mercoledì 10 febbraio 2010 - Incontri
Da dove arriva l'assoluta libertà del tuo sguardo? Qual è stato il tuo percorso formativo?
Ho iniziato curando piccole rassegne di cinema all'interno di un posto allora occupato, il Damm (Diego Armando Maradona Montesanto): un vero laboratorio di vita, dove ho imparato a fare tutto e dove mi occupavo di tutto, dalla ludoteca ai lavori di falegnameria, dalla programmazione dei film in sala, all'attività sociale nel quartiere. L'arrivo del Damm nella mia vita ha segnato la decisione di lasciare l'Accademia di Belle Arti, mi mancavano pochi esami ma sentivo di voler impegnarmi in qualcosa di diverso. Tra l'altro non ero neppure così bravo nella pittura.
Si può dire che il mio primo approccio al cinema sia stato da cinefilo. Solo successivamente mi sono avvicinato al documentario girando piccoli film come Il cantiere, che ho montato con Maurizio Braucci, mio compagno d'avventura, nonché scrittore e sceneggiatore di Gomorra, un vero grande talento. Era la prima volta che prendevo in mano una videocamera e facevo un'esperienza di montaggio. Il cantiere vinse il premio Libero Bizzarri . Decisi di continuare facendo dei radiodocumentari per Radio Tre, fino a quando non ebbi l'occasione di incontrare i miei produttori, Nicola Giuliano e Francesca Cima dell'Indigo Film, che mi offrirono la possibilità di realizzare Il passaggio della linea, presentato a Venezia nel 2007 nella sezione Orizzonti. Il passaggio della linea è stato il mio primo "lungo". È un film di sessanta minuti, non credo nel modello anglosassone che impone durate standard, diversamente penso che un film debba durare per il suo valore reale e concreto. Al momento del montaggio procedo per sottrazione, magari non sempre ci riesco, ma è mia intenzione abitualmente ridurre all'osso il film. Per partecipare alla sezione Orizzonti fui costretto ad allungare il mio documentario di qualche minuto e ancora oggi ci soffro.
Rimanendo in campo letterario, mi dicevi della tua passione per Georges Simenon, di cui citi un periodo nell'introduzione del documentario Il passaggio della linea. In molti suoi romanzi lo scrittore belga tratta il tema della libertà in opposizione alla vita e alla morale piccolo-borghese. Molti dei suoi personaggi a un certo punto della loro esistenza "deviano", rompendo improvvisamente con il passato e con un ambiente, alla ricerca dolorosa della libertà e dell'identità. I tuoi film sono in qualche modo racconti di "devianze", è sbagliato allora pensare che le sue pagine possono aver ispirato o anche solo suggestionato le tue immagini, le tue storie?
Amo molto Simenon, amo la forma cinematografica dei suoi romanzi. Per quanto riguarda, invece, la citazione del suo passo, l'ho scelta perché mi sembrava emblematica e in un certo senso funzionale al mio racconto. Il passaggio della linea è un ritratto del Paese visto dal finestrino di un treno espresso, un viaggio che va dalla notte al giorno, dal sud al nord della penisola. Ma il film racconta anche la storia di Arturo che dei treni espressi aveva fatto la propria dimora. Il passaggio della linea per lui è quel punto dell'esistenza in cui tutto cambia e da cui non si può tornare indietro.
La sua vicenda è in questo senso esemplare, nel '54 Arturo era tra i più ricchi cittadini di Bolzano, aveva alle spalle un grande bagaglio di vita, era stato addirittura prigioniero in Germania recluso insieme a Giovannino Guareschi. Era un uomo dal grande senso civico che dopo tante peripezie - il carcere, i processi, lo sciopero della fame - aveva deciso di vivere sui treni, una scelta forse estrema, lo spogliarsi di tutto per abbracciare una libertà assoluta. Quello è stato il suo passaggio della linea, la scelta di una vita diversa.
Quanto invece alla storia di Enzo e Mary, protagonisti de La Bocca del lupo, non parlerei di "devianza", piuttosto di "diversità". Mary è cresciuta in una famiglia della Roma bene, ha ricevuto un'educazione borghese e ha vissuto un'infanzia felice fino a quando ha scoperto la propria sessualità ed è stata costretta, per esprimerla pienamente, a fuggire a Genova poco più che maggiorenne. È lì che si sono formate già negli anni Sessanta le prime comunità di transessuali. Mary ha provato a costruirsi una vita nella diversità. Altra cosa è stata la vita e la storia di Enzo, arrivato a Genova a soli due anni, figlio di un contrabbandiere, cresciuto nei vicoli, per metà della sua vita in prigione sempre per lo stesso motivo, conflitti a fuoco con la polizia. Ha passato gran parte della sua vita in una cella angusta e per questo ha sviluppato un grande controllo sul suo corpo: se chiedi ad Enzo di restare fermo, di non muoversi per molti minuti, lui lo fa senza battere ciglio.
In prigione Enzo e Mary si sono incontrati, le loro esistenze difficili e dolorose si sono riconosciute, sostenute, amate. A Torino mi è capitato che alcuni giornalisti mi chiedessero un pensiero o una riflessione riguardo al caso Marrazzo, ma il mio documentario c'entra poco con questo, con la sessualità. Girando La bocca del lupo non ho mai pensato di raccontare una storia con tematiche di quel tipo, quello che davvero mi interessava dei personaggi e quello che i gesuiti sono stati capaci di vedere nel mio film è l'amore che esiste tra Enzo e Mary, un sentimento profondo che li riscatta da un passato fatto di solitudine e sofferenza. È nella diversità che nasce l'amore, questo sembrano dirci Enzo e Mary, due persone che si sono aiutate reciprocamente, proteggendosi dalle malvagità della vita.
La bocca del lupo è il titolo del romanzo ottocentesco di Remigio Zena. Ti sei ispirato ai suoi poveri e ai suoi diseredati e a quella che Montale chiamava la sua "pietà superiore e nascostamente sorridente"?
Il titolo vuole essere un omaggio a quel romanziere genovese che nell'Ottocento seppe raccontare in forma verista la città ed in particolar modo la vita quotidiana nella zona di Prè.
Io sono approdato a Genova senza conoscerla e l'impatto con la città è stato decisamente difficile, perché intorno a me non riuscivo a individuare un tessuto sociale. Nella mia città, Napoli, il tessuto sociale è più riconoscibile. Al mio arrivo a Genova ricordo di essermi sentito disorientato. Dal dopoguerra in poi l'area dell'angiporto è molto cambiata, nel corso degli anni alla presenza degli emigrati del sud si è sostituita, poi sovrapposta, quella degli extracomunitari. Il tessuto sociale ne risulta estremamente frammentato.
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Enzo e Mary oggi, Arturo ieri, ti hanno accolto e ospitato letteralmente nella loro casa, nella loro città, nel vagone di un treno espresso notturno. In che modo sei riuscito ad avvicinarli e a guadagnarne intimità e confidenza?
Sui treni espressi, mentre giravo Il passaggio della linea, condividevo con le persone intervistate il tempo del viaggio, avevo un confronto diretto con loro, c'erano domande, osservazioni, risposte, avevamo un rapporto alla pari, vivevamo lo stesso momento. Se vuoi parlare sinceramente con le persone che incontri devi scendere nei loro vicoli o come nel caso di Arturo sederti al suo fianco, nel suo vagone. Ho passato tante ore in viaggio con lui e capitava non avesse più voglia di parlare di sé, così si discuteva d'altro.
Parto comunque da storie e persone vere, per La bocca del lupo furono i gesuiti della comunità di San Marcellino, attiva a Genova dal dopoguerra, a chiedermi di raccontare attraverso il mio film il mondo, le persone e la città a cui si rivolge la loro attività. I padri gesuiti operano a Genova dal 1945, portando aiuto nel passato alle persone del centro storico che avevano perso la casa sotto i bombardamenti e assistendo oggi gli indigenti e i marginali.
Se Il passaggio della linea è nato come inchiesta sociale, La bocca del lupo è un lavoro su commissione a cui mi sono dedicato con lo stesso impegno e la medesima passione. Sono partito da una storia vera, quella di Enzo e Mary, che poi ho ricostruito in modo personale, servendomi del montaggio, della musica, del materiale di repertorio. Non possiamo parlare di "cinema della realtà", perché qualsiasi intervento altera inevitabilmente l'oggettività del reale.
Hai mai corso il rischio che Enzo e Mary si "prendessero" tutta la storia? Come si può guadagnare la giusta distanza, mantenendo il controllo della rappresentazione?
No, non è successo. La mia intenzione era quella di fare un film su una storia privata, quella di Enzo e Mary, inserendola nella grande storia di una città. Ho sempre subito il fascino di Genova, che conoscevo attraverso i racconti di mio padre che era marittimo e si imbarcava da Ponte dei Mille. Se non mi fosse stata offerta questa opportunità non mi sarebbe mai venuta l'idea di girare un film a Genova, al contrario avevo desiderato tante volte raccontare Napoli, il luogo della mia formazione. Con Napoli ci ho provato ma poi non avevo i mezzi per continuare e quando mi è capitata questa occasione l'ho colta al volo. Attraverso Genova potevo descrivere la nostalgia del Novecento, di cui la città è intrisa, città che era ben altra cosa a quel tempo, come lo erano d'altra parte le vite di Enzo e Mary. Ho raccontato il presente perché quello era il mio raggio d'azione, lasciando che fossero i filmati di repertorio dei cineamatori genovesi a rappresentare il passato. Dentro di me conservavo i ricordi riferitimi di una città di confine e di mare, di una città ideale, piena di colori, una città che ha fatto parte del triangolo industriale, che aveva un grande porto sempre pronto ad accogliere la gente, un po' come le onde del mare che raccolgono e trascinano a riva.
Hai pensato dopo quattro documentari di passare alla fiction? Girare documentari è una motivazione personale, artistica o produttiva?
Tutti mi dicono che racconto un sottoproletariato marginale, residuale, indubbiamente sono sempre stato sensibile al mondo dei vinti. C'è però una considerazione altra da fare: ad oggi ho girato documentari perchè è il mezzo più diretto e praticabile per me. Per fare cinema devi avere tanti soldi, il documentario al contrario ti permette di avvicinarti a un'idea di cinema, è una sorta di "attrezzo" del cinema. Da autodidatta ho imparato a fare tutto, c'è una tale moria di mezzi che necessariamente devi conoscere. Non ho scelto di essere documentarista, solo non potevo fare altrimenti, i mezzi erano quelli e mi sono adattato. Detto questo, devo dire che il valore di girare un documentario è immenso, è un'esperienza che ti forma perchè se ti capita l'imprevisto devi imparare a sbrigartela da solo, devi sapere gestire ogni emergenza. Io non amo troppo le distinzioni documentario-fiction, mi sento abbastanza eretico, non capisco neanche il significato di cinema del reale, si finisce sempre col modificare la realtà nel cinema. Adoro il cinema a passo uno, quello delle origini, ho amore per il cinema, ho il vizio del cinema e con il tempo è diventata anche una cura. Ho girato documentari perché mi hanno permesso di poter fare veramente qualcosa, di poter raccontare delle storie, mai nemmeno una volta ho pensato di aspettare l'occasione di girare un film di finzione. Certo, il digitale e la povertà dei mezzi ti costringe ad un lavoro faticoso, devi essere un perfezionista e devi migliorare e volgere al meglio lo svantaggio iniziale. Quello che poi importa veramente, almeno per me, è la forma cinematografica, che si tratti di documentari o di finzione. C'è sempre questa tendenza a etichettare le cose e io non credo molto nelle classificazioni, l'unica forma di cinema "del reale" e "dal vero" è in fondo il voyeurismo, tutto il resto è realtà che viene modificata.
Mi parli della genesi e della struttura della vostra casa di produzione? Di cosa si occupa e come lavora "L'Avventurosa Film"?
"L'Avventurosa Film" è nata con La bocca del lupo e grazie all'incontro/confronto creativo tra me e Dario Zonta, critico cinematografico da sempre attento alla scena del cinema documentario, sperimentale e fuori formato, comunque alle esperienze dell'altro cinema e pronto a mettersi in gioco in questa esperienza produttiva. Con "L'Avventurosa Film" (che ora è diventata una piccola "entità" produttiva capace di proporre progetti e autori al cospetto di produzioni consolidate) l'intenzione è di formare i giovani all'arte cinematografica, di creare una fucina, un atelier, una rete. La bocca del lupo è un film ultraindipendente, anche se sarà la Bim a distribuirlo, il mio documentario nasce in un modo inedito per l'Italia, e Il passaggio della linea ha avuto un percorso molto simile. Sono fortunato ad avere un'equipe di persone che sono parte viva e attiva di questa realizzazione, io non credo molto negli specialisti, chiaramente posso sbagliare, però per me quello che conta sono le idee, la tecnica alla fine la impari, forse quello che può venire a mancare all'inizio è l'esperienza. Un esempio emblematico è Sara Fgaier, è lei che ha montato La bocca del lupo, ed è sempre sua la ricerca dei materiali di repertorio, scovandoli nelle cantine e nei luoghi più disparati. Questa è la sua prima esperienza, ha solo ventisette anni e mi sembra un gran risultato.
Pensi che il cinema italiano off possa trovare un'alleanza preziosa nei festival nazionali o internazionali?
Non so cosa mi porteranno questi festival, non penso mai a queste cose, quello che conta per me è di essere impegnato all'interno di un progetto, la mia unica necessità è quella di raccontare qualche cosa, di poter fare, di continuare a fare. Ho in testa tante idee, penso spesso anche ai documentari didattici, sono quello che manca. Una volta in Italia si faceva una bella televisione, sul piccolo schermo vedevi passare i documentari, si faceva sociologia, didattica, storia. Credo che al cinema (come in televisione) non si è sperimentato abbastanza, cioè non si è dato spazio al cinema (e alla televisione) per essere anche altro, per questo sono molto critico con quello che produco. Non credo sia insicurezza, penso piuttosto sia un sano dubbio che mi permette di continuare, di perseverare, anche di avere speranza.