Certe volte capitava che Anthony Quinn desse sui nervi: per le risate perenni e fragorose, per l'ostentato gusto di bere, mangiare, parlare, ballare eccetera, per il modo appassionato e obsoleto con cui parlava delle donne, per i colletti della camicia e le cinture dei pantaloni sempre allentati in cerca di liberazione, per gli atteggiamenti da patriarca, per le idee antiquate e schematiche. Quando Quinn dava sui nervi, bastava pensare alle sue origini, un mix impossibile di messicano e irlandese, ai suoi inizi (seminarista, autista, pugilatore) sino al debutto in teatro con Mae West, alle sue tre mogli, ai tredici figli e ai due Oscar, alla sua vocazione (o condanna) ai “supporting roles”, alla maledizione di venire usato soprattutto in parti di indio, di combattente, di pugile, di mafioso italoamericano, alla sua certezza di non essere mai stato apprezzato in maniera adeguata al suo valore. Pensando a questo si capivano tante cose dei suoi comportamenti da sbruffone, enfatici, esagerati, ma non si capiva l'essenziale: Anthony Quinn amava la vita quanto poche altre persone al mondo, e l'autentico piacere di esistere dava ai suoi personaggi qualcosa di schietto e diretto, di divertente, di molto simpatico. Persino nel suo ultimo film interpretato nel 1995, Il profumo del mosto selvatico di Alfonso Arau che era un rifacimento di Quattro passi tra le nuvole di Blasetti con Keanu Reeves al posto di Gino Cervi, la vitalità di Quinn dominava lo schermo. E nei suoi film famosi ( La conquista del West, Sangue e arena, Viva Zapata, Barabba, Zorba il greco), l'autenticità dell'attore e la voglia di vivere regalavano un tocco in più. Per Federico Fellini, ne La strada (1954), Quinn recitò accanto a Giulietta Masina la sua parte più bella, malinconica, sincera: il vagabondo Zampanò violento e vulnerabile, ruvido e tetro, esibizionista della forza fisica, portatore di tristezza e solitudine, davvero magnifico. Un'occasione rimasta unica nel percorso professionale di Anthony Quinn: peccato.
Da La Stampa, 8 Giugno 2001