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La bocca del lupo: frammenti di un discorso amoroso

Intervista a Pietro Marcello, autore del documentario.
di Marzia Gandolfi

Pietro Marcello 1976, Caserta (Italia). Regista del film La bocca del lupo.
mercoledì 10 febbraio 2010 - Incontri

Da dove arriva l'assoluta libertà del tuo sguardo? Qual è stato il tuo percorso formativo?
Ho iniziato curando piccole rassegne di cinema all'interno di un posto allora occupato, il Damm (Diego Armando Maradona Montesanto): un vero laboratorio di vita, dove ho imparato a fare tutto e dove mi occupavo di tutto, dalla ludoteca ai lavori di falegnameria, dalla programmazione dei film in sala, all'attività sociale nel quartiere. L'arrivo del Damm nella mia vita ha segnato la decisione di lasciare l'Accademia di Belle Arti, mi mancavano pochi esami ma sentivo di voler impegnarmi in qualcosa di diverso. Tra l'altro non ero neppure così bravo nella pittura.
Si può dire che il mio primo approccio al cinema sia stato da cinefilo. Solo successivamente mi sono avvicinato al documentario girando piccoli film come Il cantiere, che ho montato con Maurizio Braucci, mio compagno d'avventura, nonché scrittore e sceneggiatore di Gomorra, un vero grande talento. Era la prima volta che prendevo in mano una videocamera e facevo un'esperienza di montaggio. Il cantiere vinse il premio Libero Bizzarri . Decisi di continuare facendo dei radiodocumentari per Radio Tre, fino a quando non ebbi l'occasione di incontrare i miei produttori, Nicola Giuliano e Francesca Cima dell'Indigo Film, che mi offrirono la possibilità di realizzare Il passaggio della linea, presentato a Venezia nel 2007 nella sezione Orizzonti. Il passaggio della linea è stato il mio primo "lungo". È un film di sessanta minuti, non credo nel modello anglosassone che impone durate standard, diversamente penso che un film debba durare per il suo valore reale e concreto. Al momento del montaggio procedo per sottrazione, magari non sempre ci riesco, ma è mia intenzione abitualmente ridurre all'osso il film. Per partecipare alla sezione Orizzonti fui costretto ad allungare il mio documentario di qualche minuto e ancora oggi ci soffro.

Rimanendo in campo letterario, mi dicevi della tua passione per Georges Simenon, di cui citi un periodo nell'introduzione del documentario Il passaggio della linea. In molti suoi romanzi lo scrittore belga tratta il tema della libertà in opposizione alla vita e alla morale piccolo-borghese. Molti dei suoi personaggi a un certo punto della loro esistenza "deviano", rompendo improvvisamente con il passato e con un ambiente, alla ricerca dolorosa della libertà e dell'identità. I tuoi film sono in qualche modo racconti di "devianze", è sbagliato allora pensare che le sue pagine possono aver ispirato o anche solo suggestionato le tue immagini, le tue storie?
Amo molto Simenon, amo la forma cinematografica dei suoi romanzi. Per quanto riguarda, invece, la citazione del suo passo, l'ho scelta perché mi sembrava emblematica e in un certo senso funzionale al mio racconto. Il passaggio della linea è un ritratto del Paese visto dal finestrino di un treno espresso, un viaggio che va dalla notte al giorno, dal sud al nord della penisola. Ma il film racconta anche la storia di Arturo che dei treni espressi aveva fatto la propria dimora. Il passaggio della linea per lui è quel punto dell'esistenza in cui tutto cambia e da cui non si può tornare indietro.
La sua vicenda è in questo senso esemplare, nel '54 Arturo era tra i più ricchi cittadini di Bolzano, aveva alle spalle un grande bagaglio di vita, era stato addirittura prigioniero in Germania recluso insieme a Giovannino Guareschi. Era un uomo dal grande senso civico che dopo tante peripezie - il carcere, i processi, lo sciopero della fame - aveva deciso di vivere sui treni, una scelta forse estrema, lo spogliarsi di tutto per abbracciare una libertà assoluta. Quello è stato il suo passaggio della linea, la scelta di una vita diversa.
Quanto invece alla storia di Enzo e Mary, protagonisti de La Bocca del lupo, non parlerei di "devianza", piuttosto di "diversità". Mary è cresciuta in una famiglia della Roma bene, ha ricevuto un'educazione borghese e ha vissuto un'infanzia felice fino a quando ha scoperto la propria sessualità ed è stata costretta, per esprimerla pienamente, a fuggire a Genova poco più che maggiorenne. È lì che si sono formate già negli anni Sessanta le prime comunità di transessuali. Mary ha provato a costruirsi una vita nella diversità. Altra cosa è stata la vita e la storia di Enzo, arrivato a Genova a soli due anni, figlio di un contrabbandiere, cresciuto nei vicoli, per metà della sua vita in prigione sempre per lo stesso motivo, conflitti a fuoco con la polizia. Ha passato gran parte della sua vita in una cella angusta e per questo ha sviluppato un grande controllo sul suo corpo: se chiedi ad Enzo di restare fermo, di non muoversi per molti minuti, lui lo fa senza battere ciglio.
In prigione Enzo e Mary si sono incontrati, le loro esistenze difficili e dolorose si sono riconosciute, sostenute, amate. A Torino mi è capitato che alcuni giornalisti mi chiedessero un pensiero o una riflessione riguardo al caso Marrazzo, ma il mio documentario c'entra poco con questo, con la sessualità. Girando La bocca del lupo non ho mai pensato di raccontare una storia con tematiche di quel tipo, quello che davvero mi interessava dei personaggi e quello che i gesuiti sono stati capaci di vedere nel mio film è l'amore che esiste tra Enzo e Mary, un sentimento profondo che li riscatta da un passato fatto di solitudine e sofferenza. È nella diversità che nasce l'amore, questo sembrano dirci Enzo e Mary, due persone che si sono aiutate reciprocamente, proteggendosi dalle malvagità della vita.

La bocca del lupo è il titolo del romanzo ottocentesco di Remigio Zena. Ti sei ispirato ai suoi poveri e ai suoi diseredati e a quella che Montale chiamava la sua "pietà superiore e nascostamente sorridente"?
Il titolo vuole essere un omaggio a quel romanziere genovese che nell'Ottocento seppe raccontare in forma verista la città ed in particolar modo la vita quotidiana nella zona di Prè.
Io sono approdato a Genova senza conoscerla e l'impatto con la città è stato decisamente difficile, perché intorno a me non riuscivo a individuare un tessuto sociale. Nella mia città, Napoli, il tessuto sociale è più riconoscibile. Al mio arrivo a Genova ricordo di essermi sentito disorientato. Dal dopoguerra in poi l'area dell'angiporto è molto cambiata, nel corso degli anni alla presenza degli emigrati del sud si è sostituita, poi sovrapposta, quella degli extracomunitari. Il tessuto sociale ne risulta estremamente frammentato.


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Foto di Beatrice Buzi.
Foto di Beatrice Buzi.
Foto di Jan Mozetic.

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