Un certo Truffaut una volta disse che le parole "cinema" e "inglese" non potevano stare una di seguito all'altra. Probabilmente vero, visto che ancora oggi l'Inghilterra resta una terra dove si produce veramente poco cinema. Forse perché non ce n'è bisogno, visto che quello che fanno gli americani è tanto e non va nemmeno tradotto, o forse perché piove troppo spesso e le riprese non vengono bene, chissà. Sta di fatto che tra i pochi - relativamente - registi nati e cresciuti in terra d'Albione, ce ne sono alcuni che hanno raggiunto livelli di eccellenza rari altrove. Pochi ma buoni, insomma: Alfred Hitchcock, Michael Powell, Lindsay Anderson, solo tre nomi tra quelli che hanno i posti buoni nell'Olimpo dei grandi del cinema, dove un giorno siederà anche Michael Winterbottom.
Ariete (con tutto ciò che questo implica) classe 1961, Winterbottom studia a Oxford e alla Bristol University, e presto inizia a lavorare per la tv come montatore. In quegli anni conosce Frank Cottrell Boyce, un autore con cui inizia una collaborazione strettissima e dai cui scritti trae quasi tutti i suoi film. Nel '93 dirige per la BBC "Love lies bleeding" che gli vale la commissione di una miniserie in quattro parti, "The family", e di due ulteriori film per la tv, "Go now" e "With or without you". Nel frattempo però Winterbottom e il produttore Andrew Eaton fondano la Revolution Films e realizzano quello che tecnicamente è il primo film per il cinema del regista di Blackburn: Butterfly kiss, sorta di Thelma & Louise lesbo-dark. L'anno successivo è tempo per Jude, un film controverso come il romanzo di Thomas Hardy da cui è tratto. Ma nel 1997 Winterbottom vira ancora realizzando Welcome to Sarajevo, un film a metà tra il documentario "live" e la fiction.
Bastano già questi tre titoli a definire le caratteristiche stilistiche tipiche di questo regista: una grande passione per la musica, che è sempre più che una semplice colonna sonora; uno smisurato coraggio, che gli fa tenere la telecamera accesa contro ogni prudenza, anche quando gli attori deragliano o sulla location è in corso una vera sparatoria; una indipendenza tanto radicata da indurlo a smantellare i generi nei loro meccanismi più profondi pur non tradendoli mai. Caratteristiche che viste da un'altra angolazione potrebbero essere descritte con due parole: nessuna caratteristica. Perché la grandezza del cinema di Winterbottom sta proprio nel suo rinnovarsi, riscriversi, rivoltarsi continui. Ogni film non ha niente a che vedere col precedente, per tema, stile, respiro. Sebbene una sola occhiata basti a dare la certezza che si tratti di un film di Winterbottom. L'escalation è inarrestabile e passa per dei capolavori del dolore come Cose di questo mondo o Codice 46, e arriva fino all'ultima sconvolgente, spudorata sfida: una storia d'amore raccontata non attraverso le miriadi di suppellettili che il cinema da sempre tratta, ma attraverso l'elemento centrale dell'amore stesso: il sesso. Ed ecco che 9 songs è praticamente un film porno, la storia di un amore tenuto insieme solo dalla selvaggia carnalità dei due protagonisti e dalla comune passione per il new rock (le "9 songs" del titolo sono proprio 9 "videoclip" di altrettanti concerti cui i due si recano). Uno scandalo? No, il mondo reale raccontato da un poeta. Capace di shockare come solo i veri poeti sanno fare, e cioè semplicemente guardandosi attorno, e dentro.