Il film su Salvador Dalì con Ben Kingsley è la prova che creatività e sperimentazione possono trovare spazio in un genere tradizionalmente abituato a seguire strutture sempre uguali a se stesse. Da giovedì 25 maggio al cinema.
di Silvia Guzzo
Chi l’ha detto che i biopic sono tutti uguali? Certo, esiste una struttura ricorrente che si ripresenta pressoché invariata in molti film biografici, che sono soliti ripercorrere la vita e la carriera dei loro protagonisti secondo un criterio cronologico e lineare. Alcuni esempi degli ultimi anni sono Bohemian Rhapsody (2018) e Whitney - Una voce diventata leggenda (2022) − dedicati rispettivamente al frontman dei Queen Freddie Mercury e all’icona della musica pop Whitney Houston − che nel dar forma a una rappresentazione sicuramente spettacolare della vita dei protagonisti si mantengono comunque nei binari di una narrazione piuttosto convenzionale.
Tuttavia, che nel mondo dei film biografici possano trovare spazio anche la creatività e la sperimentazione lo ha dimostrato Pablo Larraín: da Pablo Neruda a Lady Diana passando per Jacqueline Kennedy, il regista cileno ha sempre aggiunto un punto di vista originale e inedito sulle storie dei personaggi che ha deciso di raccontare. Se con Jackie (2016) e Spencer (2021) la particolarità dell’approccio di Larraín consisteva nel mettere in scena un periodo molto ristretto della vita delle protagoniste che potesse far luce sulla loro storia e sulla loro personalità, in Neruda (2016) è un personaggio realmente esistito ma completamente reinventato − il prefetto della polizia Óscar Peluchonneau − a guidare in voice over lo spettatore all’interno della narrazione.
Nel suo Daliland (2022) Mary Harron mette insieme le due strategie adottate da Larraín decidendo di raccontare gli anni crepuscolari della vita e della carriera di Salvador Dalì attraverso lo sguardo di un giovane ammiratore del pittore, l’aspirante gallerista James. In effetti, Harron aveva adottato un approccio simile già nel suo primo film, Ho sparato a Andy Warhol (1996), in cui l’incontro con Warhol avveniva attraverso il personaggio − questa volta realmente esistito − di Valerie Solanas, una femminista militante che nel 1968 attentò alla vita dell’icona della pop-art americana. Ma con il biopic Harron si è confrontata anche nel 2005 grazie a La scandalosa vita di Bettie Page, lungometraggio incentrato sulla vita della celebre pin-up e modella bondage.
Se qui a interpretare Page era l’attrice statunitense Gretchen Mol e in Ho sparato a Andy Warhol nei panni dell’artista c’era Jared Harris e in quelli di Solanas Lili Taylor, in Daliland il ruolo di Salvador Dalì va a Ben Kingsley, attore britannico dalla solida carriera teatrale e cinematografica, che nel 1982 aveva raggiunto la notorietà proprio grazie a un biopic, dedicato alla vita di Mahatma Gandhi. Per la sua interpretazione di Gandhi, nel 1983 Kingsley si era infatti aggiudicato un Oscar, un Golden Globe e un BAFTA come Miglior attore protagonista e da quel momento la sua carriera aveva preso il volo, arrivando a lavorare con registi come Steven Spielberg, Roman Polanski e Martin Scorsese.
In Daliland, quindi, Kingsley si confronta nuovamente con un film biografico e al suo fianco trova un’altra celebre e pluripremiata interprete, Barbara Sukowa, nei panni di una Gala sempre meno dedita al marito e sempre più incline a coltivare le proprie tresche extraconiugali. Al rapporto tra Gala e Salvador viene dedicato molto spazio e le difficoltà del loro presente vengono messe a confronto con l’intesa del passato, resa in scena da alcuni flashback in cui Ezra Miller e Avital Lvova interpretano i due personaggi in gioventù.
Il contrasto tra giovinezza e vecchiaia, alba e tramonto è inoltre esaltato dalla presenza di colui che conduce lo spettatore all’interno della storia: l’appassionato e vitale James, un ragazzo all’inizio della propria carriera e ricco di speranze per il futuro che si contrappone a un Salvador Dalì sempre più fragile e consumato. È proprio grazie a James che Daliland si distanzia maggiormente dai canoni del biopic convenzionale, utilizzando un personaggio fittizio come chiave interpretativa della storia vera cui si ispira: una storia al crepuscolo che tuttavia non dimentica la sua origine.
Daliland, l’ultimo film di Mary Harron, regista anche di American Psycho e con il Premio Oscar Ben Kinsgley, arriva al cinema dal 25 maggio.