«Silvio Berlusconi è stato geniale. Per conquistare il potere, prima con le televisioni e poi con la politica, ha trasferito in Italia un sistema che negli Stati Uniti praticano dagli anni Sessanta: se si appiattisce verso il basso la qualità della comunicazione, si allarga la quantità di pubblico che puoi conquistare. Semplice, elementare. L’esperimento, riuscito nella tv con programmi fondati sulla rivisitazione dell’avanspettacolo, si basava su pochi ingredienti: la comicità dello scherzo, della battuta volgare o del filmato rubato e sulla donna-valletta scollata e siliconata. E stato un gioco da ragazzi trasferirlo pani pari nel Palazzo. Sorrisi, immagine, parole d’ordine facili facili, navi e cieli azzurri hanno cominciato a sostituire i palchi, i megafoni, le giacche un po’ lise, il politichese, tutto l’armamentario della prima repubblica. Eppure, gli altri uomini politici italiani non lo hanno ancora capito, parlano male, bisbigliano frasi dirette ai loro compagni di partito e non alla massa degli elettori. Il leader della Casa delle Libertà (già la sigla è uno slogan facile e affascinante, chi non vuole casa e libertà?) lancia ancora messaggi forti e diretti: condoni, evasioni fiscali, perdoni agli abusivi, guerra alla magistratura, più soldi e meno tasse per tutti, continua a promettere di realizzare i sogni del cittadino che si rispecchia in lui. Se devo immaginare il suo elettorato, d’estate, ecco: sono quelli che vanno a Porto Cervo a guardare le banche dei ricchi, sperando in una vincita al superenalotto. I contenuti, la realtà, i doveri: nell’eloquio del premier sono messi in secondo piano, come dei fastidi di cui è meglio non dire».
Daniele Luchetti ha quarantacinque anni, è romano, abita in un appartamento a Monteverde Vecchio che si affaccia sul panorama mozzafiato della città assolata, ha la faccia del bravo ragazzo di buona famiglia. Eppure, forse per caso o forse per quei colpi di fortuna che capitano una volta nella vita, si è trovato – nella primavera del 1991 – al centro di uno scontro politico senza precedenti. Eravamo in pieno Caf, sigla che indicava il trio Craxi-Andreotti-Forlani, allora signori assoluti del governo e della vita nazionale, ancora lontanissimi dalle prime inchieste di Mani Pulite, che avrebbero preso il via nella primavera successiva, quella del 1992. Il 5 aprile, quasi in sordina, esce nelle sale il suo terzo lavoro, interpretato da Nanni Moretti (che, insieme ad Angelo Barbagallo, è anche il produttore) e Silvio Orlando, da un soggetto di Franco Bernini e Angelo Pasquini, sceneggiato da Rulli, Petraglia e dallo stesso regista Luchetti. Il film si chiama Il portaborse, racconta la storia dello spietato ministro Cesare Botero, Nanni Moretti, e del suo segretario Luciano Sandulli, Silvio Orlando. Una vocina mi aveva sussurrato che si trattava di un film antisocialista: convinco il vicesegretario del Psi Giulio Di Donato ad assistere al primo spettacolo, al Rivoli di Roma, per raccogliere in diretta le sue reazioni. Da quella proiezione iniziò una valanga.
Spettatori e giornalisti s’interrogavano sulle somiglianze: Botero è più simile a Gianni (De Michelis), Claudio (Mantelli) o Bettino? Il film incassò otto miliardi di lire, raccolse critiche entusiaste in Francia, andò al festival di Cannes, la Feltrinelli celebrò l’evento con la pubblicazione della sceneggiatura. «Volevamo fare un film politico, ma non avevamo nei mirino nessun partito, anzi. Ci sembrava che l’ossessione della modernizzazione, delle grandi opere e della corruzione collaterale, avrebbe portato la vita pubblica verso il disastro, volevamo denunciare i nuovi metodi di un’intera generazione: avevamo scritto un copione pensando a un personaggio di scarsa moralità, soprattutto sul piano psicologico. Il nostro ministro doveva avere sessant’anni, il protagonista ideale era Gianmania Volonté. Lui disse che la sceneggiatura faceva schifo e rifiutò. In preda al panico, provai a convincere Nanni, ma lui si ritraeva: “Ho la faccia troppo di sinistra” diceva, forse non era sicuro di voler fare il cattivo al cento per cento. Non ci aspettavamo un successo così travolgente: la notte successiva alla prima, Silvio Orlando andò all’edicola di via Veneto per comprare i giornali appena usciti e leggere le recensioni. Mi chiamò urlando dalla cabina telefonica: “Daniele, siamo rovinati, finiremo tutti in galera, i socialisti ce l’hanno giurata!”. Aveva letto l’intervista a Di Donato e tremava come una foglia. In verità, gli attacchi del Psi hanno regalato al film e a noi un miracolo imprevisto. Penò, la paura restava. I socialisti erano molto potenti, pensa che quindici giorni dopo l’uscita del Portaborse mi hanno rubato la macchina e mia madre commentò: «Sono loro, vogliono vendicarsi».
Quando un film segna un’epoca, vale a poco cercare i limiti – che c’erano, eccome – nella pellicola diretta da un trentenne, è più utile cercare i segnali che aiutano a capire come eravamo. Invitato al festival di Mosca, il film viene cassato e censurato in segno di rispetto nei confronti del socialista Carlo Tognoli, allora ministro della Cultura. Tognoli, che è uomo aperto e spiritoso, chiama Luchetti e si scusa, «stupefatto per il servilismo dei russi, non degno neppure di una sala di periferia». Dopo Il portaborse, Luchetti gira Arriva la bufera, la storia di un giudice, poi La scuola, sempre con Orlando, professore di sinistra che fallisce e non riesce a cambiare niente, un altro successo. Il giovane regista, cresciuto e allevato nella mitica Gaumont di Renzo Rossellini, «una scuola di cinema cui si accedeva senza selezione, senza concorso, senza raccomandazioni: un’utopia che però ha funzionato davvero», entra in crisi dopo il flop dei Piccoli maestri, storia sentimentale della Resistenza vissuta nel Partito d’Azione. Oggi ricorda con amarezza: «È stato un massacro generale, ho capito che non si potevano toccare i partigiani, non ho fatto i conti con i miti della sinistra. Sono caduto in depressione, sono andato in analisi, ho scritto e buttato tanti film, per fortuna nel frattempo ho messo su casa e famiglia».
L’ultimo film di Luchetti, ispirato dal romanzo di Antonio Pennacchi, Il fascio comunista (Feltrinelli), lo riporterà alla politica. «Partendo dalla storia di una famiglia, racconterò le tre grandi chiese italiane: i fascisti, i cattolici, i comunisti. Il protagonista vuole stare sempre dalla parte dei diseredati, si sente tradito dal seminario e dal partito, cambia ogni volta giro di amici e abitudini cercando di soddisfare la propria esigenza di giustizia.» La lettura di Pennacchi ha suscitato in Luchetti un interesse per le realizzazioni del fascismo, «mi affascina la fondazione delle nuove città: centotrenta località capolavoro, progettate dai migliori architetti, fondazione strettamente legata alla riconoscenza che gli abitanti hanno sentito per il fascismo anche nel dopoguerra. Littoria-Latina, dove è ambientata la mia storia, è il simbolo di tutto questo: la forza popolane del Movimento sociale italiano non è stata ancora mai raccontata. Io voglio provarci: dal 1963 al 1974, nella stagione in cui i giovani italiani diventarono una categoria fondamentale, il mio piccolo personaggio spiegherà agli spettatori che i fascisti non sono stati soltanto dei torbidi picchiatori». Il nuovo Luchetti ci tiene a chiarire la sua militanza costante, «a sinistra, da cittadino qualunque, con qualche simpatia per i girotondi», ma poi scherza su se stesso: «Dei politici
conosco soltanto Veltroni. Una volta ho provato a fare uno spot per Achille Occhetto, ancora col simbolo del Pci, nel 1990: girammo il suo discorsetto in un’aula vuota dei Bottegone, fu un disastro, credo di avergli portato sfiga. Da allora, mi tengo alla larga...».
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006