Aster abbandona gli stilemi dell’horror per dedicarsi a un affresco corale che ci mostra gli orrori della realtà. Eddington, dal 17 ottobre al cinema.
di Rudy Salvagnini
Dopo una serie di cortometraggi, l’esordio nel lungometraggio di Ari Aster è stato di quelli col botto, per l’interesse che è riuscito a suscitare in critica e pubblico agendo apertamente all’interno delle convenzioni di un genere molto strutturato e vario come l’horror. Hereditary si muoveva con agilità negli schemi narrativi del sottogenere del contatto con gli spiriti dell’aldilà in un racconto intimo e opprimente che puntava molto sul ritratto psicologico dei protagonisti e sul difficile modo di confrontarsi con una perdita insopportabile e ritenuta sommamente ingiusta. Niente che non si fosse già visto nell’horror, ma con uno sguardo personale e fortemente focalizzato sulla materia.
Il successivo Midsommar (guarda la video recensione) si apriva a una dimensione più sociale e corale dell’horror, prendendo a piene mani e senza vergogna, verrebbe da dire, da un capolavoro lontano e poco visto come The Wicker Man e addentrandosi così nel territorio di quello che viene chiamato folk horror, perché radicato nel folclore e nella tradizione popolare. Anche qui il punto di partenza è un trauma e il difficile modo di affrontarlo, ma poi il film supera la sua dimensione intimista e si apre a uno spaccato sociale ricco di spunti e di metafore.
Con Beau ha paura, Aster compie un passo avanti, o magari di lato più che avanti, distaccandosi dal genere horror, di cui quel film ha ben poco se non una scena (la tenebrosa visita in soffitta) e qualche suggestione di fondo, per abbracciare i toni della dark comedy d’autore. Sovradimensionato, sfrenato, surreale, quasi felliniano a tratti e disperso in molti rivoli narrativi, Beau ha paura è il tipico film di un regista di successo che crede di poter fare quello che vuole e che di fatto ha la possibilità di farlo. Il pubblico non lo ha seguito e la critica è stata piuttosto divisa, ma è innegabile che Aster anche e forse soprattutto in questo caso ha dimostrato forte personalità d’autore e una notevole capacità visionaria nel rappresentare il mondo nel delirio di un paranoico non tanto lontano dalla realtà effettiva.
Eddington prosegue nella direzione di una forte autorialità che sfida le convenzioni e anche le convenienze. Aster abbandona del tutto gli stilemi dell’horror per dedicarsi a un affresco corale che ci mostra gli orrori della realtà nel modo confuso e contraddittorio in cui si presentano oggigiorno costantemente davanti ai nostri occhi. Per farlo ci immerge nella quotidianità di una cittadina - Eddington, New Mexico - di quello che potremmo definire il cuore profondo degli Stati Uniti nel maggio 2020, cioè nel pieno della pandemia da Covid-19. Lo sceriffo Joe Cross è insofferente alle mascherine e al lockdown e perciò si scontra con il sindaco Ted Garcia, che invece intende rispettare e far rispettare le regole. L’insofferenza di Joe è tale da spingerlo a candidarsi a sindaco alle imminenti elezioni cui intende naturalmente concorrere anche Garcia. Lo sceriffo è turbato da una situazione personale e familiare ampiamente compromessa e si getta nell’agone politico con confusa virulenza senza evitare colpi bassi in un quadro complessivo che rivela molto - e molto lascia anche nell’implicito - del disagio della società americana immersa in un tragico degrado del confronto politico e non più capace di regolarsi nel mare di fake news, settarismi e credenze cospirazioniste.
Il quadro satirico dipinto con attonito sarcasmo da Ari Aster - che ci butta dentro un po’ di tutto quello che fu e rimane divisivo, non ultimi i tumulti derivati dal movimento Black Lives Matter - è da incubo dantesco, ma molto credibile nelle sue dinamiche narrative che seguono una spirale di violenza inarrestabile popolata da personaggi tra i quali è assai difficile trovare qualche positività e con l’ineffabile conclusione che la verità alla fine non verrà mai a galla. Immerso in quella che sembra una nebbia mentale che lo ottunde e però al tempo stesso lo spinge a muoversi e a darsi da fare, Joe Cross, nell’interpretazione magistrale di Joaquin Phoenix (già convincente super paranoico in Beau ha paura), rappresenta la personificazione del fuorviato e confuso decisionismo nazionalista che caratterizza la società americana dei nostri tempi, dandone un ritratto che lascia poco spazio all’ottimismo e ne espone tutta la nevrosi.