In tandem con Puccini lavora Nanni Loy negli anni Cinquanta, dopo un apprendistato di aiuto regia di alcuni anni con Luigi Zampa. La personalità di Loy non ha una facile caratterizzazione: potrebbe entrare di diritto nel gruppo degli autori della commedia all'italiana, ma ne esce presto con opere di maggiore impegno drammatico. La sua opera - soprattutto all'inizio - appare come una continua e faticosa ricerca di identità: dopo la co-regia con Puccini di Parola di ladro e del Marito parte da un tentativo di riproduzione dei Soliti ignoti di Monicelli (L'audace colpo dei soliti ignoti per poi misurare le proprie capacità su temi di maggior respiro. Un giorno da Ieoni (1961), per quanto metta in scena un racconto resistenziale, risente del peso di un modello cinematografico di poco anteriore (II ponte sul fiume Kway di David Lean), mentre Le quattro giornate di Napoli è l'occasione per compiere un netto salto di qualità. E per capire i propri limiti e le proprie caratteristiche più efficaci.
Il racconto epico sta forse un po' largo di spalle al regista, che tuttavia ha modo di far vedere come il suo stile - ancora in formazione - abbia saputo attingere a molte lezioni. Loy guarda i suoi personaggi con la stessa curiosità di Comencini, sa passare con grande disinvoltura dai registri del comico a quelli fortemente drammatici, ha un forte senso del racconto e del ritmo (sembra averlo appreso più da Germi che da Zampa), è discreto e affettuoso nei confronti dei personaggi (ha l'intelligenza e la sensibilità di Pietrangeli per i personaggi femminili) e in pari tempo distaccato. Una buona misura ed equilibrio tra le sue doti sono raggiunti nel Padre di famiglia del 1967, in cui risulta assai coinvolto in prima persona, dopo un'esperienza televisiva di successo con la trasmissione Specchio segreto.
Loy però è soprattutto un regista che ama osservare gli altri, che descrive il dibattersi di personaggi comuni nelle ragnatele burocratiche, giudiziarie, esistenziali, come nella normale routine quotidiana, tentando di far sentire il senso della propria protesta civile con un tono di voce moderato, ma con pugno fermo.
Tra le sue qualità migliori quella di mantenere nelle sue storie il gusto per l'accadimento imprevisto, lo stupore e l'ammirazione sia per la creatività italiana del vivere giorno per giorno che per la stupidità burocratico-istituzionale che assume proporzioni iperboliche. I suoi film mantengono l'imprinting stilistico morale del cinema di Zampa, con cui Loy ha fatto l'apprendistato e come insieme aiutano a ricostruire il ritratto antieroico del viaggio dell'italiano medio lungo la storia di quest'ultimo cinquantennio. Il tempo lavora a favore dei film di questo regista, accentua il retrogusto amaro delle sue commedie, ma anche il tipo di coinvolgimento e di partecipazione affettive alle avventure picaresche dei suoi personaggi. Se da Zampa ha ereditato la vena di scetticismo, da Eduardo De Filippo il senso di una tradizione profonda, il desiderio di cogliere al di là del gioco delle maschere e degli stereotipi, dei meccanismi della commedia, il senso della perdita dello spirito della napoletanità, del degrado inesorabile dell'anima napoletana. È questo il Leitmotiv che emerge progressivamente dai suoi tre film più significativi degli anni Ottanta, Café Express (in cui Manfredi raggiunge uno dei vertici della sua carriera interpretativa), Mi manda Picone e Scugnizzi.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007