyce dei «Racconti di Dublino»e di «Dedalus». La chiave di questo ultimo Ford (che non per niente è l'ultimo) apre sia il forziere dell'Uomo tranquillo, rimpianto della ronda Irlanda, sia del Sole splende alto, nostalgia nel lontano Sud provinciale. La tromba che il giudice Priest fa suonare al più piccolo invito può essere la proiezione emblematica della posizione di Ford di fronte alla vita: la quale può avere, anzi ha, pecche gravissime. Uccide i migliori in battaglia, elimina dolcissimi bambini ancora in fasce, offende le vergini, esalta i mascalzoni, opprime i deboli. Però ci illumina col caldo sole, ci rallegra con le canzoni, ci aiuta con gli opimi raccolti, ci offre le dolci, fedeli, belle compagne e ci conforta con gli amici e con tutta la gente umile e buona che incontriamo lungo il nostro cammino. La vita, suggerisce Ford, è anche lealtà e forza virile. Ed è anche nostalgia del «piccolo mondo antico», da cui sono venuti quei giganti, i nostri padri. L'accoglienza che il villaggio natale fa all'«uomo tranquillo», reduce dalla tumultuosa Chicago degli incontri di boxe, è rustica ma affettuosa: e i verdi prati, e i capelli rossi di Maureen O' Hara sono colori squillanti, nudi e fedeli. Così i sentimenti che il giudice Priest nel Sole splende alto vuole che appaiano vincitori della meschinità, della viltà, e soprattutto dell'egoistico «amor sui», sono quelli di un mondo ancora familiare e raccolto, quasi goldoniano, geloso nelle mura domestiche, ma alla mano e ciarliero nella piazza dove tutti si incontrano. Dalla straordinaria capacità di motivare in un linguaggio figurativo i suoi semplici eroi, semplici ma non mai marionette o astratte figure, nasce la poesia dei film più toccanti dell'irlandese. Egli dà stile e intelligenza all'incoercibile, sfrenata vita, e ha momenti dove la narrazione, sempre viva e svariante, trattiene il respiro suggerendoci alti sentimenti e pensieri. Così è ne L'uomo tranquillo il ricordo, che frena il pugno di John Wayne pronto a scattare, dell'incidente sul ring; e ne Il sole splende alto la fragile riga nella polvere della strada tracciata da Priest come argine alla violenza insensata dei linciatori. In questi momenti Ford è fortissimo, e prende posto tra i grandi. È per queste illuminazioni, sorrette da un pathos e da una padronanza di mestiere incantevoli, che gli si perdonano l'eccessiva semplicità, che spesso scade in semplicismo, i cedimenti della fantasia, le ripetizioni e cesure. Resta il narratore ammirevole che sembra ignorare gli eroi complicati dei suoi contemporanei Wyler e Huston, per i quali Marx e Freud hanno un peso e un significato, precisi. Ford ha invece poche letture gli son bastati il Vangelo, alcuni racconti del West, e qualche serata a teatro.L'ultimo film di John Ford, Sentieri selvaggi, è piaciuto molto, ma ha sollevato osservazioni, e critiche che fanno una notevole confusione tra la vicenda narrata e il modo con cui è narrata. Val l'a pena di ragionarci su un pochino La pellicola racconta la lunga vendetta di due pionieri del Texas nei confronti di un sanguinario capo pellerossa Scout, che ha massacrato la famiglia dei due inseguitori. Scout ha anche rapito una bimba, nipotina e compagna di giuochi dei due texani. Essi inseguono per cinque anni i pellerossa, sia per punirlo che per riprendere la piccola Nel frattempo costei è diventata adolescente; senza pensarci su tanto, Scout l'ha sposata. A questo punto si accende un conflitto tra i due vendicatori. Il più anziano che, ricordiamocelo, è reduce dalla guerra di secessione, nella quali ha combattuto a fianco dei confederati, vuoi uccidere la nipote assieme a Scout. Non è più una bianca, ed è stata contaminata dal barbaro. Per il giovane, essa è un'infelice che bisogna soccorrere. Vince il giovane: che, per condurre buon fine l'impresa, rischia di perdere la fidanzata, stanca di attenderlo quanto gelosa della rapita. Gli spettatori che, pur divertendosi un mondo, han trovato che Sentieri selvaggi non è gran che originale, e che soprattutto appare come una sorta di compendio di tutti motivi del film western, non hanno affatto torto. L'ultima fatica dell'anziano maestro ha infatti il solo difetto di esser troppo nutrita, complicata di azioni collaterali, folta di episodi vivaci ma secondari. In poche parole, fa difetto quella forza univoca che si ammira in Ombre rosse, che è un capolavoro anche perché è di assoluta, poetica semplicità. Né è da dimenticare che il motivo dominante nell'arte del conservatore Ford: i buoni che si confondono con i malvagi ai fini di una giustizia superiore, appare in Ombre rosse come in Sfida infernale, come in Sentieri selvaggi. Forse l'affollamento dei temi è apparso in Sentieri selvaggi solo perché, come succede ai vecchi artisti, Ford ha sentito nostalgia di un mondo che fu quello della giovinezza e della maturità, e che gli ha sempre dato le maggiori soddisfazioni. A questo proposito, c'è un altro elemento a far da spia: la ferocia degli indiani, da qualche anno risparmiati od umanizzati dai registi dell'ultima generazione. Ford ha una tipica reazione da vecchio, cioè da «testimone». «Badate,» sembra dire, «che eran proprio così. Non lasciatevi ingannare, io ho conosciuto gente che gli indiani li aveva frequentati e combattuti. I pellirosse erano proprio quelli che io descrivo.» Eccellente film, ma un tantino greve, privo di una linea melodica conseguente. Questo sembra il giudizio corretto su Sentieri selvaggi. Ma ce n'è un altro, che bisogna combattere, e che abbiamo sentito con le nostre orecchie. «Non ci fosse la firma di Ford, si prenderebbe per un qualsiasi western di buona fattura.» Questa è invece una baggianata vera e propria. Il mistero di certe albe, i paesaggi stregati, le note di umorismo, la sapienza compositiva, la densità e semplicità dei caratteri appartengono allo stile di Ford e di lui solo.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Una produzione immensa che comincia nel 1917 con un western interpretato da Harry Carey e termina nel 1966, mezzo secolo dopo, con Missione in Manciuria, un film d'avventura. Ford è, come pochissimi altri, il cinema: il cinema azione, movimento, immagine, ritmo. Ultimo dei tredici figli di un immigrato irlandese, passa l'infanzia nel saloon del padre. Poi il fratello Francis, attore e regista, lo chiama a Hollywood. A poco a poco, le parti s'invertono, Francis scompare, Sean (che finirà per chiamarsi John Ford) si afferma come regista affidabile, dapprima di western (ma II cavallo d'acciaio, 1924, è qualcosa di più d'un western: è una epopea storica, un frammento di America) e in seguito di commedie e di drammi. Ma sarà sempre il western a prevalere. Ciò che non è western può esservi assimilato per virtù di stile e di tono: il tema della conquista e del viaggio rimane l'asse portante di ogni film. Viaggio anche inteso come fuga (II traditore del 1935, narra di un irlandese braccato, impersonato dal superbo Victor McLaglen), come tentativo di evasione per prodigarsi a favore dell'umanità (Il prigioniero dell'isola degli squali, 1936, Uragano 1937), come speranza di raggiungere la pace dopo una interminabile, fosca avventura bellica (Lungo viaggio di ritorno ,1940). In sostanza, il western, per questo regista che è stato definito un cantastorie americano, pone l'uomo davanti alla responsabilità e al fisico dolore della svolta.

Vai alla home di MYmovies.it »
Home | Cinema | Database | Film | Calendario Uscite | Serie TV | Dvd | Stasera in Tv | Box Office | Prossimamente | Trailer | TROVASTREAMING
Copyright© 2000 - 2024 MYmovies.it® - Mo-Net s.r.l. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale. P.IVA: 05056400483
Licenza Siae n. 2792/I/2742 - Credits | Contatti | Normativa sulla privacy | Termini e condizioni d'uso | Accedi | Registrati