Bernardo Bertolucci è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 16 marzo 1941 a Parma (Italia) ed è morto il 26 novembre 2018 all'età di 77 anni a Roma (Italia).
Nella sua prima versione, la sceneggiatura di Ultimo Tango a Parigi era di Kim Arcalli, uno splendido essere umano (che ci ha lasciati troppo presto come succede ai migliori, vedi Troisi) e un bravissimo montatore che sapeva anche scrivere molto bene (o viceversa, come preferite).
L'idea di base (due sconosciuti si disputano un appartamento vuoto da affittare, e finiscono a letto più o meno innamorandosi) era ripresa pari pari, non so quanto involontariamente, da una vecchia commedia del teatro “borghese”, classico repertorio compagnia Pagnani-Cervi: “Due dozzine di rose scarlatte”, di Aldo de Benedetti. Su quella base Arcalli e Bertolucci avevano elaborato una storia nello stile un po' algido ed elegante del Conformista, meditando perfino di riutilizzare come protagonista lo stesso Trintignant.
Ma proprio quel film, che aveva avuto un ottimo successo di critica negli Stati Uniti, consentì al giovane Bernardo di ottenere da una Major addirittura l'insperabile: Marlon Brando.
Il Mito arrivò sul set e cominciò immediatamente a scassare le palle sui dialoghi secondo tradizione: “E perché devo dire così?” “Ma questa battuta non mi viene naturale...”. eccetera.
Bertolucci non è tipo da cacciare la pistola (come fece Gillo Pontecorvo per domare Brando ai tempi di Queimada) ed ebbe la geniale intuizione di dire: “Marlon, la storia è semplice, scordati il copione, dì quello che vuoi e come ti viene...”. Sui risultati di questo colpo di genio Norman Mailer scrisse poi un piccolo saggio il cui succo era più o meno: “Se io mi mettessi a verbalizzare la mia libido pubblicamente e a ruota libera mi schiafferebbero in galera per oscenità, e invece se lo fa Marlon Brando diventa uno spettacolo che vale il prezzo d'un biglietto di cinema”. E infatti, se ci pensate, “Ultimo Tango” altro non è che una lunga liberatoria seduta psicanalitica filmata dalla candid camera di Bertolucci, e della quale il culetto di Maria Schneider, che allora sfiorava il sovrannaturale, è fondamentale e indimenticabile coprotagonista.
Famiglia borghese, padre poeta stimato, inclinazioni di sinistra, cinefilia come religione, intelligenza viva e pronta, vincitore di un Premio Viareggio per la poesia, si appoggia a un testo di Pasolini per il primo film - La commare secca - che dirige nel 1962, a 21 anni. Con Prima della rivoluzione/em>, due anni dopo, tenta un esame di coscienza della sua generazione che s'è appena affacciata alla vita (e alla politica), con un linguaggio languido e disteso. In pieno '68 si prodiga, sulla scia di Godard, nella frantumazione dei codici narrativi (Partner, 1968) ma subito si placa, ricorrendo a una intensa e lineare trasposizione d'un romanzo di Alberto Moravia (Il conformista, 1970), che mette in rilievo il suo gusto per l'ambiguità, la sua attenzione alle tematiche sessuali intrecciate con l'ideologia. La strategia del ragno (1970), ispirato a Borges, indaga nel terreno scivoloso dei rapporti fra padri e figli, riprendendo sotto una diversa angolazione il discorso di Prima della rivoluzione. La prepotenza finora controllata dell'impulso sessuale esplode libera in quel saggio di decadentismo che è Ultimo tango a Parigi (1972), interpretato da un sonnacchioso Marlon Brando e scambiato da una censura idiota per un film pornografico. Ritorna, mischiata con incongrue velleità politiche (è sempre difficile in Bertolucci il matrimonio fra pubblico e privato) nel fluviale Novecento, Atto I e Atto II (1976), dove si favoleggia della Padania, dei contadini e dei padroni, dei fascisti e degli amori perversi.
Narratore ormai maturo, Bertolucci compie il salto nella produzione.internazionale con il sontuoso e coreografico affresco di storia cinese L'ultimo imperatone (1987), sommerso da nove Oscar e un successo immenso, con il lucido saggio di calligrafia esitante fra letteratura mondana e tentazioni di fiabesco esotismo che deriva dal modesto Paul Bowles (Il tè nel deserto, 1990) e con il più raccolto Piccolo Budda (1991), omaggio sfocato ma sincero a una tenera religione orientale.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Prima di parlare di Bernardo vorrei spendere alcune parole sui geni della famiglia Bertolucci: ciò che più mi affascina nel lavoro di Attilio, Bernardo e Giuseppe - intesi come figura unitaria, prima che come singole personalità ben distinte tra loro e nel nostro habitat culturale - è la straordinaria apertura culturale, la capacità di mantenere e coltivare i rapporti con le proprie radici e respirare l'aria della cultura internazionale. Detto in maniera più banalmente comprensibile si potrebbe parlare di «cucina culturale fusion» per la loro capacità di coniugare Proust al culatello di Zibello, Hopper e Magritte al lambrusco di Sorbara, Creta Garbo, Marlene Dietrich e Louise Brooks all'amore in genere per la bellezza e a quella femminile in particolare, la fascinazione per il giallo e i fumetti a Roberto Longhi, la musica delle balere a Duke Ellington e Amstrong, Giuseppe Verdi e il melodramma a Berlinguer, Freud e Benigni. Ma anche la naturale dote di fondere, nello stesso calderone alchemico, il senso di epos popolare dei racconti dei cantastorie e cantafavole e i forti gusti della civiltà contadina all'attrazione per Baudelaire, le avanguardie e il dérèglement de tous les sens al piacere del viaggio e dell'avventura culturale nell'altrove, nel cuore di tenebra di realtà lontane e sconosciute, tipico della gente di mare. E ancora di aver coltivato, come dote comune, uno sguardo prensile e onnivoro e sviluppato un occhio capace di viaggiare verso spazi lontani e sentire e raccogliere insieme parole, suoni, rumori, sensazioni tattili, emozioni impercettibili.
Insomma - detto in altro modo - di essere stati gli inventori di una sorta di nouvelle cuisine culturale e cinematografica ante litteram nel centro della vera Padania in cui, partendo da materie prime e tesori della cultura locale, perfettamente assimilati e metabolizzati, sono riusciti a confrontarsi in ogni momento e a competere, senza alcun complesso d'inferiorità, coi prodotti più alti e sofisticati della cucina culturale internazionale.
Sia merito di tutto ciò ad Attilio, padre-padrino, patriarca e pastore del clan e guida nei territori della poesia, delle arti figurative, della musica e ultimo, ma certo non minore, pontilex e iniziatore ai culti misterici del cinema di tutta la famiglia. Anche la madre, comunque, avrà un ruolo non secondario nell'aver spinto i figli verso la regia cinematografica. Rispetto al «familismo amorale» di cui parlano i sociologi considerando le degenerazioni della famiglia della società italiana il loro sembra un perfetto esempio di «familismo morale», un modello alto di concezione del ruolo e delle funzioni del lavoro intellettuale.
Mentre per Pasolini il cinema costituisce un punto d'arrivo, dopo un lungo processo di ricerca espressiva, per Bernardo Bertolucci l'incontro è diretto. Il cinema si presenta, almeno inizialmente, come una cultura egemone. Bertolucci è l'esempio più clamoroso della estrema fecondità del terreno cinematografico di quegli anni. La paternità del suo esordio è ufficialmente attribuita a Pasolini, che pure, a sua volta, ha appena mosso i primi passi come regista.
Bertolucci, guarda agli autori che lo hanno preceduto con interesse, rispetto, attenzione e li sceglie, in determinati momenti del viaggio cinematografico, come maestri e guide. Primo, in ordine di tempo, proprio Pasolini, che gli regala il soggetto per il film d'esordio (La commare secca del 1962, girato a soli ventuno anni), ultimo Visconti, al cui senso di spettacolo e di messa in scena melodrammatica si richiama nelle opere dagli anni Settanta in poi.
I film sono così strettamente intrecciati con la vita del regista che, giustamente, un critico francese ha proposto di servirsi, nell'analisi, di una «biografia testuale» come chiave di decodificazione. In effetti, dal punto di vista stilistico, non c'è una linea dominante: il dato certo viene dalla mutevolezza degli stili e dei modelli narrativi e il procedere della carriera del regista, fino ai film più recenti, ci appare come un viaggio analitico alla ricerca della propria identità.
Se la presenza ossessiva è quella della figura paterna, di film in film egli va alla ricerca di nuovi padri e maestri, quasi dissociandosi schizofrenicamente, cercando di rappresentare la realtà attraverso il filtro dello sguardo e della lezione dei grandi registi che hanno contribuito alla formazione della sua cultura visiva. Rossellini e Godard, Murnau e Mizoguchi, Visconti e Pasolini, Hawks e Truffaut costituiscono, a seconda delle tappe e trasformazioni della sua personalità, i punti di riferimento nello strutturare il suo racconto in termini visivi e narrativi. Non c'è dunque un unico Bertolucci, ma più maschere di uno stesso personaggio, che tenta di rappresentare la propria identità attraverso lo specchio offertogli da opere guida, ma che continuamente si interroga sul senso di un percorso culturale e sui momenti chiave che scandiscono e segnano in maniera indelebile la vita dell'individuo.
In anni in cui il cinema italiano manda in campo schiere di esordienti, il «caso» Bertolucci non esplode subito. L'evidente influsso pasoliniano nella Commare secca fa sì che, al di là di un tiepido succès d'estime, la critica non gli dedichi una grande attenzione (la definizione adottata comunemente è «pasolinismo senza Pasolini») e debbano passare dieci anni perché gli venga tributato un vero e proprio riconoscimento come autore maturo e ben caratterizzato nel panorama cinematografico nazionale.
La commare secca potrebbe essere l'opera di un esordiente della «nouvelle vague» francese, tanto è impregnata di cultura cinematografica. Bertolucci guarda alla realtà da rappresentare attraverso il filtro di un'esperienza cinematografica assai dilatata, che dal cinema francese passa a quello americano, giapponese e italiano con assoluta disinvoltura. La presenza del regista si rivela proprio in questa sua capacità di usare la macchina da presa adattandola a registri espressivi diversi, a scritture stilistiche che variano a ogni segmento narrativo.
Il film d'esordio non riceve accoglienze trionfali, ma l'insuccesso non è paragonabile a quello del successivo Prima della rivoluzione del 1964.
Eppure, con quest'opera, Bertolucci intende misurarsi anzitutto con se stesso, con il mondo che conosce, con personaggi facenti parte della sua cultura. Il percorso conoscitivo di Fabrizio, il protagonista, lo porta dalla fuggevole scoperta di una possibilità di autentica realizzazione, grazie al rapporto con una giovane zia, alla sistemazione di comodo con una fidanzata che non ama e rappresenta per lui un futuro di mediocrità grigio e prevedibile.
Come poi in Strategia del ragno e nell'Ultimo tango a Parigi, egli tenta di fissare sullo schermo il senso e la complessità del proprio vissuto cinematografico, sentimentale e autobiografico. Più che un'anti Certosa di Parma il film si serve del supporto dell'Educazione sentimentale di Flaubert, variandolo e interpretandolo attraverso il filtro cinematografico di autori che, in quel periodo, l'autore sente assai vicini (da Rossellini a Godard e Nicholas Ray). Come in seguito egli sceglie due luoghi emblematici, il teatro e il cinema, come polarità fondamentali di interpretazione del vissuto del protagonista. Il teatro è il luogo dell'inautentico, delle convenzioni sociali, dello spettacolo del pubblico che prevale sullo spettacolo del palcoscenico, mentre il cinema è il luogo della passione, delle verità, dei sentimenti reali e diretti. Bertolucci parla di sé tentando di usare una serie di meccanismi di straniamente, ma fa anche sentire il senso della fine di un mondo. Lo fa usando come transfert il personaggio di Puck, l'amico di Gina, che in un momento chiave del film (di fronte a una natura destinata anch'essa a essere spazzata dalla nuova borghesia), dice: «Verranno con le loro draghe. Non resterà più niente. Non ci sarà più estate... non ci sarà più inverno... Finito il volo delle anitre selvatiche... Vedete amici miei, qui finisce la vita e inizia la sopravvivenza».
Bertolucci si riaccosta dunque alla sua città natale attraverso una triplice mediazione: Stendhal, la poesia paterna e il melodramma verdiano. Quest'ultimo avrà un peso determinante per lo sviluppo del suo cinema successivo e un ruolo strutturale non inferiore a quello esercitato dal melodramma stesso nell'opera di Visconti. Su nove lungometraggi - come ha osservato Roberto Campari - «cinque usano musiche verdiane o più semplicemente come in Novecento si parla di Verdi». Il giovane Bertolucci cerca di ritrovare la città del padre con l'intenzione - come ha dichiarato lui stesso - di «sottrargliela». Ma la delusione è immediata: «Quando cominciai a trasformare Parma in inquadrature fui colpito dalle violenze che la città aveva subito nel dopoguerra, in mano a una amministrazione di sinistra che aveva creduto, a dir poco ingenuamente, nel mito del progresso».
Opera di grandi ambizioni, Prima della rivoluzione è tuttora un oggetto vagante nel cinema dei primi anni Sessanta, la cui rappresentatività non è stata mai ben compresa.
Tra il secondo e il terzo lungometraggio (Partner è del 1968) vi sono progetti non realizzati e un documentario girato per la televisione italiana nel 1965 (La via del petrolio. Partner è il film che più esibisce, in modo nevrotico, assumendo ancora una volta una diversa maschera stilistica), il bisogno di parlare di sé, di collocarsi dietro e davanti alla macchina da presa. Come referente stilistico prevale l'ultimo Godard (quello della Cinese) che diventa una vera e propria stella polare. Gli si affiancano inoltre l'esperienza del Living Theatre e la fascinazione subita dall'underground americano.
Con tempismo, apertura e consapevolezza culturale maggiori rispetto ai suoi coetanei, il tragitto culturale dell'autore ci appare come una cartina di tornasole delle diverse ondate che hanno attraversato la scena culturale e cinematografica degli anni Sessanta. Proprio per la sua tensione costante all'uscita da sé, alla proiezione stilistica e tematica, egli viene attraversato da queste ondate e ne conserva tracce vistose.
Il protagonista del film, nella sua incapacità di inventarsi un alter ego che faccia fare ciò che a lui non riesce; dichiara anche la propria impotenza nei confronti del mondo, pur mescolandosi con problemi emergenti con forza in quel periodo. Proprio per il fatto di essere così legato al presente viene posto al centro dei riflettori della critica che, in alcuni casi, ne valuta in termini severi le scelte tematiche e ideologiche. Si tratta per lo più di critiche assai datate, come del resto lo è il film nella carriera del regista.
Intanto, poco a poco, Bertolucci ha avuto modo di definire in maniera precisa il proprio orizzonte tematico e stilistico. Il tema del viaggio, dello sdoppiamento e della ricerca, quello della riflessione sui metalinguaggi dello spettacolo, ci appaiono ormai come le strutture portanti del suo lavoro.
Con Strategia del ragno e II conformista, entrambi del 1970, si apre, in modo deciso, una nuova fase operativa: al caos, al disordine schizofrenico, subentra un rapporto più normalizzato con personaggi, ambienti, strutture narrative. Sembra scattare l'esigenza di iniziare un viaggio analitico alla ricerca delle proprie radici e della cultura della sua terra. Grava naturalmente su questa scelta, come un'ipoteca, la presenza paterna, fino a quel momento vista come unica interprete autorizzata della cultura materiale del paese d'origine. Tra le sue molte funzioni Strategia del ragno, punto d'arrivo stilistico e tematico della prima fase del lavoro del regista, affronta, grazie alla mediazione di un racconto di Borges, il problema del conto finora rimasto in sospeso col padre.
Il motivo del viaggio, del ritorno, della fuga e della scoperta di verità differenti da quelle accettate (l'immagine eroica dell'antifascismo, rivista e reinterpretata da Gaibazzi, l'amico di Athos Magnani, di professione assaggiatore di culatelli, tra una pausa e l'altra del suo lavoro: «Credevamo di essere dei congiurati, ma non capivamo niente»); a mano a mano che il film procede ci si accorge che l'oggetto privilegiato del racconto non è tanto la rivisitazione critica del fascismo e dell'antifascismo, quanto la dissacrazione dell'immagine paterna, la liberazione da un complesso che si vorrebbe non individuale, quanto piuttosto storico e generazionale. Ma non è cosi facile: il giovane Athos cerca di sfuggire alla rete e, di fatto, rimane invischiato all'interno di un gioco e di un piano di cui il padre pare avere previsto tutte le mosse. Il motivo ritorna, più o meno metaforizzato, in Novecento e soprattutto in La luna.
Strategia del ragno è, tra le tante cose, un eccezionale repertorio di immagini che il regista riordina e anima usando molteplici fonti. Dalla pittura surrealista di Magritte, a quella metafisica di De Ghirico, dal realismo di Edward Hopper alla visione dei nai'f spersi nella Padania, Bertolucci esibisce solo a questo punto della sua carriera, accanto alle sue fonti cinematografiche e letterarie, anche quelle pittoriche e figurative. E, nello stesso tempo, si dimostra osservatore attento di gesti, ambienti e situazioni rappresentative della cultura materiale della civiltà contadina (la pulitura delle bottiglie di vino, l'osteria, l'ascolto dell'opera lirica in piazza o su uno sgabello accanto all'altoparlante, l'assaggio dei culatelli, del vino, della minestra di trippe...). Tara, paese situato nel cuore della Padania, si anima e diventa personaggio centrale del racconto. Inizia da questo film un sodalizio con l'operatore Vittorio Storaro i cui effetti produrranno sul lungo periodo un mutamento profondo nella consapevolezza del ruolo della luce per i cineasti di tutto il mondo. Storaro, più forse di tutti gli operatori che hanno scandito il percorso della luce del cinema italiano, ha il merito di aver spinto la sua sperimentazione e la sua ricerca e la sua riflessione teorica fino a soglie mai raggiunte da altri e di aver con forza mostrato l'importanza non solo del valore aggiunto della direzione della fotografia all'ampliamento della significazione del film, ma della connessione profonda della ricerca sulla luce con la tradizione della ricerca pittorica e iconografica.
Ci si accorge che, solo quando esista una forte ragione interna capace di coinvolgerlo nella storia, il gioco di rimandi, citazioni, collages stilistici e narrativi riesce a coordinarsi e trovare il proprio centro.
«Per me il Po - dichiarerà il regista - è contemporaneamente il Nilo e il Mississippi. Strategia del ragno è il primo film in minore, in senso musicale, che abbia fatto. Si esaurisce nella ricerca dell'ombra, del fogliame. Il verde della campagna di agosto non esiste in nessun'altra parte del mondo». Grazie a Storaro e alla comune meditazione sul ruolo modificatore della luce, comincia ad apparire evidente la funzione connotativa e significante della luce e del colore a cui viene demandato il compito di orchestrare, con un ruolo superiore alla musica stessa, il senso del film. Una luce implacabile inchioda i personaggi nella controra o sotto i raggi lunari, una luce che comunica sinestesicamente sensazioni tattili, vibrazioni sonore, che rende magiche e misteriose le apparizioni delle figure nel paesaggio.
Da questo momento il centro si sposta verso i modelli del cinema americano del passato, quasi a confermare l'identificazione col cinema dei padri e insieme con una cultura capace di contenere tutte le possibili forme di sviluppo successivo dello spettacolo. La cultura del melodramma.
Il conformista, tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia, dimostra come il regista si trovi ormai in una fase di raggiunta maturità e stabilità espressiva, in cui le scelte si sono ridotte e i programmi per il futuro si vengono chiarendo senza equivoci e conflitti. Con una strategia del tutto diversa, l'autore accetta, a dieci anni dall'esordio, le leggi del mercato, giocando consapevolmente le carte degli attori, del racconto e di una regia di sicura messa in scena spettacolare. Il film può anche apparire come un atto di resa rispetto alla produzione precedente (atto che gli viene puntualmente rimproverato), ma anche come un gesto di assunzione di una più definita fisionomia professionale. Bertolucci riesce a far sentire la propria presenza, pur concedendo molto alle regole di confezione di un buon prodotto cinematografico, dimostrando soprattutto la propria capacità di ricostruzione di ambienti e di atmosfere. A interessarlo nel Conformista non è tanto l'esatta ricostruzione d'epoca o le prevedibili rappresentazioni di gesti e situazioni entro altrettanto prevedibili sceneggiature, quanto la possibilità di isolare comportamenti emblematici, di forte rilevanza psicologica e sociologica, a cui dare un valore metastorico.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
Il successo di pubblico e critica non è comunque paragonabile, a nessun livello, con quello dell'Ultimo tango a Parigi del 1972, opera in cui il processo di integrazione nei meccanismi produttivi del cinema americano sembra ormai definitivo (e non solo per il fatto che nella parte di Paul, il protagonista, reciti Marlon Brando). Il film entra di prepotenza nella storia del cinema degli anni Settanta come uno degli esempi più clamorosi di mobilitazione totale dell'opinione pubblica e dei mass media. Al di là dei fasti giornalistici e scandalistici che ne hanno accompagnato la vita e la morte (mi riferisco all'Italia), quest'opera ha interessato più come fenomeno di costume e ha goduto di poche significative analisi.
Ultimo tango a Parigi racconta la storia di un viaggio di conoscenza e scoperta di sé, realizzato estremisticamente all'interno di quattro mura di una stanza e senza quasi alcun appiglio simbolico degli oggetti. I protagonisti, Paul e Jeanne, sono, da subito, posti l'uno di fronte all'altro e, almeno per l'uomo, l'itinerario assume il valore di esperienza decisiva e totale. Per Jeanne, in realtà, non c'è alcun rischio e alcuna posta in gioco. C'è sì anche per lei un itinerario conoscitivo, una scalata e progressione di esperienze, ma nel momento delle scelte quando l'uomo che ha conosciuto nella stanza le parla nuovamente per la strada, lungo lo stesso percorso dell'inizio, è come se lo incontrasse per la prima volta e nulla fosse successo.
La prospettiva che quest'uomo le offre è modesta e priva d'interesse nel momento in cui egli le rivela la propria identità. Jeanne lo uccide cancellandolo dalla sua vita e negandogli perfino un'identità. Con questo film Bertolucci approda in maniera definitiva a uno standard e a un modello cinematografico che non intende più abbandonare.
Quando vara il progetto di Novecento, mette a frutto, mediante un grande affresco epico e corale, tutti i tipi di lezioni e di esperienze finora fatte, dimostrando con l'eccesso di racconto la sua capacità di dominare completamente i meccanismi e le fasi realizzative dell'opera cinematografica. In Novecento lo sforzo maggiore, che si rintraccia a un livello retrostante l'intreccio, è quello di ricomporre, in maniera unitaria, l'immagine della memoria contadina finora offerta soltanto mediante frammenti. Al di là degli effetti truculenti eccessivi di sangue e di violenza, la cui necessità nell'economia del racconto spesso non si avverte (derivati chiaramente da letture tardive degli scritti di Artaud sul teatro della crudeltà), al di là dei meccanismi dell'intreccio in molte parti corrivamente didascalici, si assiste al primo grande tentativo di recuperare il senso di una cultura di una memoria storica la cui presenza si ritrova sempre più solo nei musei della civiltà contadina. Inoltre il poema di Bertolucci, più che respirare il clima storico delle vicende rappresentate, respira il senso dell'epopea e colloca una storia relativamente recente nella dimensione del mito. Inoltre ci trasmette e comunica, anche fisicamente, il senso del legame biologico tra il variare delle stagioni e il mutare dei flussi vitali degli individui. La natura e il paesaggio distendono la loro presenza e assumono un ruolo di protagonisti nell'economia complessiva dell'opera. Come bene ha scritto Pierre Sorlin, «il paesaggio vive in sintonia col destino dei protagonisti».
La luna (1979) non ha ambizioni inferiori a Novecento: punta piuttosto sui motivi del privato rispetto al racconto corale e ripropone temi già noti, a partire da quello dell'incesto esplorato per la prima volta in Prima della rivoluzione. Bertolucci vi attiva, in modo scoperto, un itinerario analitico, usando simboli e discorsi con uno sforzo di massima pertinenza. Riprende inoltre, variandolo, il motivo della specularità tra melodramma lirico e teatrale e vicenda narrata. Come in Strategia del ragno, i protagonisti, che partono da lontano (dall'America addirittura), si ritrovano, nel momento di massima culminazione drammatica, nei paraggi di Parma, alle soglie stesse della casa di Giuseppe Verdi.
Invischiato nella ragnatela geografica e spaziale dei suoi luoghi d'origine Bertolucci rimane anche nel successivo La tragedia di un uomo ridicolo, film che, come La luna, pone in primo piano il problema del terrorismo e della trasformazione economica e industriale del mondo contadino emiliano e romagnolo, ma che si fa ancora apprezzare per il retrogusto di implicazioni e di ricuperi di una civiltà al limite della sua scomparsa definitiva.
Con periodica ciclicità, dunque, il regista toma ai temi di partenza per rimanervi, come il protagonista di Strategia del ragno, sempre più coinvolto. Non c'è in lui, però, alcuna nostalgia, alcuna intenzione di abbellimento; il suo sguardo non sempre raggiunge una identica profondità, ma il suo racconto e il suo stile rappresentano, nel cinema italiano degli ultimi decenni, uno dei pochi se non l'unico punto di contatto, di scambio e di attiva comunicazione col cinema americano.
In effetti dalla metà degli anni Settanta, quando le posizioni del cinema americano sul mercato mondiale cominciano ad assumere quel ruolo di dominio pressoché assoluto e a far arretrare vistosamente le fette di mercato controllate e controllabili dalle differenti cinematografie nazionali, Bertolucci, accanto a Leone, appare l'unico regista italiano in grado di pensare a una produzione capace di rispondere nello stesso tempo alla domanda di un pubblico nazionale e internazionale e di competere con i registi hollywoodiani.
Dopo La luna e La tragedia di un uomo ridicolo di colpo Bertolucci sembra voler spingere il proprio sguardo verso scenari più ampi recidendo per sempre il cordone ombelicale con l'habitat padano. La Grande Storia attira di nuovo la sua attenzione: questa volta si tratta di compiere un lungo viaggio attraverso la storia della Cina servendosi della vicenda di un singolo individuo, Pu Yi, L'ultimo imperatore. Punto d'arrivo della ricerca espressiva e della maturazione del regista, L'ultimo imperatore è un film girato tutto in soggettiva, in cui i cambiamenti nella percezione della realtà da parte del protagonista corrispondono alla sua maturazione e alle diverse fasi di consapevolezza nell'arco dell'esistenza. L'ouverture con l'incoronazione a imperatore del bambino di tre anni e il primo contatto con l'esercito delle guardie imperiali perfettamente schierate è uno dei momenti in cui il cinema riacquista in tutto il suo splendore il senso di magia, di scoperta e creazione visiva del mondo come luogo delle meraviglie, giardino incantato, spazio in cui lo sguardo acquista il potere divino di far nascere la vita (è il senso dell'apparizione del grillo dal contenitore di una delle guardie).
La consapevolezza di Storaro nel giocare un ruolo determinante nelle scelte espressive del regista cresce di film in film e viene rivendicata con forza: «Ho cercato di visualizzare la vita dell'Ultimo imperatore attraverso l'analisi della luce, mostrando i simboli cromatici corrispondenti alle varie fasi dell'esistenza dell'uomo. Ho messo il rosso in relazione con la nascita del protagonista, l'arancio con i rapporti familiari e con la Città proibita in cui egli vive, il giallo con la sua presa di coscienza, il verde con il passaggio da una fase primordiale di vita, a uno più elevato di consapevolezza». Con L'ultimo imperatore Bertolucci riceve l'Oscar e si afferma definitivamente come uno dei grandi maestri del cinema mondiale.
Il film successivo II té nel deserto è tratto dal romanzo di Paul Bowles The Sheltering Sky. Dal punto di vista tematico e narrativo Bertolucci sembra affascinato da una storia che ripropone su una scala diversa - smisurata - il nucleo tematico del viaggio alla scoperta di sé risolto quindici anni prima nello spazio claustrofobico di un appartamento parigino. Lo stesso regista riconosce le affinità tra i protagonisti maschili dei due film («tutti e due sono la rappresentazione concreta della solitudine»). Il bisogno di fuga dal presente, di cancellazione della propria identità anagrafica e di ricerca di un'esperienza totale, capace di portare alla luce il nucleo più profondo dell'Io (determinata dal trauma collettivo della guerra mondiale) prevede, anche in questo caso, il sacrificio di uno dei due protagonisti. Il mito di Orfeo viene rovesciato e l'urlo di Port, trascinato dalla morte verso le profondità degli Inferi, fa tremare la terra, ma aiuta Kit a trovare da sola la propria strada, fecondandola finalmente come forse non gli era riuscito a fare negli ultimi anni per eccesso di intimità e di conoscenza reciproca. È nella dimensione del melodramma post-belliniano (e non più verdiano come avveniva nella produzione legata alla Padania), dell'incontro ravvicinato e della ricerca di una simbiosi impossibile, piuttosto che in quella dell'annullamento e dello stupore panico, che Bertolucci fa proprio il testo di Bowles.
Storaro - fin dai titoli di testa - è presente nel film come «autore della fotografia» e per buona parte dell'opera, soprattutto quella relativa al deserto, al vagabondare della carovana di cammelli lungo le dune, si ha l'impressione che l'operatore abbia quasi sottratto al regista il controllo completo dell'opera, riuscendo a realizzare una specie di film nel film che si inserisce perfettamente nella grande tradizione dei film sui deserti africani il cui archetipo risale ad Atlantide di Feyder del 1921. Rispetto al film precedente, l'opera non soddisfa né il grande pubblico né i più fedeli sostenitori del regista. Ma una fase riflessiva non è sufficiente a detronizzare Bertolucci dal suo ruolo di pontilex del grande cinema internazionale. L'investimento produttivo nel suo film sulla vita del giovane Buddha è senz'altrq all'altezza di questo ruolo e delle sue effettive capacità di pensare ancora in grande a un cinema capace di vivere ancora a lungo come grande spettacolo concepito anzitutto per i pubblici delle sale e non per quelli televisivi. Con Piccolo Buddha, 1993, ancora una volta ci troviamo di fronte a una storia di iniziazione come avverrà nei successivi Io ballo da sola e The Dreamers, ma più di tutto la vicenda viene raccontata, quasi sentendo l'urgenza di una riflessione sul bisogno di religiosità mancante nel cinema precedente, la tematica dell'incontro tra due mondi e due civiltà. Bertolucci sembra sempre più voler ricoprire questo ruolo di pontefice tra mondi e culture diverse, tra cinematografie europee e americana. La sua rimane per quasi vent'anni una riflessione accompagnata da una ricerca visiva e narrativa che si situa ai massimi livelli per la profondità di echi, risonanze culturali e iconografiche che le sue immagini racchiudono.
Con Io ballo da sola, 1996, inverte la rotta, torna ad affrontare storie di formazione più legate alla sua biografia, e torna a raccontare storie ambientate nel paesaggio di casa, anche se le colline toscane sono abitate da comunità di americani. Bertolucci assume in ogni caso, nei suoi ultimi film, un tipo di sguardo nuovo, meno distaccato e contemplativo. Mi piace dire meno fordiano e più rosselliniano, più interessato alla micro che alla macrostoria. Uno sguardo più ravvicinato e carico di affettività e di prossimità quasi fisica con i propri oggetti di racconto: l'occhio della macchina da presa assume una funzione vampirica nei confronti non tanto e non solo del corpo, ma dell'anima della giovane protagonista, del miracolo della sua giovinezza e innocenza che si tenta ricogliere allo stato nascente. L'assedio, 1999, girato per la televisione, e tratto da un racconto di James Lasdun, si può definire un «film da camera» in cui sembra riprendere, a quasi trent'anni di distanza, ma a un livello più ricco di implicazioni culturali e antropologiche, il tema dell'incontro tra un uomo e una donna, questa volta provenienti da mondi diversi. In tutto il film in pratica Mister Kinsky, rivolge due sole parole alla giovane Shanduray: «Ti amo... Sono perdutamente innamorato di te» (e la ragazza alla fine del film e dell'«assedio» gli scriverà in un bigliettino dopo aver dormito con lui «I love you»). Bertolucci sembra voler rivivere, nella capacità di donazione totale di mister Kinsky, lo spirito dei trovadori e della letteratura cortese. E nel suo spogliarsi di tutti i beni, fino al sacrificio finale del pianoforte Steinway, senza nulla chiedere in cambio, pare di ritrovare echi del racconto di Boccaccio di Federigo degli Alberighi e del sacrificio, per amore, da parte del gentiluomo, dopo aver dato fondo a tutti gli averi per conquistare la donna, del compagno di vita più amato, il suo falcone che viene ucciso e offerto in pasto all'amata.
The Dreamers è forse il film più profondamente autobiografico di Bertolucci, quello che tocca le corde del cinema come alimento e luogo di vita più reale del reale: ambientato a Parigi, nel 1968, nei mesi in cui la contestazione generale passa anche per la Cinémathèque Francaise, scossa dall'«affaire Langlois» e dal tentativo governativo di sottrarre la cineteca al suo creatore, il film cerca di trasmettere alle generazioni odierne il senso di quella passione totalizzante per il cinema che ha guidato una generazione di giovani e ha contribuito alla loro formazione. È ancora una volta una rivisitazione, carica di affettività, dell'Educazione sentimentale e del difficile passaggio delle colonne d'Ercole della giovinezza. Anche qui la macchina da presa sembra voler catturare il respiro dei suoi protagonisti, farci sentire come la luce del cinema possa costituire per un certo tempo l'alimento fondamentale della loro esistenza.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
«L'Italia ha perso una grande occasione, dopo Tangentopoli: doveva fare un vero esame di coscienza, capire come mai siamo tutti immersi in un paesaggio affollato di figure corrotte, complici di un sistema che va dalle piccole mance per piccoli favori alle grandi tangenti per grandi appalti. Era questa la rivoluzione morale che tanti avevano immaginato? D'altra parte, agli italiani non si addice l'affermazione della verità storica: ancora oggi, sulla data fondante della nostra Repubblica, il 25 aprile 1945, non siamo stati capaci di vedere i fatti con il distacco necessario. Lo scoprii alla prima proiezione del mio Novecento, un film in cui raccontavo una saga familiare a partire dalla nascita del comunismo in Emilia Romagna. Eravamo nel 1976, in pieno compromesso storico e mi sembrava di dover celebrare un rito, pensavo di rendere omaggio alla storia del Pci. “Paese Sera”, quotidiano comunista romano, organizzò un dibattito con lo storico Paolo Spriano e Giancarlo Pajetta. Alla fine del primo tempo, Pajetta, entusiasta, mi abbracciò. Poi, vedendo le immagini della Liberazione, in cui mostravo anche le vendette private, i processi popolari contro i fascisti, si alzò furioso e se ne andò gridando: “Mi rifiuto di partecipare”. Giorgio Amendola disse che il film era bruttissimo. La Fgci di Walter Veltroni, invece, mi appoggiò. Da allora, la mia tessera del Pci, presa nel 1969 contro l'estremismo filocinese della sinistra extraparlamentare, proprio nel momento in cui ci fu la rottura del partito con il gruppo del “manifesto”, si è andata via via scolorendo... Alla metà degli anni Ottanta ho smesso di rinnovarla, non ero un militante, ho iniziato a vivere più all'estero che qui. Oggi, mi pare di non avere più trasporto politico per nessuno: salverei soltanto Veltroni, perché è capace di guardare al futuro senza dimenticare le radici in cui tutti amiamo riconoscerci.»
Bernardo Bertolucci abita da più di trent'anni a Trastevere, all'interno di una specie di «riserva romana» per giornalisti, intellettuali, scrittori, attori, registi. Un comprensorio – di proprietà dei principi Torlonia – che Fernanda Pivano ha celebrato in una delle sue opere più divertenti, La mia casbah. Nel grande salone silenzioso, un'intera parete ospita lo schermo per il cinema in casa, sulle altre vedo dei quadri di Bernardo Siciliano, figlio di Enzo e pittore ormai affermato. «Sono stato suo padrino di battesimo, porta il mio nome, gli ho consigliato di andare a dipingere e studiare negli Stati Uniti». Bertolucci è credente? «No» ride, «sono ateo, grazie a Dio. Come diceva Buñuel.»
Nato a Parma nel 1941, il regista ha vissuto fino a dodici anni in campagna, in una casa che «da quando è morto mio padre (Attilio, grandissimo poeta) non ho più il coraggio di rivedere». Arrivato a Roma, nuovi amici, nuovo quartiere borghese – Monteverde Vecchio – nuova casa al quinto piano in via Carini, dove ha abitato fino a pochi mesi fa sua madre, Ninetta Giovanardi. «Se ne è andata a novantatré anni ed è rimasta fino all'ultimo perfettamente lucida». Bertolucci confida di sentirsi ancora «totalmente figlio. I miei genitori hanno costruito un incantesimo, nel quale mi sento tuttora immerso. Anche per questo, forse, non sono mai diventato padre». Il rito di iniziazione alla regia ha luogo proprio in via Carini. E domenica pomeriggio, alle tre, ora del riposo. «Avevo quattordici anni, vado ad aprire, vedo un giovane vestito a festa, con un ciuffo strano. Chiedo: “Cosa vuole?”. È lui: “Cerco Attilio Bertolucci, sono Pier Paolo Pasolini”. Mi spavento, gli dico di aspettare, lo lascio fuori, chiudo il portone. Vado da mio padre e gli racconto: “C'è un tipo strano, ho paura che sia un ladro”. E papà: “Ma no, è un poeta, fallo entrare”.» Pier Paolo porta sua madre Susanna ad abitare al primo piano di via Carini e Bernardo – da giovanissimo aspirante poeta – scende le scale di corsa per far leggere le sue creazioni all'amico più grande, «è stato un innamoramento adolescenziale, totale. Quando avevo diciassette anni, sempre sui portone di via Carini, un giorno Pier Paolo mi chiede: “Vuoi fare il mio aiuto regista in Accattone?”. Io ribatto: “Ma non lo so fare”, e lui a me: “Nemmeno io”. In quel periodo, ho assistito all'invenzione del cinema, giorno per giorno, una scuola unica».
Pasolini porta il giovane Bertolucci a cena con i suoi amici Alberto Moravia e la moglie Elsa Morante, «siamo usciti tutte le sere insieme, per tre anni. Il giro dei ristoranti romani: Carbonara, Matriciano, Augustea, con Elsa che puntava all'assoluto, Alberto pragmatico e Pier Paolo che mediava negli scontri furiosi fra i due. Con Moravia e mio padre, ricordo una bellissima gita a Sabaudia nel 1958: ci sedemmo al caffè sotto i portici, mio padre e Alberto vomitavano sull' orribile architettura fascista. Tornai dopo vent'anni per girare La luna e la trovai meravigliosa. Anche Alberto, che si era costruito una casa sulle dune con Pier Paolo, aveva cambiato idea. Eppure, anche quando girai Il conformista, scegliendo di ambientare molte scene all'Eur, il quartiere progettato dal regime, ricordo che fu considerato un gesto scandaloso». Lo scandalo assoluto che consacra Bernardo Bertolucci è Ultimo tango a Parigi, con Marlon Brando e Maria Schneider, un film che – dopo denunce e sequestri – finì al rogo. «Soltanto Marco Pannella mi è stato vicino, in quel periodo.» Il successo mondiale di quella storia dà al regista, «la possibilità di girare quello che volevo, di scegliere i migliori attori del mondo, diventai anche un po' megalomane. Vedi, nel 1969 non avevo preso soltanto la tessera del Pci, avevo anche iniziato la mia lunghissima psicoanalisi, che continua tuttora. Nei primi dieci anni, è stato un grande stimolo per il lavoro, passavo dall'analisi dell'esperienza alla comunicazione. Dopo, mi hanno aiutato gli anni in Oriente, lo studio della cultura cinese, del buddhismo». Nel 1986, è Bettino Craxi – nel corso del viaggio in Cina del governo italiano – a ottenere per Bertolucci l'autorizzazione a girare all'interno della Città Proibita a Pechino alcune sequenze dell' Ultimo imperatore. «Avevo conosciuto Craxi ad Hammamet, lo ricordo mentre cantava “A modo mio, avrei bisogno di carezze anch'io”, con Bobo alla chitarra. Era un uomo molto intelligente, ma lo giudicavo molto pericoloso».
La dimensione politica e la trasgressione privata, come in Visconti e in Pasolini, s'intrecciano in tutte le vicende narrate da Bertolucci. Fin da Prima della rivoluzione, con Adriana Asti (1964), storia di un giovane borghese che diventa comunista e corteggia la zia, salvo poi rientrare nei ranghi. Un film che Angelo Rizzoli senior decide di distribuire in un pomeriggio. «Lo chiamai al telefono, riuscii a parlargli, gli spiegai che per me quel film era una questione di vita o di morte, che entro quattro ore dovevo incontrarlo e lui disse: “Ma venga pure, giovanotto!”». Privato e pubblico, Pci e Freud, alto e basso, raffinatezza e superstizione, grandi attori e piccole storie, oppure kolossal in costume e attori bambini: i contrasti nell'arte del regista scatenano la sua passione. Ma i capolavori e i successi non hanno mai attenuato la dolcezza ironica che è il segno più forte della personalità di Bertolucci, un calore che ti avvolge quando racconta dettagli e ricordi come questo: «Giravamo in Africa Il tè nel deserto, nel 1989, arriva un fax di mia moglie Claire che annuncia: “È caduto il muro di Berlino” e John Malkovich mi chiede: “Come ci vestiremo, dopo la caduta?”».
Il pomeriggio estivo lascia filtrare le luci del tramonto, è finita la nostra pausa dalle paure contemporanee. «Claire èa Londra, abbiamo una casa lì. E sono sempre in ansia per lei.» Lascio l'appartamento di Trastevere e il suo inquilino, che torna al lavoro per il prossimo film: di nuovo da un grande romanzo, di una scrittrice americana, «di più non posso dirti».
Da Registi d'Italia, Rizzoli, Milano, 2006