IL VERO VOTO AL FILM è **½
James Bond (Craig) a Città del Messico uccide autonomamente un criminale italiano, senza che nessuno dei vertici dell’MI6 gli abbia ordinato di farlo. M (Fiennes), furioso, lo estromette dal servizio e Bond ha così la possibilità di dedicarsi al suo personalissimo incarico. Tra Roma, l’Austria, Tangeri e Londra la missione di Bond lo porterà allo scontro più terribile della sua vita, scontro che da personale arriverà a coinvolgere la sicurezza dell’Inghilterra e del mondo. Spectre è la fine: a poco servono le dichiarazioni di Craig che ci confermano che questo sarà il suo ultimo Bond, lo possiamo dedurre facilmente da soli. Infatti Casino Royal apriva la fase-Craig che si poneva come sequel e reboot allo stesso tempo, con un occhio alla tradizione e uno all’innovazione. In un qualche modo quindi Casino Royal ripartiva da zero, per dare avvio a una tetralogia che si conclude qui, con Spectre, dopo gli atti intermedi di Quantum of Solace e Skyfall. Dunque, in quanto fine, il film deve tirare le somme del tutto e la sceneggiatura di questo nuovo capitolo non è propriamente perfetta: la storia è tirata per le lunghe e si arriva ad un certo punto, verso metà film, in cui perplessi ci si arriva a chiedere se si stia assistendo ad un’operazione “molto fumo-niente arrosto”. Infatti il decollo per Spectre è a dir poco faticoso, la storia non ingrana per troppo tempo e viene il dubbio durante la visione che almeno un paio di sequenze fossero abbastanza superflue da poter essere tagliate, e in un film di due ore e mezza che corre più di una volta il rischio di annoiare questo poteva decisamente fare la differenza. Ora, Spectre non è brutto, anzi, è un Bond-movie più che dignitoso (e forse la sua “colpa” è di arrivare dopo un film, Skyfall, che era molto più di un semplice film d’azione bondiano, bensì un autentico capolavoro cinematografico): gli spunti della storia sono interessanti, i morti (Bond e M in primis) che continuano perennemente a ritornare in vita, come dice esplicitamente la frase iniziale, il discorso del precedente film trasferito dalla “M-adre” di Bond al padre perduto, le cui veci sono fatte nientemeno che dal padre stesso del nemico numero uno di 007 in Spectre, il Franz Oberhauser di Christoph Waltz, l’abbandono definitivo del bisogno di un genitore, in favore di una compagna, la Madeleine Swan di Léa Seydoux, che non a caso lascia il film al suo fianco, sulla buona vecchia Aston-Martin, è inoltre un Bond-movie più tradizionale, meno intento a rompere le righe, e forse anzi troppo interessato a rientrare in esse, con un citazionismo costante che sfiora l’eccessività. Però non basta questo a farne un film riuscito: come già ho detto l’avvio della storia e il suo sviluppo è lento ai limiti della noia e anche i personaggi, se si esclude proprio Bond, non hanno uno spessore sufficiente: la bond-girl di Léa Seydoux si autoproclama come salvatrice dell’eroe, comparendo a metà film e con uno sviluppo solo discreto (non si può non rimpiangere la Vesper Lynd di Eva Green), e soprattutto Oberhauser è un cattivo scritto in maniera meno che discreta e sfruttato in maniera insufficiente, cosa che finisce per andare a scapito dell’interpretazione di Christoph Waltz, prigioniero di un personaggio che non gli fornisce occasioni per mostrare tutto il proprio poliforme talento. Alla fin fine a livello di villain rimane più memorabile il Mr. Hinx di Dave Bautista, cattivo di pura presenza (e che presenza! Il suo ingresso in scena non si dimentica) ma di assoluta efficacia. Inoltre quello che poteva essere il tema più interessante, lo straordinario controllo tecnologico che ormai si applica su tutto, tradotto nel ramo della storia dedicato alle lotte tra M e C, è trattato in maniera abbastanza scontata ed abbozzata. Trionfale come sempre la regia di Mendes, che mette a segno un paio di sequenze notevoli (compresa l’apertura in piano sequenza a Città del Messico), micidiale per eleganza e precisione (nonostante Skyfall anche a livello registico resti insuperato). Visivamente grandioso e spettacolare può contare sull’efficace fotografia di Hoyte Van Hoytema, sul montaggio solenne di Lee Smith e sulle travolgenti musiche di Thomas Newman. Il tema Writing’s on the Wall è cantato da Sam Smith e fa da commento ai bei titoli di testa (che però anche qui non sfiorano nemmeno alla lontana quelli del film precedente). Dunque un Bond discreto, lontanissimo dalla perfezione, ma comunque abbastanza godibile nonostante lungaggini varie e la noia sempre pronta ad impossessarsi del film. Ottimo successo di pubblico, ma meno di Skyfall, a fronte di un budget colossale.
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