Gli inizi con Pasolini e Fellini, le statuette con Scorsese e Tim Burton. E ora, in un nuovo ruolo, la «Carmen» a Macerata. «Una sfida da paura» dice. «Ma solo una parentesi, poi torno a Hollywood». Già, perché in Italia non lo chiama nessuno...
«Sa qual è il mio problema?». «No, qual è. ». «Sono un incosciente che non riesce mai a dire di no». Dante Ferretti stenta ancora a crederci. Lo scenografo italiano più amato da Hollywood, l'uomo che si è aggiudicato due Oscar, uno nel 2005 per The Aviator di Martin Scorsese e il secondo, ricevuto quest'anno insieme alla
moglie e sua collaboratrice Francesca Lo Schiavo, per Sweeney Todd. il diabolico barbiere di Fleet Street di Tim Burton, non si capacita che oggi la stagione lirica dello Sferisterio Opera Festival di Macerata sarà inaugurata da una Carmen tutta sua. Perché, per la messinscena del capolavoro di George Bizet, Ferretti non si è limitato a disegnare le scenografia: per la prima volta nella sua lunghissima carriera, ha deciso di vestirei panni di regista.
E dire che qualche anno fa aveva dichiarato: «La regia' Non fa per me». Solo che la tentazione è stata davvero troppo forte, «anche se subito dopo aver accettato» ricorda divertito «un po' di paura l'ho avuta». E non lo hanno fermato neanche i tanti impegni in agenda. Dante Ferretti affronta «l'ennesima sfida» mentre a Parigi le sue scenografie futuristiche sono tra le cose più applaudite nell'opera lirica che David Cronenberg ha realizzato dal film La mosca e subito dopo aver finito a Boston le riprese di ShutterIsland, l'ultima fatica di Martin Scorsese con Leonardo DiCaprio. Ma, parlando della Carmen, il doppio premio Oscar sottolinea: « una parentesi e non un cambio di direzione della mia carriera». Una «pausa» che riporta lo scenografo nella,sua città natale. A Macerata, infatti, Ferretti ci è nato e vissuto fino ai 18 anni, quando andò Roma per entrare nel magnifico mondo di Cinecittà. Lì lavorò subito con Pier Paolo Pasolini (Me dea, Il Decameron, I racconti di Canterbury), Elio Petri (La classe operaia va ira paradiso, Todo modo) e Federico Fellini (Prova d'orchestra; ' Ginger e Fred, La voce della luna). Ed è proprio ricordando quegli anni che lo scenografo ha dato il suo tocco d'originalità all'opera di Bizet: la storia della giovane e passionale Carmen (interpretata dal mezzosoprano Nino Surguladze), divisa tra l'amore per il brigadiere Don José (il tenore Philippe Do) e il torero Escamillo (il baritono Simone Alberghini), non sarà ambientata nella Spagna del 1870, ma in quella degli anni Trenta.
Perché questa scelta?
«L'opera è così bella che potresti collocarla dove e quando vuoi. Ma quando mi hanno chiamato per dirigerla, ho subito pensato che avrei voluto una Carmen neorealista, con un adattamento che richiamasse le mie origini cinematografiche».
Ci è riuscito?<br/>
«È quello che mi domando anch'io. Ma una cosa è certa: la mia ambientazione evita in tutti i modi l'effetto cartolina, mettendo in scena una Spagna reale e non folcloristica. Lavorando sull'opera, mi sono ricordato della Madrid che ho conosciuto alla fine degli anni Sessanta, durante le riprese di I bastardi di Duccio Tessari».
Forse non proprio il suo lavoro più importante...
«A me piace definirlo un film di serie A meno. Comunque nel cast c'erano attori come Rita Hayworth, Klaus Kinsky Giuliano Gemma. Fu una bella esperienza, lavoravamo tutti i giorni fino alle cinque esatte del pomeriggio».
Poi cosa succedeva?
«Duccio ci portava a vedere la corrida. Era il periodo della Festa di Sant'Isidoro ed è h che ho respirato la vera Spagna, quella senza gli orpelli di un folclore provinciale».
E per questa Carmen senza cliché, che scenografia ha pensato?
«Essenziale e non invadente. La luce, invece, sarà un elemento fondamentale per mettere in risalto la recitazione e il canto degli attori. Quella di Bizet è un'opera piena' di passione, tradimento, amore, orgoglio, e bisogna dare ai protagonisti il giusto spazio per esprimersi».
Anni fa ha dichiarato: «Io gli attori non li sopporto». Fare il regista, per quanto di cantanti, con questa idiosincrasia non deve essere facile...
«Ma guardi che con gli attori ho sempre avuto un ottimo rapporto. Una volta Toni Cruise mi ha anche aiutato a costruire una chiesa...».
In che senso?
«Quando ero a Cinecittà per Gangs of New York di Scorsese, Tom, con cui avevo lavorato in Intervista col vampiro di Neil Jordan, mi venne a trovare sul set. Mentre camminavamo, si accorse che in una piazza che avevo fatto costruire c'era un vuoto, e mi chiese: "Lì cosa ci metti?". "Ci andrebbe una chiesa"risposi io. Ma Harvey (Weinstein, il produttore del film) non mi dava i duecentomila dollari necessari. Allora Cruise si girò verso di lui e gli disse: "Avanti Harvey, da' questi soldi a Dante"». E come é andata a finire?
«Che la chiesa l'ho costruita e l'ho chiamata Saint Thomas. Cruise ne è stato molto orgoglioso».
Ma quindi quella sua affermazione sugli attori...
«Quando ho detto che non li sopporto mi riferivo a un'altra cosa».
Dica.
«Per Mio Dio, come sono caduto in basso! di Comencini ho curato, oltre
alla scenografia, anche i costumi. E in quel caso ho capito quanto è difficile vestire persone che sono talmente concentrate sul loro personaggio che hanno sempre qualche critica da fare: "Questo pantalone mi sta stretto", "la giacca non mi cade bene" ...».
Però poi l'ha rifatto, il costumista: nel 1997 per Kundun di Martin Scorsese, anche se in quel caso gli attori erano tutti non professionisti.
«Ecco, appunto. È stata un'esperienza così tranquilla che mi sono anche guadagnato una candidatura all'Oscar».
Oscar vinto sette anni dopo perle scene di The Aviator, di Scorsese, che ha detto: «In ogni pellicola Ferretti mi regala un universo vivente». E a lei il regista cosa ha regalato?
«Tutto. Ho sempre pensato, senza voler fare torto a nessuno, che la mia vita si divide ín tre parti: Pasolini, Fellini e Scorsese. E se i primi due mi hanno insegnato tanto, Martin mi ha dato un magnifico welcome aboard, un benvenuto a bordo nel magico mondo di Hollywood. E dire che prima di lavorarci insieme, gli ho dovuto dire due no».
Ma non era lei quello che non sapeva rifiutare un'offerta?
«È vero, ma quando Scorsese mi chiamò per L'ultima tentazione di Cristo stavo lavorando con Terry Gilliam a Le avventure del Barone di Munchausen. La secondo volta, invece, Martin mi voleva per CapeFear, ma io non potevo. Alla terza chiamata, quella per l'Età dell'innocenza, ho capito che un altro rifiuto sarebbe stato davvero troppo».
Poi in Italia non ha più lavorato. Collaborerebbe di nuovo con un nostro regista?
«Io vorrei. II problema è che non mi chiamano...».
Ora non esageri.
«Oggi il cinema italiano segue un filone neo-neorealista che trovo interessante, ma nessuno mi fa offerte. Probabilmente pensano che ormai faccia solo i film hollywoodiani, quelli con un sacco di soldi».
Da Il Venerdì di Repubblica, 25 luglio 2008