Suso Cecchi d'Amico (Giovanna). Data di nascita 21 luglio 1914 a Roma (Italia) ed è morto il 31 luglio 2010 all'età di 96 anni a Roma (Italia).
Figlia dello scrittore Emilio Cecchi e moglie del critico musicale Fedele D'Amico, dopo avere lavorato come traduttrice e giornalista, esordi nel cinema come sceneggiatrice in Mio figlio professore, diretto nel 1946 da Renato Castellani. Da allora, lasciate le precedenti attività, si è occupata esclusivamente di cinema, collaborando con i più validi registi italiani alla realizzazione di quasi tutti i migliori film del dopoguerra e rivelandosi una delle sceneggiatrici più capaci e più preparate del cinema italiano. Infatti, oltre che a Luigi Zampa, con il quale intrattenne un fruttuoso rapporto di lavoro dal 1947 al 1952, ha prestato la sua opera a Renato Castellani, Vittorio De Sica, Alessandro Blasetti e soprattutto a Luchino Visconti, che ha seguito in tutti i suoi film, a partire da Bellissima, che fu girato nel 1957.
Per Suso Cecchi D'Amico esiste una stretta e irrinunciabile correlazione fra i film e la vita. Introducendoci nel suo storico "salotto di lavoro" di via Paisiello, la sceneggiatrice esordisce indicando i posti di ciascuno quando scrivono insieme i copioni: qui siede Mario Monicelli, lì Furio Scarpelli, su quella sedia Age; ed ecco le postazioni fisse di Piero De Bernardi, del compianto Leo Benvenuti e, cambiando quadro e squadra, di Luchino Visconti. Quanto alla padrona di casa, se ne è sempre stata accoccolata sul divano con la fedele Olivetti sulle ginocchia: perché in fin dei conti, dopo tanti discorsi e proposte, ci vuole pur qualcuno che metta il tutto sulla carta. E quel qualcuno, da oltre mezzo secolo è puntualmente Suso. Per lei affermare di essere "solo un artigiano" non è falsa modestia: ha cominciato a scrivere il cinema sulla scia di suo padre, il letterato Emilio Cecchi, quando gli intellettuali lo disdegnavano; e lo considera pragmaticamente un mestiere, ma anche un gran divertimento. Nel rievocare i principali compagni di viaggio (Ennio Flaiano, il musicista Nino Rota e anche gli "attori meno attori" come la Magnani, Mastroianni o Burt Lancaster) l'affetto non vela mai i giudizi netti e limpidi di questa intervistata quasi monologante. Infatti Monteleone, che ha realizzato un bellissimo cammeo con il solo difetto di una fotografia troppo cruda, si è escluso dalla scena. Mentre è un critico avvolgente e preparatissimo, Valerio Caprara, a stimolare Dino Risi in un altro video della stessa serie, Maestro per caso, girato dal figlio Marco. Stavolta l'ambiente è un cinema vuoto, dove l'autore de Il sorpasso dopo aver invano tentato di sottrarsi finisce per ripercorrere anche lui l'intero arco della sua carriera. Affiorano nel discorso, riferiti con una freschezza di prima mano, film, situazioni, amori e grandi personaggi tra i quali Gassman, Sordi, Tognazzi e altri. Da questi filmati a futura memoria emerge felicemente un aspetto comune, quello di vite spese in un lavoro che è stato (e continua a essere, nonostante l'età) un'autentica passione.
Da La Stampa, 22 Novembre 2001
«Dipendesse da me, abolirei tutti i festiva!, anche quello di Venezia. Per far rinascere il cinema italiano, in un momento così poco interessante e così poco creativo, l’ideale sarebbe azzerare tutto. Niente finanziamenti statali, nessun aiuto obbligato, nessuna concessione da parte dei sistema politico, comunale o governativo che sia. È l’unica strada percorribile per dare la possibilità a chi davvero ha delle buone idee e dei buoni progetti di vederli realizzati. Vedi, il cinema è una cosa delicata, preziosa, di una certa rarità. Questo diluvio di opere diventa noioso, ripetitivo, privo di senso. C’è troppo cinema. Decine di autori e dì registi ottengono dal ministero l’aiutino, parola orribile che penò dà il senso della miseria generale, a prescindere dalla qualità. Frai registi di oggi penso che il migliore sia Nanni Moretti, i unico che ancora mi incuriosisce un po’. E lui, non ha cominciato con un super8? Eppure, anche se la pellicola era quella che era, si capì subito che aveva il talento e usava il linguaggio giusto».
Tardo pomeriggio, in via Paisiello, al confine fra i Parioli e il quartiere che affaccia su villa Borghese, nell’appartamento romano di Suso Cecchi D’Amico. Una casa che è già nella leggenda: sono stati scritti qui quasi tutti i capolavori del cinema italiano. Al tavolo, «che poi diventava di cena, e poi ancona di lavoro, senza che quasi ce ne accorgessimo», ciascuno dei grandi aveva un suo posto: Ennio Flaiano, Luchino Visconti, Luigi Zampa, Alessandro Blasetti, Michelangelo Antonioni, Francesco Rosi, Luigi Comencini, Roberto Rossellini, Renato Castellani, Cesare Zavattini, Nino Rota, Mario Monicelli, Age e Scarpelli, Vittorio De Sica. Lei, l’unica donna, autrice e sceneggiatrice, protagonista e testimone di un’epoca, con grande discrezione prova a ridimensionare il suo ruolo: «Sapevo battere a macchina con dieci dita, avevo studiato e lavorato come segretaria e interprete, conoscevo le lingue. Ero utile a mettere ordine nelle idee volanti dei miei amici». Quando ha compiuto i novanta, lei che non ama proprio le celebrazioni, è stata definita la madre di tutto il cinema italiano: «Forse perché offrivo tè e biscotti Gentilini, c’era aria di casa, erano tutti simpaticissimi. Siamo peggiorati con gli anni, ma eravamo davvero un bel gruppo. Sono proprio contenta di averli avuti tutti qui».
Lo dice guardandosi attorno, come a voler dialogare ancora con le ombre immortali che hanno abitato questo luogo. Suso è ancora bellissima. Abbronzata, è appena rientrata dalla villeggiatura a Castiglioncello. Elegante, tutta in nero, traffica con il telefono, scrive, commenta con allegria il rincorrersi dei cani. Sul telefonino della figlia Silvia, luccicano le immagini dei suoi bagni settembrini. E luccicano i suoi occhi, illuminati dai due fili di perle che fanno parte di lei. Si stupisce che io sia arrivata fin quassù per parlare di politica. «A casa mia, non se ne parlava mai: i miei genitori erano persone libere da ogni condizionamento. Cento, c’era il regime fascista. Fino al 1938, penò, c’erano anche spazi di libertà. Noi ragazze, io e mia sorella, studiammo all’estero: prima in Svizzera, poi a Cambridge. Tornai con una gran voglia d’indipendenza e mi cercai un lavoro: lo trovai al ministero delle Corporazioni, non ero neanche maggiorenne. Mussolini non era un incompetente come molti pensano oggi e nei posti chiave aveva messo dei tecnici, non dei fascisti. Tecnici, e per di più incorruttibili. Tutti controllati, spiati, intercettati. Da allora, sono diventata molto riservata. Una volta, Mussolini si sedette di traverso sulla mia scrivania e si mise in posa... Era galante, ma mi parve che portasse il busto e mi sembrò ridicolo. Fu allora, tra questi esperti di economia e finanza, che conobbi Enrico Cuccia, di poco più grande di me. Parlavamo di libri, di cinema, andavamo alla birreria Dreher, non faceva sport e non alzava mai la voce. Ho ancora una sua foto nel comodino, molto bellino, col ciuffo biondo: andò in missione in Etiopia e mi portò due volumi con l’ex libris del Negus. Siamo rimasti in contatto sempre. Gli incontri e le amicizie un tempo erano importanti, oggi tutti incontrano tutti. Tra noi, bastava mezza parola: un grande amico».
Suso sposa Fedele, Lele, D’Amico nel 1938: «Mio marito era intensamente impegnato in politica. Con Adriano Ossicini e Franco Rodano erano i fondatori del gruppo dei cattolici-comunisti. Da allora la direzione di sinistra, per me, è stata naturale. Come la fede e la frequentazione della chiesa, senza esagerazioni. Gli anni della guerra e dell’occupazione nazista sono stati difficili, ma fu un’esperienza di solidarietà meravigliosa. Mio suocero, Silvio, fu arrestato praticamente senza motivo, insieme ad altri intellettuali. Io avevo i miei primi figli piccolissimi, Masolino e Silvia, cercavo di prendere le difficoltà con allegria. Non avevamo niente, neanche l’acqua, e così imponevo a tutti quelli che salivano a casa nostra, al settimo piano senza ascensore di via Cantore 17 – la casa del giornalista Paolo Milano, costretto a fuggire perché ebreo, ci aveva lasciato l’appartamento perché glielo custodissimo – di portare un fiasco pieno d’acqua. Noi donne aiutavamo i nostri mariti, padri e zii, che si nascondevano dai nazisti, davamo una mano con cibi e giornali, messaggi e informazioni utili per la Resistenza, eravamo giovani e incoscienti».
Nel dopoguerra, tutto il mondo del cinema italiano sembra schierarsi, compatto, con la sinistra. «Mah, andiamoci piano» suggerisce, «io ho conosciuto due veri comunisti soltanto: Visconti e Zampa. Visconti ha sposato cause e idee che non gli venivano dal cuore, ma dalla ragione. Come se dovesse per forza aderire a un mondo che non gli somigliava per eseguire un dovere. Si faceva guidare da Antonello Trombadori, uno che si sapeva imporre. Gli altri? Direi che per più di trent’anni è stato molto elegante essere di sinistra. Nessuno avrebbe mai detto che non lo era, lasciavano che si pensasse, erano sempre possibilisti. Si parla di egemonia culturale del Pci, ma noi scrivevamo delle storie rubate alla strada, alla cronaca, l’unico politico che abbiamo frequentato era proprio Antonello. Non ci sentivamo né delle vittime, dei perseguitati dalla censura – che pure c’era, eccome – né dei politicanti. Certo, anche nelle commedie c’era un’idea della morale, un senso della giustizia, ci sentivamo dalla parte della ragione. A un certo punto, arrivò il cinema di denuncia vero e proprio, ma io continuo a pensare che anche Ladri di biciclette avesse una sua amarezza in qualche modo molto politica».
Suso Cecchi scatta come una tigre quando è il momento di difendere Franco Zeffrelli dagli attacchi che gli arrivano dai colleghi di sinistra, alla fine degli anni Settanta: «Franco voleva forse liberarsi dall’eredità di Luchino Visconti e magari ha esagerato. Ma andava difeso, è un grande regista». I soli politici che ha conosciuto e frequentato, i sindaci Rutelli e Veltroni, racconta sorridendo, «ricordano certamente le mie lettere furibonde per il degrado della mia villa Borghese. A proposito di villa Borghese, lo sai che una mattina, molto presto, vi incontrai Enrico Berlinguer? Era solo. Ci trovammo a fare una lunghissima passeggiata e una gran chiacchierata. Avevo un’istintiva simpatia per lui. Berlusconi invece l’ho conosciuto come produttore e non avrei mai immaginato che gli italiani gli avrebbero dato tanta fiducia e tanto consenso. Ci siamo poi frequentati poco, visti a qualche festa da Zeffirelli e in altre occasioni ufficiali». È sera. Suso esce per andare al cinema con la figlia Silvia, come sempre. «Sai, mamma e papà non hanno mai visto, anzi mai acceso, la tv» spiega e sorride. «Pensavano fosse come il veleno.»
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006