«Ricordo quelle donne dal passo vacillante e convulso, le loro mani di naufraghe dell'amore che andavano accarezzando le pareti lungo i corridoi, aggrappandosi alle tende, inebriandosi al profumo dei fiori, tra ombrosi giardini e scalinate marmoree...».
Così si esprime un eccellente testimone d'epoca, Salvador Dalí, a proposito delle grandi dive italiane del silenzio. E di queste silhouettes diafane e languide, frementi ed accese, fasciate in serici abiti, che incedono eteree, a piccoli passi come le musmé giapponesi, in un'atmosfera rovente e rarefatta ad un tempo, Lyda Borelli è, senz'ombra di dubbio, il più esemplare modello.
Il suo fu un passaggio da meteora: solo cinque anni di presenza sullo schermo, in tutto una dozzina di film che però hanno segnato un'epoca. Non è azzardato affermare che la sua fu una presenza magnetica: per diverso tempo si parlò di «borellismo» sia tra le molte imitatrici - e non solo in Italia - che si rifecero al suo personalissimo stile di recitazione, sia tra tante donne del suo tempo, contagiate dal carisma dell'attrice.
Lyda Borelli aveva esordito appena quindicenne in La Veine di Alfred Capus sui palcoscenici romani; qualche tempo dopo interpretava La figlia di Torio di D'Annunzio, accanto ad autentici mostri sacri del teatro quali erano Ruggero Ruggeri, Virgilio Talli, Irma Gramatica e Oreste Calabresi. Nel 1905, diciottenne, è «prima attrice giovane» con Eleonora Duse, nel 1907 «primadonna» con Ruggeri. Il suo repertorio spazia da lavori raffinati come la Salomé di Oscar Wilde ad altri decadenti come Il ferro di D'Annunzio, boulevardiers come La sfumatura di Francis de Croisset o addirittura ai vaudevilles come La Presidentessa di Hennequin e Veber.
Quando la Film Artistica Gloria di Torino la scrittura per Ma l'amor mio non muore!... (1913) è già un'attrice affermata, ed in questo film, giudicato «un manifesto del vivere inimitabile e dell'inimitabile morire», la sua recitazione raggiunge un eccezionale spessore, lucidamente controllata in tutti i suoi momenti, sempre funzionale ai ritmi imposti dal racconto per immagini, dove nulla è lasciato al caso. Subito dopo, sempre al fianco di Mario Bonnard, è in La memoria dell'altro (1914), ove dà vita al personaggio di un'intrepida aviatrice divisa tra l'amore di due uomini.
Dopo il successo di queste due prime opere torinesi, è la Cines di Roma a farsi avanti: alla Borelli viene offerta una scrittura favolosa per portare sullo schermo tre opere di Henri Bataille. L'attrice accetta e, una dopo l'altra, interpreta La donna nuda (1914), La marcia nuziale (1915) e La falena (1915), dando vita sul telone bianco alle tre eroine del drammaturgo francese.
Cosa importa se qualche arcigno recensore rileva che «molte lentezze, disquisizioni, enfasi, allitterazioni intersecano le vicende, frastagliandone il contorno e la linea»? Si scomoda anche Antonio Gramsci per affermare che «l'arte della Borelli non esiste, perché l’attrice interpreta sempre e soltanto se stessa».
Sarà anche vero: perfida o , candida, fatale o ingenua, era sempre lei, inconfondibile, perché portava nel sangue il vivo fascino delle sue eroine: che impersonasse l'esangue Elsa Holbein de Ma l'amor mio non muore!... o l'intrepida Madame Tallien (1916), la sventurata Marina di Malombra (1917), la libertina Duchessa di Langeais ne La storia dei tredici (1917) o la misteriosa principessa di Carnevalesca (1918), Lyda Borelli, morbida e voluttuosa, è sempre Lyda Borelli, anche se sa adeguare sguardi e gesti, corpo e anima ai ritmi e ai periodi in cui si dipanano queste arcane vicende. Uno dei suoi film più interessanti è certamente Rapsodia satanica (1917), liberamente ispirato al mito faustiano. Nei panni dell'anziana Alba d'Oltrevita che, in cambio della giovinezza perduta, rinunzia per sempre ad amare, l'attrice dà vita ad un personaggio torturato e doloroso; quando, non potendo mantenere il patto col diavolo, cede all'amore pur sapendo di scavarsi nel bacio dell'amante il suo sepolcro, la sua recitazione è tutta negli sguardi melanconici, nelle mani annaspanti, nei fremiti del corpo, un gioco misuratissimo di lievi sfumature, di sottili espressioni, un ghirigoro floreale. Fausto Montesanti ipotizza che nel personaggio Borelli si possono intravvedere certi sviluppi divistici che saranno tipici, ad esempio, della Garbo americana, costruita appunto sulla formula della «rinuncia alla felicità» e degli «amori impossibili».
La breve carriera di Lyda Borelli, la quale si ritirò a vita privata dopo il matrimonio con il conte Cini nel 1918, si racchiude, come già detto, in dodici film, più due apparizioni simboliche: in L'altro esercito (1918), un documentario di propaganda sullo sforzo bellico, l'attrice impersonava, nel breve prologo, il personaggio di Santa Barbara, protettrice delle armi; l'anno prima, subito dopo la disfatta di Caporetto, aveva prestato la sua austera figura all'Italia turrita in un consolatorio cortometraggio intitolato Per la vittoria e per la pace!
Da Le dive del silenzio, Le Mani, Genova, 2001.