
Attore culto e leggenda urbana, Bill Murray si veste di smoking e broncio e torna a recitare per Sofia Coppola in A Very Murray Christmas. A Natale in streaming su Netflix.
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di Marzia Gandolfi
Attore culto e leggenda urbana, Bill Murray è il muro di gomma ruvida contro cui rimbalza Hollywood. Amarlo appassionatamente negli anni Ottanta era una scelta, un piacere alternativo, il frutto di una lunga osservazione. Poi nel 2003 Sofia Coppola lo serve su un piatto d'argento e in una commedia sommamente chic con le modalità d'impiego. Lost in Translation è quasi un manifesto critico sull'attore, che mette in rilievo le sue competenze comiche e le sue nevrosi consacrandolo divo più cool del firmamento americano. Delirio a freddo che si oppone in televisione alla comicità eccedente di John Belushi e al sarcasmo euforico di Eddie Murphy, Bill Murray si guadagna negli anni e coi ruoli un'impunità totale dentro e fuori lo schermo. In perpetuo sfasamento, vittima di una sorta di jetlag esistenziale, l'attore americano può permettersi di fare il verso a John Wayne in Monuments Men, di servire tequila al South by Southwest festival di Austin, di cantare (male) "Gloria" di Van Morrison con Eric Clapton, di cantare (male) in coppia con Clint Eastwood, di cantare (approssimativamente bene) nel 'Christmas special' di Sofia Coppola.
A lungo imprevedibile, raggiunge il successo tardi con Ricomincio da capo, commedia dell'eterno ritorno che fotografa il 'caratteraccio' dei suoi personaggi e produce l'immagine di uomo cinico e lunatico che non arriva a trovarsi pienamente. Immagine che riconsidera nell'incontro con l'altro e che rovescia molto spesso in un nuovo se stesso, non necessariamente più docile ma certo più funzionale. Solo riscoprendosi 'buono' Francis Xavier Cross (S.O.S. Fantasmi) può liberarsi dei propri fantasmi e tornare alla vita di prima, solo diventando 'gentile' Phil Connors può uscire dall'incubo della sospensione temporale e conquistare la ragazza dei suoi sogni (Ricomincio da capo). Scoperto da John Belushi e cresciuto davanti alle telecamere del Saturday Night Live, semina negli anni Ottanta e raccoglie nei decenni successivi mettendo a segno una serie di ruoli indimenticabili che lo legittimano e fondano il (suo) mito dopo una permanenza (coatta) in serie B. Dietro a Eddie Murphy o Steve Martin, star comiche di film a grosso budget che 'scoraggiano' le sue velleità di attore dal potenziale infinitamente più complesso.
Felpato e fluttuante 'a lato' delle celebrità, Bill Murray spiega la sua tecnica slow-burn e diventa a piccoli passi ben piazzati l'attore centrale del cinema americano che conta, un cinema autoriale o indie che decifra la leggera dissonanza ed esalta la presenza sopita di un uomo che spende la vita ad apparire altrove. Qualità che lo assimila ai fantasmi che acchiappa o con cui fa incessantemente i conti. Nel tempo che passa tra Ghostbusters - Acchiappafantasmi e Broken Flowers, passando imprescindibilmente per Rushmore, Lost in Translation e Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Murray cambia sensibilmente, creando alcune delle sue più toccanti performance. Bill non è più un giovane scapigliato e potenzialmente crudele, gli anni gli guadagnano una bonomia e un'impassibilità a cui è davvero impossibile resistere.
La leggenda vuole che quando Sofia Coppola lo cerca per la sua romantic comedy, Bill Murray è l'uomo meno ingaggiato di Hollywood, non ha un agente ma una segreteria telefonica in cui lasciare messaggi vocali, che lui ascolta oppure no. Se la singolare indolenza gli fa sprecare troppe occasioni, non perde la chance con Lost in Translation che nel 2003 gli vale una nomination agli Oscar, la vittoria ai Golden Globe e ai BAFTA. Protagonista superlativo di una commedia spaesata che incontra un uomo e una donna in un Giappone ipermoderno, è l'old immovable object 'spostato' dal sex-appeal biondo e morbido di Scarlett Johansson. Garanzia emotiva del film, che passa tutto sulla sua faccia immota, Lost in Translation matura un uomo che adesso ripara invece di ferire, meritando il privilegio unico di conoscere le parole che Scarlett gli bisbiglia all'orecchio e in un addio privato di irripetibile garbo. Sempre sul filo di un understatement solenne, l'attore interpreta magnificamente le cose dello spirito e gli accenti depressivi, opponendo ai marosi della vita una serenità indifferente di cui non è dato conoscere il segreto.
Buster Keaton metafisico, nella maniera in cui controbatte le avversità, qualche volta incosciente e stoico, qualche altra collerico e insofferente, è Jim Jarmusch a gettargli il guanto (Broken Flowers), affondandolo su un divano da cui dà ancora segni di vita e muove alla ricerca di un figlio mai conosciuto. Dopo tre film con Wes Anderson (Rushmore, I Tenenbaum, Le avventure acquatiche di Steve Zissou), che lo incoraggia sulla via del minimalismo e dell'opacità fino a farne un geroglifico indecifrabile ma già attraversato da una presunta paternità ideale e dolente (Rushmore, Le avventure acquatiche di Steve Zissou), Jarmusch lo rende padre in un percorso a quattro tappe. Tappe geografiche ed esistenziali che coincidono con quattro donne e permettono a Bill Murray di rinnovare il celebre esperimento di Kulešov, che alternava il volto impassibile di un attore con differenti piani (un bambino che ride, una scodella di zuppa, il cadavere di una donna). Rimpiazzando gli stimoli con quattro attrici (Sharon Stone, Frances Conroy, Jessica Lange e Tilda Swinton), il suo personaggio 'sfoglia' fidanzate e vecchie amanti con la medesima e lucida imperturbabilità. Giocando crudelmente ma anche intelligentemente con le attese dello spettatore affezionato alla modalità 'comica' dell'artista, Jarmusch fa del suo viaggio un'esperienza immobile, di Bill Murray un attore totale che infila il disorientamento di un padre versato nell'amnesia e nella rimozione del passato.
Ma poi qualcosa accade e sfuma la smorfia fissa. Qualcosa si 'rompe' con Broken Flowers, lampi di luce e di resa in faccia al dolore e alla vita lo 'sbeccano', acquistando al suo personaggio un'umanità a cui si sommano qualche anno dopo l'indulgenza, il gusto della vita, la maniera di parlare a un ragazzino, il piacere manifesto di ascoltare la musica in giardino o anche solo di essere per gli altri (St. Vincent). La 'quiete', che fino a quel momento si era imposta, lo abbandona e Bill Murray con A Very Murray Christmas apre il suo registro fino alla speranza, lasciando filtrare l'emozione tra glamour e paillettes. Bill Murray canta e non è una gag. È la vedette melanconica in smoking e broncio di uno show musical natalizio realizzato da Sofia Coppola per Netflix che rievoca il lounge singer del Saturday Night Live e il Bob Harris languido della rauca versione karaoke di "More than This" di Bryan Ferry (Lost in Translation). Indossate un paio di corna di renna e la blue attitude, Bill Murray produce (di nuovo) l'incantesimo, una dolcezza laconica che arriva inattesa davanti allo skyline quieto di New York e dentro un sommesso congedo.