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Orange Is the New Black, la 4a stagione è ora su Netflix


di Marco Chiani

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venerdì 17 giugno 2016 - Netflix

Mentre in alcune città europee gli eventi organizzati - dai fan e dai vari uffici marketing - per la nuova stagione di Orange is the New Black hanno confermato una febbre d'attesa d'altri tempi, la produzione non è che si sia sbilanciata più di tanto in quanto ad anticipazioni. Fatto sta che dopo la quarta serie, da oggi su Netflix, ne sono previste indicativamente altre tre per un totale di sette anni televisivi che vanno a dilatare di un bel po' quell'unico anno in prigione a cui rimanda il titolo del libro della vera Piper Kerman.

Dopo le prime tre stagioni in cui ha dovuto adattarsi ad una realtà per niente facile, tra colpi bassi di varia intensità, faide, scontri, tensioni e amplessi veloci dietro le sbarre, pare che la bionda protagonista sia più che pronta per una sorprendente muta caratteriale.
Marco Chiani

A rivelarlo, qualche tempo fa, è stata la stessa Taylor Schilling che, parlando della sua Piper, ha fatto riferimento ad una nuova consapevolezza, ad un ritrovato coraggio, forse connesso anche alla rottura del legame con Alex. Chi sia Alex, che ha fatto il nome di Piper durante un processo causandone l'arresto dopo dieci anni da un reato compiuto solo per amore, non è certo un segreto per i fan della serie.


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Nuove detenute e nuovi (labili) equilibri

Nuova stagione, nuove detenute ovviamente. Al penitenziario di Litchfield, carcere femminile gestito dal Dipartimento Federale di Correzione, finora ne sono arrivate un po' di tutti i colori e le nazionalità, ma la quarta serie promette di stupire con un carico di nuovi personaggi finora intentato. Davvero difficile mantenere gli equilibri a malapena stabilitisi negli ultimi episodi della terza serie, ancora di più se - è sufficiente dare un'occhiata ai sibillini trailer rilasciati col contagocce - consideriamo quella nuova girandola di tratti somatici e corporazioni razziali a cui hanno voluto dare spazio gli autori.

La confusione sarà pure una parola inventata per indicare un ordine che non si capisce, per dirla con Henry Miller, ma le prime a cui sarebbe richiesta la capacità di avere in mano le redini della situazione, al Litchfield, paiono non essere all'altezza del compito.
Marco Chiani

Aggiungete alle guardie carcerarie poco esperte il solito meltin' pot delinquenziale di prim'ordine e otterrete quello scontro di civiltà e storie sociali che, serpeggiando già dalle prime puntate, s'è fatto gradualmente sempre più cuore del tutto. L'ordine, dopotutto, c'è davvero, sia davanti sia dietro le sbarre. Peccato che sia tutto orientato alla sopraffazione, alla conquista di un controllo, quello sì davvero organizzato e regolato da un codice dettagliatissimo, per i traffici interni, per il comando di tutto ciò che accade tra brandine a castello, cucine fumose e parlatori.


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Litchfield, sempre più specchio della realtà

Ideatrice di una serie nata per raccontare - semplicemente? - la vita dentro ad un penitenziario femminile, Jenji Kohan continua ad alzare l'asticella tematica di quel microcosmo a tenuta stagna che, dalla prima stagione, intende come un vero e proprio specchio del mondo fuori.

La deflagrazione di tensioni anche economiche porterà ad una guerra culturale esplosiva, le cui armi saranno ancora la sessualità, l'appartenenza ad una classe sociale, la razza e, certamente non ultima, la complessità di un genere femminile messo in gioco in una situazione in continuo bilico tra vita dentro e fuori le sbarre.


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