Il 7 aprile del 1970, il trionfo di un film agli Oscar cambiò ufficialmente la faccia del cinema hollywoodiano (che, ufficiosamente, stava già mutando dalla metà del decennio precedente). Il film era Un uomo da marciapiede, che vinse come miglior film, migliore regia e sceneggiatura e che collezionò ovunque premi anche per i due protagonisti, Dustin Hoffman e Jon Voight; era un film fatto di poveracci disillusi, ambientato in una New York sordida, reale e tutt’altro che scintillante, percorsa da un provinciale belloccio che riesce a campare prostituendosi e da un italoamericano sciancato e tisico, tanto malandato che nel doppiaggio italiano si chiamò Sozzo (Ratso nell’originale), che prima gli si propone come manager e poi diventa il suo migliore amico. Con quei tre Oscar, Hollywood decretava la fine dell’eroismo e del divismo tradizionali, spalancava le porte agli outsider e si preparava a diventare la “nuova Hollywood”. Apriva anche le braccia all’autore che era riuscito a impone al pubblico la poesia degli emarginati senza edulcorarli, senza redimerli né salvarli. Curiosamente, quell’autore che aveva saputo raccontare con tanto acume il volto oscuro del sogno americano, era inglese e si era trasferito a New York appositamente per girare quel film, dopo essersi innamorato del romanzo originario di James Leo Herlihy: si chiamava John Schlesinger, era nato a Londra il 16 febbraio del 1926. Schlesinger è stato un autore curioso: profondamente britannico come formazione (fece l’attore teatrale, esordì nel documentario, non ha mai disdegnato la televisione) e come sensibilità narrativa, è stato uno: dei pochi registi degli anni Sessanta e Settanta ad adattarsi perfettamente al sistema hollywoodiano e, quel che più conta, a entrare, servendosi talvolta del grimaldello dei generi cinematografici, nei miti e nelle psicologie della vita americana; e ha iniziato così un fruttuoso andirivieni artistico tra il suo Paese l’origine e gli Stati Uniti, senza tradirli, passando da produzioni ricche di star e di suspense (il maratoneta, Uno sconosciuto alla porta) a film più piccoli, talvolta televisivi (CoId Comfort Farm, del 1995), profondamente radicati nell’immaginario inglese.
Schlesinger aveva esordito “intorno” al Free Cinema. Non appartenne mai al movimento e non fu mai in buoni rapporti con il suo teorico e portavoce, Lindsay Anderson (forse perché gli aveva soffiato il testo con il quale Anderson avrebbe voluto debuttare nel lungometraggio, Billy il bugiardo), ma del Free Cinema colse le suggestioni piccolo-borghesi e provinciali, le facce anomale dei nuovi protagonisti, le atmosfere irrequiete, i salti naturali tra infinita tristezza e umorismo: Alan Bates in Una maniera d’amare (il suo primo lungometraggio, del 1962). Tom Courtneay in Billy il bugiardo (1963), Julie Christie in Darling (1965) e, più tardi, Glenda Jackson e Peter Finch in Domenica, maledetta domenica (1971, forse il suo capolavoro) sono stati simboli di un Paese che cambiava, di una giovinezza e di una cultura in bilico. La sensibilità romantica (che dilagò nel 1967 con Via dalla pazza folla, da Thomas Hardy) è stata probabilmente la chiave che ha aperto a Schlesinger l’anima del cinema americano, facendogli cogliere al volo la malinconia del loser in Un uomo da marciapiede, la dannazione in Il giorno della locusta (uno dei ritratti cinematografici più devastanti della Mecca del cinema, da Nathanael West), il desiderio di pacificazione in Yankees, film spesso maltrattato e invece bello, soprattutto nell’appuntito e autoironico tratteggio delle differenze culturali tra inglesi e americani, con cui Schlesinger, in fondo, fa il punto della sua carriera. L’America gli piaceva, soprattutto la California, ma forse con tutta la malinconia di An Englishman Abroad, come raccontava in quel suo film televisivo del 1983, la storia di un inglese che ha “tradito” ed è costretto a vivere nell’Unione Sovietica ma non ha dimenticato il rito del té.
Da Il Sole-24 Ore, Domenica 27 luglio 2003