Francesca Archibugi è un'attrice italiana, regista, scrittrice, sceneggiatrice, assistente alla regia, è nata il 16 maggio 1960 a Roma (Italia). Francesca Archibugi ha oggi 64 anni ed è del segno zodiacale Toro.
Dopo aver frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia, realizza il suo primo film, Mignon è partita (1988) in cui racconta di Giorgio, un ragazzo come tanti che vive con la sua numerosa famiglia in un tranquillo quartiere di Roma. Ha tredici anni ed è alla ricerca di un qualche valore su cui fondare la propria personalità; sta leggendo "Grandi speranze", quando un giorno appare nella sua vita la cugina Mignon, una ragazzina di quattordici anni, mandata a Roma da Parigi, in quanto il padre ha problemi con la giustizia. Giorgio se ne innamora. Mignon, però, si avvicina a un ragazzo che gira per casa e ci fa all'amore. Giorgio è distrutto, ma soprattutto è torturato dall'idea di non essere stato all'altezza, di non essere stato abbastanza grande. Fino a quando un giorno, dopo aver visto Germania, anno zero, decide di suicidarsi con la naftalina. Viene salvato da una lavanda gastrica e tutti tornano ad accudirlo. Mignon, che ha compreso il senso del tentato suicidio di Giorgio, inventa anche lei un colpo di scena, in grado di attirare l'attenzione: racconta a tutti di essere incinta e così viene rispedita dai genitori. Giorgio sa che non è vero, e mentre la vede partire si accorge di essere cresciuto.
Nel film successivo, Verso sera (1990), ambientato in un altro periodo particolare, il 1977, un anno caratterizzato da un forte movimento di contestazione giovanile. In questo clima la regista prova a contrapporre due personaggi abbastanza simbolici: Ludovico, un anziano e autorevole professore di fede comunista, e Stella, la sua giovane nuora, dotata di un vitale desiderio di cambiare il mondo. A questo scontro viene chiamata ad assistere Papere, la figlia di Stella di appena quattro anni. La piccola viene lasciata al nonno dal figlio di Ludovico, il quale ha concluso la sua relazione con Stella, madre di Papere. Ludovico non appare molto contento di questo «affidamento». Ma la situazione non dura molto: dopo le diffidenze, il vecchio professore indossa di nuovo gli abiti del precettore e cerca di impartire alla nipotina un'educazione coerente alla sua condizione. Papere si trova così in una cameretta leziosa, veste abitini eleganti, prende lezioni di musica: è contenta, si sente circondata dall'affetto del nonno tanto che non ha più bisogno di giocare con il doppio. All'improvviso, però, appare Stella che viene a riprendersi la figlia. Decide di fermarsi qualche giorno, andando così a modificare i ritmi della casa: Stella non riesce ad adeguarsi agli orari fissi del suocero, al suo stile di vita che considera antico e monotono. Papere, a questo punto, sembra tifare per il nonno. Fino a quando un piede gessato non costringe Stella a letto e quindi alle cure di Ludovico. Tra i due si instaura uno strano rapporto che interrompe per un attimo la routine di quotidianità di entrambi: lui mette da parte le sue cadenze consuete e gioca a coprirla di attenzioni e lei, interrotta la sua vita sociale, si diverte a farsi coccolare. Ma non appena la donna si toglie il gesso ritornano i contrasti insanabili che finiranno solo quando Stella, con lo zaino in spalla, abbandona la casa portandosi con sé la figlia.
Soffermandosi ad una lettura superficiale della trama, potrebbe sembrare che l'occhio dell'Archibugi ponga in ombra il personaggio di Stella, illuminando invece quello di Ludovico.
Il conservatorismo di Ludovico diventa il simbolo dell'incapacità dimostrata dal partito comunista, alla fine degli anni Settanta, nel non riuscire ad andare incontro alle richieste di rinnovamento di tanti giovani della sinistra. Richieste in alcuni casi eccessivi, come appaiono molti atteggiamenti di Stella, ma appaiono quasi sempre la risposta ad altrettanto eccesso.
E così il confronto tra i due, non avrà vincitori. Il fatto che tutto il confronto avvenga sotto gli occhi di una bambina di quattro anni e che il film appaia come una lunga lettera che Ludovico scrive alla nipote immaginandola a diciotto anni, fa apparire anche Verso sera un film di cattivi genitori. Ludovico e Stella non riescono ad essere padre e madre perché incarnano fino in fondo un ruolo istituzionale che li costringe all'interno di dinamiche quotidiane modellate a loro immagine e somiglianza e all'interno delle quali non trova posto l'attenzione e il rispetto per i piccoli.
La riflessione dell'Archibugi sull'infanzia diverrà ancora più completa ne Il grande cocomero (1993), ispirato dalla lettura di Una concretissima utopia dello psichiatra Marco Lombardo Radice. Il film è ambientato in un istituto neuropsichiatrico infantile dove lavora Arturo e dove viene ricoverata Pippi, una giovane ragazza con frequenti crisi epilettiche. I suoi genitori raccontano di lei che non mangia, risponde male, non prende i medicinali. Arturo osserva la bambina, cerca di superare la sua diffidenza, ma guarda anche i genitori: lei è un tipo sentimentale, poco istruita e insoddisfatta del matrimonio; lui ha affari poco chiari, ha una vistosa cicatrice accanto ad un occhio e non ispira molta fiducia. Ancora una volta non si tratta di persone cattive, ma di genitori incapaci, sprovvisti della sensibilità per comprendere i problemi di una figlia che già a tre anni «era secca come un chiodo» e a cui i medici diagnosticarono un'epilessia essenziale. Non credono alla terapia, così come ha smesso di crederci Pippi e questo, per Arturo, rappresenta un problema in più. Ma le motivazioni dello psichiatria appaiono profonde, nel suo lavoro traspare anche la scelta di uno stile di vita, in cui la dedizione alle difficoltà altrui costringe a mettere da parte le proprie. Anche lui è stato un genitore incapace, o meglio mancato, avendo chiesto alla moglie, dalla quale è separato, di abortire; in una delle sue rare uscite serali conosce una poetessa che sembrerebbe attrarlo ma non ha il tempo e la testa per corteggiarla; vive in un appartamento triste, dove la sera giunge distrutto.
Anche lui, come tanti altri adulti dell'Archibugi sembrerebbe impossibilitato a rappresentare un riferimento per un adolescente. Eppure, nel momento in cui Arturo si trova davanti Pippi, capisce che può andarle incontro solo parlando un linguaggio a lei comprensibile, familiare. E così finisce per donarle un giornalino a fumetti, che diventa un elemento importante nel loro rapporto: vi si racconta la storia della notte di Halloween, quella in cui dovrebbe arrivare il «grande cocomero» con un carico di doni. É il simbolo della fiducia per l'evento improbabile che esprime la dinamica del sogno infantile, ma anche della piccola Utopia che la dedizione al lavoro di Arturo rappresenta.
«Ora dirò una cosa per cui i miei amici mi tireranno le orecchie: a me Silvio Berlusconi sta proprio simpatico, non capisco perché è odiato così. Dovremmo combattere il sistema di valori che lui ha imposto all’Italia, non la persona. Lui è quasi tenero, ostenta un grande candore e somiglia a un personaggio narrativo. Quando dice: “Io mi sono rovinato per voi, io passo la notte sveglio per voi”, mi ricorda tanto la mia tata. Penso che la sinistra dovrebbe utilizzare una strategia meno aggressiva, sempre. Detesto l’estremismo, quello che si nutre di odio e di faziosità. Bisogna sempre capire le ragioni degli altri. Anche in televisione, anziché caldeggiare l’accademia del litigio perenne, sarebbe bello se tutti i conduttori facessero come Fabio Fazio: fa parlare una persona per volta, la ascolta e la tratta con educazione. Mah, forse la politica non fa per me: mi appassiona tanto, ma non saprei farla. Se dovessi scegliere, affiderei tutto a Tina Anselmi, il mio idolo, e a Rosy Bindi: la incontrai, quando era ministro della Sanità, a piedi, per strada, come una donna qualunque, mi fece un grande sorriso. Io credo nell’etica della gestione, un valore che va al di là delle persone e perfino degli schieramenti. Da quindici anni vivo quasi stabilmente in un piccolo paese della Toscana, una zona agricola dove vanno al ballottaggio un sindaco Ds e uno di Rifondazione, dove anche i ragazzi di Alleanza nazionale sono fantastici. Ho partorito tre figli all’ospedale pubblico di Siena, dalle nostre parti il pediatra viene a visitare i bambini anche la notte, nei casali isolati, a bordo di un Suv. Lo so che sembra un sogno, ma in molte regioni italiane è la realtà, forse dovremmo anche riscoprire la politica vera, quella che vuole bene alle persone, ai cittadini, e lasciare perdere le urla».
Ritrovo Francesca Archibugi dopo una decina d’anni, sempre uguale, i capelli lunghi, il vestito tipo grembiulone, l’aria da ragazzina: è bello vedere che il tempo non l’ha cambiata. Ha quarantacinque anni, ne dimostra al massimo trenta. L’appuntamento è per un aperitivo alla nuova osteria Gusto di via della Frezza. Lei arriva sorridente, quasi euforica. «Dopo quasi tre anni sta per partire il mio prossimo film, una storia di genitori e figli – come sempre, dai tempi di Mignon è partita mi occupo di grandi e piccoli. Protagonista un ragazzo adottato che torna nel suo Paese d’origine, l’India. In realtà è tutto molto più complicato, ma è meglio non raccontare troppo».
Francesca è cresciuta in una famiglia «impegnata». Suo padre Francesco, docente di economia, ha insegnato in Italia e negli Stati Uniti, «e il suo migliore amico era ed è Giorgio Ruffolo. Papà mi portava a undici anni alle veglie per il Vietnam, era un socialista convinto e appassionato. Mamma, che è morta quando io avevo diciannove anni, si era separata da lui e aveva sposato un secondo marito molto comunista e molto per bene. Insomma, sono cresciuta in una famiglia laica, che ritenne giusto tenermi lontano da Dio e dal sacro, una scelta che oggi penso sia stata una mancanza, credo che nella mia vita ci sia un vuoto da colmare. A metà degli anni Settanta, era impensabile che una famiglia così mandasse i figli in un istituto normale, era ovvio che finissi al liceo unitario sperimentale di Roma, una scuola incasinata che all’epoca si disse che fu creata per un desiderio di Eleonora Moro, la moglie del presidente Dc molto in linea con le teorie sull’insegnamento libero e non convenzionale di Maria Montessori. Riccardo Barenghi, che è stato direttore del “manifesto” e ora scrive sulla “Stampa”, ha tracciato una mappa dei reduci dal Lus: oltre a Giovanni Moro, figlio di Aldo, c’erano Valerio Magrelli, Fabio Ferzetti, Benedetta Loy, allora eravamo un gruppo di ragazzotti, aspiranti intellettuali, figli di un’utopia poi chiusa in fretta e furia. Adesso, per mia figlia, ho scelto il Visconti, il liceo più classico e tradizionale possibile».
Appena arrivata ai tredici anni, Francesca si iscrive alla Fgci, la Federazione giovanile comunista, allora guidata da Walter Veltroni. «Ma io non lo conoscevo, era il capo inarrivabile. L’ho incontrato molti anni dopo, attraverso il cinema. No, io ero una del genere suorina che amava Berlinguer e per lui, per amore suo e del partito, vendevo tutte le domeniche l’”Unità”. Andavo alle sei di mattina dal segretario di sezione a prendere i pacchi del quotidiano e poi via ai semafori a venderle. Per la mia scuola, era quasi uno scandalo: tutti i miei compagni, allora, leggevano “il manifesto” e “Lotta Continua”». Quando poi Moro viene sequestrato e ucciso, «ricordo lo choc, il pianto, lo strazio di tutti noi. Ma anche la scoperta, liberatoria, dell’uomo, del prigioniero che si era raccontato nelle lettere, svelando di non essere stato il solito democristiano che noi potevamo immaginare».
Da allora a oggi, Francesca Archibugi ha continuato a votare per i Ds, «soltanto una volta per Rifondazione, con un’infinità di sensi di colpa, perché il partito andò maluccio e mi sembrava che fosse tutta colpa mia». Eppure, nel rapporto fra il partito e il cinema avverte che qualcosa non ha funzionato: «Quando ho letto quel meraviglioso libro di Paolo Spriano che è Le passioni di un decennio, 1946-1956, ho capito che moltissimi comunisti – fin dagli anni Cinquanta – erano sofferenti per il terribile rapporto con l’Urss. Italo Calvino, e con lui moltissimi grandi della letteratura, furono capaci di prendere le distanze da quell’orrore. Nel cinema, tutto avvenne molto più tardi, troppo tardi. E anche registi che io amo, come Ettore Scola, che ha firmato il mio film preferito, C’eravamo tanto amati, hanno affrontato in ritardo il tema dell’irrigidimento ideologico». La generazione della Archibugi, un tempo conosciuta come «il nuovo cinema italiano», ha dovuto reggere il confronto con i grandi autori del dopoguerra: «A parte delle rare eccezioni, come Gianni Amelio, Marco Bellocchio e Nanni Moretti, noi ci sentiamo delle puzzette se ci paragoniamo con il neorealismo. E come se fossimo dei pittori venuti dopo il Rinascimento. Non solo: a produrre film sono le due televisioni, Rai e Mediaset, preoccupatissime della libertà assoluta di cui dovrebbe godere il racconto cinematografico e, diciamolo, anche dei possibili incassi. La verità è che i talenti, alla fine, vengono fuori lo stesso: i Virzì, i Mazzacurati, i Martone, ce l’hanno fatta. Ma che fatica...».
I politici di professione, la Archibugi non li conosce e non li frequenta. Né loro amano troppo il cinema, «a parte il solito Veltroni. Una volta, a una festa di studenti, mi ricordo che si disse: “E arrivato Claudio Martelli”, che sembrava una star... Lo guardammo come fosse un animale allo zoo». Chiacchiere e vino rosso, salatini e racconti ci hanno fatto passare insieme alcune ore.
È tardi, Francesca Archibugi mi trattiene e sorride: «Adesso io intervisto te. Ho bisogno di sapere tante cose sull’adozione e su come i ragazzi vivono il rapporto con le loro radici: il mio film racconterà una storia che tu conosci bene...».
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006