Emeric Pressburger. Data di nascita 5 dicembre 1902 a Miskolc (Ungheria) ed è morto il 5 febbraio 1988 all'età di 85 anni a Saxstead (Gran Bretagna).
Sempre su Rai Due, sempre di domenica mattina, sempre per cura di Nedo Ivaldi, si è svolta in questi mesi la rassegna retrospettiva intitolata «Siamo inglesi: il cinema di Powell & Pressburger». Tredici film con alcuni grossi vuoti (per esempio Ai confini del mondo del 1937 e L'occhio che uccide del 1960, entrambi del solo Powell; oppure Duello a Berlino del 1943 e Scala al paradiso del 1946, firmati dalla coppia), ma in compenso con ben sei inediti appositamente doppiati dalla Rai (Vessillo rosso del 1934, La luce fantasma del 1935, Sono strana gente del '66, dovuti al solo Powell, l'ultimo girato in Australia con Walter Chiari; inoltre Un racconto di Canterbury del 1944, Io so dove vado del 1945 e I ragazzi del retrobottega del 1949, firmati da entrambi); Nel complesso una festa cinematografica che speriamo non abbiate perduto.
Scoprimmo Michael Powell e Emeric Pressburger in Cecoslovacchia attraverso A Matter of Life and Death («Una faccenda di vita e di morte») che poi fu ribattezzato sugli schermi italiani Scala al paradiso (appunto uno dei titoli mancanti nel ciclo televisivo). Era il festival di Marienbad del 1947, quello che diede in prima europea Monsieur Verdoux. L'opera di Chaplin oscurò in effetti tutte le altre, ma il film inglese si fece egualmente notare se non altro per la difficoltà di classificarlo: dramma o commedia, di costume o in costume, una sgangherata bizzarria o una meditazione filosofica? Un pilota ferito rivive in soggettiva l'operazione che lo salva, mentre egli crede di trovarsi nell'aldilà, di fronte a un tribunale celeste. Nella fotografia la realtà era rappresentata a colori, e l'immaginazione in bianco e nero; e anche questa scelta parve originale. Indubbiamente i due soci, l'inglese Powell e l'ungherese Pressburger, avevano le loro idee e le manifestavano con un piacevole disprezzo delle convenzioni.
Ed era stato proprio tale atteggiamento, in qualche misura iconoclastico, a indispettire Winston Churchill davanti ai loro film di «propaganda» britannica che si risolvevano troppo spesso in un ribaltamento dei ruoli: il nemico tedesco faceva talvolta miglior figura dell'eroe di casa. Così La spia in nero (1939), così 49° parallelo o Gli invasori (1941), così Duello a Berlino che in originale si chiamava, ancora, The Life and Death of Colonel Blimp. Tanto più che questo colonnello Blimp era tratto dalle vignette satiriche di David Low, popolarissime negli anni Trenta e non eccessivamente entusiaste della casta militare. E sì che i due cineasti avevano fatto di tutto per migliorarlo: stupido sì, ma dal cuor d'oro, un sentimentale con gli animali, i domestici e l'amico e collega prussiano.
Scrive il regista e critico Bertrand Tavernier, che di Blimp è un grande ammiratore: «Durante la sua lunga vita Clive Candy, un ufficiale inglese, attraversa tre guerre, perde i suoi due amori, uno per distrazione e l'altro per un tiro del destino, vede il suo miglior amico, un ufficiale tedesco che risponde allo splendido nome di Theo Kretschmar-Schuldorff diventare da un giorno all'altro un nemico mortale, e si appresta a terminare la sua esistenza senza aver mai capito niente di quello che è accaduto intorno a lui. Questo è l'elemento più originale di quel film sbalorditivo che è Duello a Berlino. Originale a confronto dei nove decimi della produzione corrente, la cui struttura narrativa si appoggia sempre sulla nozione di cambiamento, di evoluzione [...]. In Blimp, invece, il vecchio che, alla fine, guarda una foglia galleggiare sull'acqua è praticamente identico al giovane uomo che, quarant'anni prima, ha provocato un enorme incidente diplomatico a Berlino. In realtà, Powell e Pressburger in due ore e quaranta ci raccontano la storia di un uomo che non capisce niente ed è impermeabile a tutti i cambiamenti che sconvolgono il mondo intorno a lui: il significato sociale e politico delle guerre, l'introduzione di nuovi metodi, l'ascesa del nazismo. Quando ritrova il suo vecchio amico tedesco in un campo di prigionia inglese, si precipita verso di lui come se nulla fosse successo e non riesce a capire il suo imbarazzo e la sua reticenza».
Di qui le ire di Winston Churchill che tentò d'impedire prima la lavorazione, e poi la proiezione del film. Si era nel 1943, in piena guerra antinazista! L'uscita avvenne in una copia abbondantemente sforbiciata e ridotta a circa due ore: la stessa che poi circolò, col titolo Duello a Berlino, anche in Italia. Blimp, ch'era uno dei preferiti dagli autori, non era dunque compreso nella rassegna televisiva perché - spiega Nedo Ivaldi - «la Rai ha ancora in corso l'acquisizione dei diritti di programmazione dell'opera completa che verrà proposta, probabilmente, in edizione originate sottotitolata». Va da sé che, se l'occasione si presenterà; nessuno di noi vorrà mancarla.
Ci fu un tempo lontano, gli anni Quaranta appunto, in cui il cinema inglese era sinonimo di storie quotidiane onestamente narrate, ma imperdonabilmente noiose. Michael Powell, nato in quel di Canterbury («tutti conoscono Canterbury, fosse solo per il motivo che ci ammazzano gli arcivescovi»), era inglese e orgoglioso di esserlo, ma faceva di tutto per non sembrarlo. Si comportava come un arciere da favola, come una specie di Robin Hood delle fantasie infantili, per trafiggere quell'aura di rispettabilità che impregnava lo schermo britannico e volgerla in un delirio di immagini a colori, in una sorta di sabba dell'immaginazione e della trasgressione. Un monello deliziosamente frivolo e anarchico in un soffocante mondo piccolo-borghese. Gli dava una mano, talvolta sottobanco, Sir Alexander Korda, il produttore che da giovane aveva lavorato nella Budapest del '19 per la Repubblica dei consigli operai. E un altro ungherese immigrato, Emeric Pressburger, divenne per lungo e felice periodo il suo associato e complice nell'impresa che infatti si chiamò The Archers (gli Arcieri), e non poteva che chiamarsi così. Da questo strettissimo sodalizio nacquero i film «scritti, prodotti e diretti da P. & P.». che nell'immediato dopoguerra rivoluzionarono il colore, il musical, ma soprattutto il concetto di cinema medio prediletto dai sudditi di sua maestà.
La loro casa di produzione, fondata a Londra nel 1942 e durata con invidiabile indipendenza fino al 1956 (lo stesso periodo coperto dalla trilogia scespiriana di Laurence Olivier), aveva quale simbolo la freccia che centrava il bersaglio, come accadeva sempre a Robin Hood. Scrissero, produssero e diressero insieme una dozzina di film, alcuni dei quali passati alla storia del cinema o almeno alla storia del colore e della fantasia, della musica e del balletto nel cinema. Fu una coppia celebre. La formula written, produced and directed by P. & P. venne rigorosamente applicata in quegli anni di guerra e di dopoguerra. Korda li aveva messi in contatto nel 1939 per La spia in nero, e Powell fu subito entusiasta del modo in cui Pressburger rovesciò come un guanto la sceneggiatura scritta da un altro, e che non lo convinceva. Forse il primo P. diresse e produsse più del secondo, e il secondo P. scrisse più del primo. Ma non è il caso, ora che anche Powell (mancato il 20 febbraio 1990 a 84 anni) ha raggiunto l'amico Pressburger nella tomba, di stare a sottilizzare sui meriti o demeriti di ciascuno, bastando ricordare che si sono molto divertiti insieme, facendo (ciò che più importa) divertire anche noi.
Del resto era stato proprio quel galantuomo di Powell a mettere le mani avanti. «Credo che ormai sia chiaro a tutti quanto fui nel giusto, al momento della costituzione degli Archers, nel voler dividere tutto a metà con Emeric, le attribuzioni. i compensi, la sorte. Nessuno lo capi a quel tempo, e nessuno lo capisce adesso. ,Avresti potuto scrivere il tuo nome da solo", dicono. "Dopo che avevi prodotto e diretto 49th Parallel, con tutti quegli attori famosi, eri all'apice della professione". Verissimo, ma chi ha vinto l'Oscar per (49th Parallel?) Emeric, per il soggetto originale. Poi, sono trascorsi cinque anni di guerra: cinque anni di battaglie e decisioni, sette film, tutti da storie e sceneggiature originali. Come mi sarei sentito nel 1946, alla fine della guerra, se nei credits di Black Narcissus avessi letto: "Prodotto e diretto da Michael Powell" e, separato, "Sceneggiatura di Emeric Pressburger"? Sarebbe stata una valutazione giusta dei nostri rispettivi contributi? Naturalmente no. Io posso essere sembrato il partner dominante, ma dove sarei senza l'inventiva, la saggezza e la moderazione di Emeric?».
Michael Powell, indubbiamente la testa forte del duo (se non altro come regista e come tecnico), aveva già avuto esperienze ribalde in passato. Nella seconda metà degli anni Venti, a Nizza, si era messo con l'irlandese Rex Ingram, che aveva sì lanciato Rodolfo Valentino, ma poi era stato cacciato da Hollywood prima del suo amico ed estimatore Stroheim; e ora, tra la Costa Azzurra e il Marocco, si andava sempre più trasformando in favolista islamico. Cosa, per la verità, che non mancò di influenzare l'allievo inglese.
Anche nel decennio successivo, dominato in patria dal documentarismo alla Grierson, Powell aveva trovato il modo di distinguersi. Ai confini del mondo, infatti, era piuttosto un'evocazione dei miti celtici che un reportage alla Flaherty sulle condizioni di vita dei pescatori scozzesi. Non era, insomma, un altro Uomo di Aran, anche se così vollero credere gli illustri documentaristi di scuola realista. Il fatto è che in Powell (come in Pressburger) il realismo si muta sempre in visionarietà come per magia. Il film era così caro all'autore, che ancora nel 1978 egli lo riproponeva in televisione con un prologo e un epilogo dedicati ai superstiti di quella troupe.
Il dopoguerra, accanto ai problemi della ricostruzione, alle tessere annonarie e poi al tramonto dell'impero, portò in Gran Bretagna un cinema generalmente grigio, razionato e, come s'è detto, piccolo-borghese. E fu in tale atmosfera che i due P. esplosero invece in cinema d'evasione, fantastico, cromatico e musicale. Non ci fu nemmeno bisogno di recarsi in Nepal, tanto l'evasione era sentita. Il convento di Narciso nero (1947) è ricostruito in studio, ma si respira perfettamente quell'aria di montagna densa di perversa malia: colori tenui e dolcissimi scandiscono il crescere della sensualità repressa, che le povere suore non riescono più a contenere. Poi venne il momento della sperimentazione a tutto campo: Scarpette rosse (1948), il film più famoso della ditta, e più tardi I racconti di Hoffmann (1951). Melodramma e balletto, colori sgargianti e sanguigni e favola satanica, espressionismo, surrealismo e barocco, entusiasmo per l'arte e gusto per la maledizione, per l'incubo. Un insieme ossessivo, mescolato e stravolto in spettacolo anche un po' forzato, ma di costante suggestione, che esaurì in pratica le ricerche cinematografiche e coloristiche e i successi della coppia.
L'aspetto di incubo visionario e sempre presente nei due musical, e lo era anche nel film noir girato tra l'uno e l'altro: The Small Back Room (1949), letteralmente «La stanzetta sul retro», ribattezzato in televisione I ragazzi del retrobottega. Il protagonista è un artificiere invalido, che deve disinnescare una nuova bomba tedesca. In più è anche alcolizzato, e in un suo sogno si scontra con una gigantesca bottiglia di whisky. La sequenza della bomba sembrava a Basil Wright, capofila del documentarismo e storico del cinema, angosciosa e spaventosa come quella che opponeva l'addestramento di due soldati in Kill or Be Killed (Uccidere o essere uccisi, 1943) del geniale Len Lye. Ma questa volta il film non piacque neppure al pubblico; non si parla della critica che fu quasi sempre ostile al cinema di P. & P. Il pubblico, inglese e internazionale, amò moltissimo Scala al paradiso, Narciso nero e specialmente Scarpette rosse, uno dei film di maggior successo in tutto il mondo. Ma la critica, britannica e no, ironizzava sugli aspetti kitsch, su certo infantilismo nostalgico, sul romanticismo datato, senza accorgersi della ventata di rinnovamento che quella «follia» tecnico-artistica portava, del sano «disordine» che quelle inquadrature magiche, stupefatte e anche strampalate immettevano nell'asfittico e prosastico ordine di una malintesa «tradizione». Era, da parte dell'ineffabile duo, lo stesso intrattenibile stimolo che in tempo di guerra li aveva condotti alla satira antimilitare di Duello a Berlino, che molti anni dopo il francese Tavernier definirà «la sola opera britannica paragonabile a La grande illusione».
Il film più autobiografico e personale di Michael Powell non reca tuttavia il nome di Pressburger ma, per la sceneggiatura, quello di Leo Marks. Probabilmente L'occhio che uccide è il suo capolavoro. Fu comunque quello che trovò la critica inglese unanime nella stroncatura e che rinnovò lo scandalo sul suo nome, facendone un cineasta troppo sulfureo per poter essere accettato dall'establishment. Powell non ebbe vita facile dopo questo film, che invece fu accolto in Europa come un cult-movie, e che ancor più lo divenne quando se ne accorsero in America, quindici anni dopo, registi come Scorsese, Coppola e De Palma, i quali lo studiarono, sezionarono e anche copiarono. L'occhio che uccide, bel titolo italiano (una volta tanto) per il più semplice originale Peeping Tom, che significa «Il guardone», vertice del cinema voyeuristico dell'autore.
In apparenza può sembrare un thriller dell'orrore alla De Palma, con il fotografo-voyeur che spoglia le donne sotto l'obbiettivo e le infilza con la lama nascosta nel treppiede della cinepresa. Ma in realtà il caso clinico si allarga a metafora della visione, appunto, e a una spietata autocritica del cinema e delle sue ossessioni e illusioni.
Il protagonista non è l'omicida per trauma infantile e complesso di Edipo, bensì l'occhio della macchina-film che pretende di eternare la vita nella morte. Lo psicopatico uccide con la sua cinepresa armata per registrare l'agonia della vittima. Questo di fermare la vita e di guardare in faccia la morte è il potere del cinema e la sua perversione.
E film è a colori, ma il flash-back sull'infanzia dell'assassino, terrorizzato dal padre psicologo che per spiare le sue paure gli metteva scorpioni nel letto, è in bianco e nero. Il bambino è il vero figlio di Powell, e chi è il padre se non lo stesso Powell, che in gioventù aveva ambizioni di attore? Il figlio grande e folle è una sua creatura, il film-maker che carpisce a tradimento, e attraverso il delitto, le immagini di una nuova realtà, quella creata dal cinema, che per il cineasta è appunto superiore alla realtà dell'esistenza. Questa teoria incanta oggi più che mai, soprattutto i giovani strutturalisti e i giovani e furbi cineasti post-hollywoodiani. In ogni caso, dopo «l'occhio» di Dziga Vertov, dopo quelli di Gance, Buñuel e Orson Welles, anche l'occhio maledetto di Michael Powell ha meritato il suo posto nella storia del cinema. E un'ultima cosa va aggiunta. Ancora una volta l'assassinio come una delle belle arti, secondo una vecchia tradizione inglese, si riaffacciava nel cinema: Powell, che per diritto di nascita era pratico di assassinii nelle cattedrali, era il nuovo Thomas De Quincey. Ma questa volta proprio gli inglesi ne furono enormemente scandalizzati.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006