RAFFAELLA GIANCRISTOFARO
Valentino diceva che il marmo è l’ideale per il tango».
Così Gloria Swanson, alias Norma Desmond, in Viale del tramonto di Billy Wilder. La decaduta diva del muto appariva già distante in quel film del ‘so: figuriamoci oggi. Valentino e la Swanson appartengono a un mondo scomparso. Leggendario e ovattato, avventuroso ed esotico. Dei divi del muto come Valentino oggi si ricordano (oltre alla moda) solo le enciclopedie del cinema. Nato il 6 maggio 1895 a Castellaneta (Taranto), quest’anno Valentino avrebbe ilo anni. Come il cinema. Partito alla fine del 1913 per New York, aveva fatto il ballerino e il giardiniere. Sfuggito alla febbre spagnola, era entrato nell’entourage di Mary Pickford e aveva lavorato come ballerino di vaudeville. In effetti l’immagine che più lo identifica è quella in cui balla, cappello da gaucho e fusciacca in vita, in I quattro cavalieri dell’Apocalisse. Elegante, femmineo, con i capelli scuri, lisci, impomatati. Il “più grande baciatore” del mondo. O amatore, come nell’omonimo film-parodia di e con Gene Wilder. Difficile oggi capire perché il suo nome sia diventato sinonimo, marchio depositato di latin-lover italiano nel mondo. Come comparsa danzante in Alimonia (suo debutto nel cinema), era stato prima relegato al ruolo di villain: ricattatore in L’avventuriero, seduttore in Sfortunato. E ancora danzatore e malvivente in Il ladro di perle e spregiudicato in Occhi della giovinezza. Dopo il primo matrimonio con Jane Acker, nel 1919, durato poche
ore, l’incontro determinante con June Mathis, capo sceneggiatrice alla Metro: creò per lui il seduttore latino Julio che l’ha reso immortale, ma anche il torero di Sangue e arena (poi rifatto da Tyrone Power nel film di Mamoulian) e lo studente innamorato in La signora delle camelie. Amante della forma fisica e della velocità, ha rappresentato il fascino irresistibile dello straniero, dell’Altro. È stato il Cobra, il seduttore che ipnotizza e fa cadere le donne. L’antagonista della virilità ottimista, bionda, all’american di Douglas Fairbanks. Nell’epoca in cui il cinema elaborava e raffinava il primo piano, e prendevano forma i concetti di uffici stampa, di make up - nel senso di costruzione dei divi. E di fanatismo di massa. Quel fondamentale ruolo del pubblico che, dopo l’ubriacatura dei Universal studies, è stato giustamente rivalutato nello studiare il cinema e le sue icone. Ancora più importante è stata l’apertura che l’immagine di Valentino ha dato ai concetti di razza - assimilato com’era all’arabo in Lo sceicco e Il figlio dello sceicco — e sesso: perché i creatori della sua immagine avevano intuito che la star dovesse piacere a uomini e donne. Anche per questo, nel suo indigesto ma curioso Valentino, Ken Russell è stato geniale a dare la parte del grande amatore a Rudolf Nureyev. Che ne descrive la parabola breve, il secondo matrimonio e i viaggi con la scenografa Natasha Rambova (che malgrado il nome, era irlandese). E la loro sontuosa tenuta a Beverly Hills, l’incontro di pugilato col giornalista newyorkese, le decine di migliaia di fan in tumulto ai suoi pomposi funerali, dopo “solo” 31 anni da star.
Nei suoi panni si è calato anche Franco Nero, in un Tv movie di Melville Shavelson. A teatro, Marcello Mastroianni nel fortunato Ciao, Rudy di Garinei e Giovannini. Al Sistina, nel 1966 c’era David Mernck il re di Broadway per comprare lo spettacolo: ma Mastroianni aveva già detto sì a Fellini (che un tributo a Rudy lo aveva dato nello Sceicco bianco) per Il viaggio di Mastorna E c’era anche la Swanson. Probabilmente, pensando a quel mondo perduto, avrà ripetuto una battuta inequivocabile: «Io sono sempre grande. È il cinema che è diventato piccolo».
Da Film Tv, n. 18, 2005