Apichatpong Weerasethakul è il regista, thailandese più noto all'estero. Neanche la sua opera sfugge però alla censura governativa, che del suo ultimo lungometraggio ha tagliato perfino i baci tra fidanzati e un monaco intento a suonare la chitarra. «Sono interessato ai concetti di restrizione e di estinzione. Se non facessi film mi darei al volontariato»
testo di Sasha Carnevali foto di Julien Daniel a Thailandia per gli occidentali è una sorta di Eden tropicale fatto di vacanze, cibo meraviglioso, surf, avventura. Tutti ricordano la tragedia dello tsunami, pochi sanno del colpo di Stato militare che due anni fa costrinse all'esilio il primo ministro Thaksin, forse ancor meno conoscono le sue più stridenti contraddizioni culturali. L'ex Siam infatti, diventato nel 1939 il "Paese degli uomini liberi" (thai significa libero), è governato da una monarchia costituzionale estremamente severa e tradizionalista, eppure altrettanto emancipata quando si tratta di alcuni costumi sessuali. Qualche esempio: rischia quindici anni di carcere l'uomo che un anno fa rifiutò di alzarsi in piedi e, come di prassi, cantare con la mano sul cuore l'inno reale prima della proiezione di un film. Accusato di lesa maestà e alto tradimento, l'uomo afferma che la legge non lo obbliga a omaggiare il sovrano ogni volta che vuole assistere a uno spettacolo, ma invoca comunque la clemenza del pubblico ministero (mentre scriviamo il processo non è stato ancora celebrato). Nello stesso Paese il "terzo genere" è accettato al punto che nelle scuole si possono trovare bagni per maschi, femmine e kathay, cioè per le persone nate in un corpo che non riconoscono, o che magari hanno già modificato. O ancora, nel Paese tristemente famoso anche per il suo fiorente turismo sessuale, i baci tra fidanzati vengono tagliati dai film.
È quello che è successo, ad esempio, a Syndromes and a century, l'ultimo lungometraggio di Apichatpong Weerasethakul, probabilmente il più conosciuto all'estero fra i registi locali. Già vincitore nel 2004, con Tropical naalady, del Premio della Giuria a Cannes - dove è tornato quest'anno in veste di giurato - l'autore, 38 anni, ha però coraggiosamente fatto leva sulla sua reputazione internazionale per cercare di allentare il pugno di ferro che stringe il cinema thailandese e, per una sorta di metonimia civile, l'intera società. «Per la censura la violenza non è un grosso problema: lo sono il sesso, la religione, la politica e la famiglia reale», spiega quando lo incontriamo a Parigi all'Espace Louis Vuitton dove, nell'ambito della mostra «Travelling» (fino al 31 agosto) verrà proiettato dieci volte al giorno il suo corto Vampire. «Gli studios thailandesi, e soprattutto quelli americani, contano sulle giuste conoscenze per avere facilitazioni. Per il cinema indipendente, come quello che faccio io, le cose sono invece molto più difficili. È un sistema corrotto. Non è sano perché gli stessi registi finiscono per essere i primi ad autocensurarsi». Del suo film (un lento e affascinante viaggio nei ricordi, caratterizzato da simmetrie estetiche e narrative) non hanno passato il vaglio dei censori un monaco che suona la chitarra, due medici che si baciano, una carrellata intorno a un monumento che ritrae la famiglia reale, un dottore che beve whisky e due monaci che giocano con un disco volante telecomandato. Secondo la giustificazione ufficiale, «il pubblico thailandese non era pronto per vedere scene del genere». L'accesso al negativo è stato impedito a lungo a Weerasethakul, che pure aveva dichiarato pubblicamente che non l'avrebbe distribuito. «Ho risottoposto il film alla commissione - racconta - e mi hanno interrogato come si fa in una stazione di polizia: "Perché non fai qualcosa che porti beneficio al Paese? Se fossi in te non avrei posizionato li la cinepresa…". Così, anziché lasciare che la pellicola già bandita uscisse semplicemente accorciata, ho mantenuto i minuti controversi, facendoli proiettare in nero, in silenzio. E pubblico l'ha trovato frustrante. Ho fatto un seminario, lanciato una petizione e scritto un libro sul caso, e le coscienze hanno cominciato a svegliarsi. Ma non siamo un popolo che scende in piazza a protestare. La gente si sottopone lietamente all'oppressione, tanto che è d'accordo sul fatto che l'uomo che non ha rispettato l'inno monarchico dovrebbe essere punito». Qual è la sua opinione su questo caso di cronaca? «Quell'uomo ha il mio sostegno aperto», afferma pronto. Ma poi aggiusta il tiro precisando: «Questo non vuole dire che io non appoggi la famiglia reale. Dico solo che il cinema è un posto dove la gente dovrebbe sedersi a godere un film, e la politica dovrebbe restarne fuori».
La bagarre provocata da Symlromes e dall'attivismo di Weerasethakul ha portato alla tanto attesa revisione della legge sul cinerea risalente al 1930, ma il regista non è comunque contento dei risultati: il nuovo sistema di rating in sei fasce (P: film promozionale, sovvenzionato dallo Stato; G: per tutti; vietato ai minori di 13, 15, 18 e 20 anni) invece di garantire libertà all'interno di ognuna di esse, non ha eliminato la facoltà di censurare e bandire le pellicole da parte della commissione composta da membri del ministero della Cultura, della Polizia, da rappresentanti buddisti, educatori e medici e che guarda con sospetto anche ai due principali generi thailandesi. «Noi abbiamo la tradizione dell'intrattenimento di palazzo - spiega il regista : commedie con uomini travestiti da donne, giochi, scherzi, trucchi; storie di fantasmi e dell'orrore. Tutto questo si è riversato nel cinema, ma secondo la commissione questi film non proiettano un'immagine sufficientemente edificante e positiva del Paese». Ma in un'area in cui la popolazione è composta per il 70 per cento da contadini, cosa si aspetta il pubblico da un regista locale come lei?
Ha studiato a Chicago, ma ha scelto di abitare a Chiang Mai, una zona nel nord del Paese piena di immigrati di Burma, maltrattati o arrestati se solo si riuniscono in un tem pio. «Sono interessato al concetto di restrizione ed estinzione; sono if per testimoniare: posso farne un film, o dimenticarmi del cinema e darmi al volontariato». E aggiunge con un sorriso serafico: «Un terreno ostile può rivelarsi un premio».
Da Ventiquattro, giugno 2008