Non era, come lo potrebbe far supporre il cognome, uno di quei «francesi medi», di mezza età e di media condizione, un po’ calvi, ventruti, con il nastrino della Legion d’Onore all’occhiello, quali li rappresentano, berteggiandoli, i giornali umoristici; ma un regista tedesco, autore di almeno due capolavori, che è morto a Hollywood, ormai oscuro, nella prima quindicina del dicembre 1956, in età ancora non grave.
Chi ami il cinema, e non sia troppo giovane, non può ignorare che Variété di Dupont è, come si dice, una pietra miliare dell’arte del film, e probabilmente l’opera più compiuta che ci abbia offerto la cinematografia tedesca degli anni prima di Hitler, quando, per una quantità di buone ragioni, un gruppo di registi geniali, Murnau, Wiene, Pabst, Lang, offrì al mondo una dozzina di pellicole che non assomigliavano a nessun’altra e che la gente ricordava a lungo, affascinata e un tantino impaurita. Del gruppo, Dupont, forse perché israelita, era il meno tedesco, cioè il meno legato alla tematica esasperata dell’espressionismo. Le sue storie non erano popolate da incubi come Metro polis di Lang Il dottor Caligari di Wiene, o il Faust di Murnau. Come suoi grandi colleghi Lang e Murnau, Dupont fu indotto espatriare dalla potenza finanziaria della produzione hollywoodiana, ghiotta a quegli anni, che sono pure gli anni d Greta Garbo e di Stroheim, di tutto ciò che sapesse d’Europa; il dissennato razzismo nazista perfezionò una condizione di profugo che Dupont non aveva affatto desiderata Dopo aver mostrato la prepotente originalità del suo ingegno con Aurora, con Nostro pane quotidiano e con Tabù Murnau perì in un incidente d’automobile; Dupont ebbe un felice periodo inglese nei primi anni del sonoro; Pabs lavorò in Francia con fortuna; Lang è ancora oggi sulla breccia. Dupont a Hollywood non ebbe che incarichi modesti, appena qualcosa per sopravvivere sinché un morbo brutale ha fatto tornare, per l’ultima volta, il suo nome su giornali.
Con la parola «espressionismo» i critici d’arte e gli storici della cultura sogliono definire quel movimento che nacque in Germania, agli inizi del Novecento, come reazione al verismo e all’impressionismo di scuola francese. Fedele al genio della stirpe, l’espressionismo fu lirico, soggettivo allucinato e violento. Anche se stilisticamente moderato E.A. Dupont fu espressionista nel pieno senso del termine nella ricerca di psicologie rare quanto esasperate, nel culto dei «soggetti» di chiara derivazione romantica...
Tutti questi registi, poi, hanno l’ossessione della donna come forza malefica, come elemento naturale scatenato, come divoratrice di maschi indifesi, come «vampiro». Brigitte Helm, in Metropolis di Fritz Lang. fu l’esempio pi clamoroso; ma non vanno dimenticate le altre, che gli occhi della memoria ci riportano in torbido, fatale corteo Lya de Putti e Tala Birell sono, assieme con la cinese Amina May Wong, i demoni familiari di Dupont; ma, in Asfalto, Betty Amann fu la femmina «cattiva» di Jo May. Ne La via senza gioia, Pabst proponeva Greta Garbo mentre nell’ombra Joseph von Sternberg stava preparano il mito di Marlene Dietrich. Badate bene che nessuno osa va scherzarci su: era in gioco la pelle o, quanto meno, la carriera. Se Sternberg non s’è più risollevato dal divorzio con Marlene, Lya de Putti e Betty Amann finiscono malamente. Murnau, come s’è accennato, perì in modo tragico, e Dupont, lontano dai «mostri» della patria, non trovò più quiete e fortuna.
Come René Clair, Dupont veniva dal giornalismo; gli affidarono la regia di un film, miracoli di trent’anni fa, che in vita sua non aveva mai visto uno «studio». Non erano pellicole impegnative, tanto è vero che a un certo punto ne ebbe abbastanza e decise di finirla con il cinematografo. C’era a Mannheim un teatro di varietà, l’Apollo, che era da affittare: Dupont non perse un minuto e per lunghi mesi si dedicò alla scena minore. Il varietà lo affascinava anche se i guadagni erano men che modesti: era un divertimento costoso e così il giovanotto tornò al cinema. Un giorno venne una telefonata dall’UFA, la famosa casa di produzione, fondata dagli industriali metallurgici che volevano dimostrare al mondo che la Germania non coincideva con l’immagine feroce e brutale della propaganda franco-inglese. Nella disfatta del novembre 1918 era andata in pezzi l’impalcatura militare prussiana, ma le strutture borghesi, la cultura erano ancora in piedi. I capi dell’UFA fecero dei film per dimostrare che la Germania era un paese civile, e non per fare quattrini.
Un giorno dunque Dupont ricevette una telefonata dall’UFA: cercavano un regista che fosse pratico delle «coulisses» e del mondo del varietà. Dupont modificò profondamente il soggetto propostogli, che non è nulla di eccezionale. Un «artista» del circo conduce un’esistenza senza sogni e senza avvenire vicino alla moglie sfiorita. Un giorno gli si offre l’occasione di proteggere una splendida giovane, che ha dei guai con la polizia. L’anziano uomo e la bella creatura diventano amanti, ben presto l’uomo abbandona la famiglia per seguire la piccola «vamp». Conosciuto un celebre trapezista, che ha perso il suo «partner», gli amanti fanno con lui una nuova «troupe» che ha un enorme successo. Ben presto, attratta dal brillante compagno, la bella Berta Maria tradisce con lui l’amante anziano. Che per un po’ non si accorge di nulla: poi, reso furioso da un’improvvisa rivelazione, uccide il rivale.
Variété ebbe un immenso successo perché descriveva un mondo a tutti noto, perché era interpretato magistralmente dal corpulento Emil Jannings, perché la ungherese Lya de Putti era dotata di un fascino eccezionale, ma soprattutto perché Dupont vi si rivelava regista di qualità rara. Il racconto è in forma autobiografica: in carcere l’innamorato di Berta Maria rievoca il passato. Ancora dopo tanti anni certi scorci, certe trovate, la bonaria risata di Jannings, la bellezza ambigua, perché disarmata, inconsapevole del peccato, di Lya de Putti restano nella memoria. La trappola del destino si chiudeva su un uomo tranquillo, sensato, perbene, con una meticolosità da partita doppia. Il rapporto Jannings-de Putti anticipa con straordinario rigore tutto quello che s’è visto in seguito nella stessa direzione, dal rapporto Jannings-Dietrich de L’angelo azzurro a quello Jean Gabin-Simon de L’angelo del male.
Il secondo capolavoro, Dupont lo girò in Inghilterra, ma con interpreti tedeschi: l’affascinante Tala Birell, e gli eccellenti Conrad Veidt, Fritz Koetner ed Heinrich George. Un naufrago chiede rifugio agli abitanti di un faro solitario che fa fronte all’oceano perpetuamente infuriato. La donna è una ex-mondana, raccolta dal grosso orso mansueto che è il guardiano del faro; il secondo guardiano, insinuante e volpino, è l’amante della femmina. Con l’autorità che gli deriva da un passato misterioso e da una più alta posizione sociale, il naufrago conquista a sua volta la donna. Scoppia, violentissimo, il dramma: la polizia viene a prendersi il naufrago, un uomo d’affari che aveva fatto bancarotta, la donna riprende la via degli angiporti fangosi da cui è uscita.
Fortunale sulla scogliera è uno dei primi film parlati europei. L’autorità con la quale Dupont si è subito impadronito del nuovo mezzo espressivo stupisce anche oggi i conoscitori. Tutta l’opera è corsa da un contrappunto sonoro-visivo di allucinante potenza. Negli ultimi venticinque anni non si è più fatto di meglio. Anche nel Fortunale, la donna, come in Varieté, è una sorta di animale selvatico e lascivo, che semina morti lungo il proprio cammino. Dupont sentiva profondamente l’argomento della donna-disastro, e la scelta sua delle attrici appare infallibile.
Ora che Dupont ci ha lasciato (ma come non ricordare le altre mirabili opere sue, Salto mortale, Piccadilly, Atiantic?), si palesa sempre più amaro il destino dei film che abbiamo amato: caratterizzano una serie di anni, ci confidano il senso di un’epoca. Ma non resta nulla di essi; sono diventati cenere e oblio.