Hemingway lo scrisse nel 1940. Questo film fa parte della cultura, dell’abitudine e del mito. Viene usato anche nel linguaggio comune.
di Pino Farinotti
Per chi suona la campana, il film, compie 80 anni. Ernest Hemingway lo scrisse nel 1940. La Paramount ne acquisì i diritti e produsse il film. Quel titolo fa parte della cultura, dell’abitudine e del mito. Viene usato anche nel linguaggio comune. Hemingway privilegiava quel film rispetto a tutti gli altri tratti dai suoi scritti, perché aveva rispettato, in toto, il master letterario. Il romanzo richiama un testo evocativo, che esplicita il contenuto che verrà.
Nessun uomo è un’Isola,
intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del Continente,
una parte della Terra.
Se una Zolla viene portata via dall’onda del Mare,
la Terra ne è diminuita,
come se un Promontorio fosse stato al suo posto,
o una Magione amica o la tua stessa Casa.
Ogni morte d’uomo mi diminuisce,
perché io partecipo all’Umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:
Essa suona per te.
Sono i versi di John Donne che annunciano il primo capitolo di "Per chi suona la campana". E’ facile, magari un po’ enfatico, riferirli a Ernest. Ma quando è morto e la campana ha suonato, ha diminuito tutti.
Ernest Hemingway: istantanea generale, indispensabile.
Qualche anno fa una major dell’editoria italiana decise di pubblicare un libro sulla letteratura del Novecento. Si lavorò sulla copertina. Si cercò un personaggio che fosse il modello assoluto del tema. Emersero nomi adeguati: James Joyce, Marcel Proust, Thomas Mann, Franz Kafka. Vennero analizzati. Cos’avevano rappresentato, e cosa, ancora rappresentavano. In chiave di segnali visibili, eco ascoltabili, eredità spendibili. E poi accademia, storia, ispirazione, cultura perenne, popolarità, copie vendute.
Il dibattito si allargò finché qualcuno disse. “Il nome c’è... Ernest Hemingway.” In pochi secondi la figura per la copertina era trovata. La mia generazione, e non solo la mia, ha adottato Ernest Hemingway. Fin dai tempi della scuola, anche se non faceva parte dei programmi, come Dante e Manzoni. Nell’età vulnerabile (Fitzgerald) molti di noi avevamo assunto quella lettura e quel modello. Nessuno scrittore come lui ha dettato emulazione. Il suo stile scarno, diretto, allarmante per potenza, ti faceva essere là dove lui voleva che tu fossi. E così ecco la moda secondo Hemingway. Vasta e coinvolgente come un’affabulazione.
E quei suoi anni, dai Venti ai Cinquanta, erano un’invenzione di costume e di correnti. Andavi in Africa perché lui aveva descritto il Kilimangiaro. Visitavi Cuba perché tante sue storie vivevano laggiù. E cercavi la Bodeguita nel quartiere dell’Avana vecchia. E ancora oggi, se vai a Cuba ti viene proposta la ruta de Hemingway, e ti vengono offerti il mojito e il daiquiri, tanto cari, troppo, allo scrittore.
Dici rive gauche e la memoria va a quegli anni venti in Parigi, luogo di migrazione di giovani diversi, artisti scrittori, alternativi, che volevano rifarsi dopo la Grande guerra, con l’idea di divertirsi e cambiare le cose. Ernest era uno di loro, curioso, vitale, protagonista.
Rive gauche, anche oggi, un po’, vuol dire Hemingway. La Spagna. Per anni c’era il riflusso della guerra civile, combattuta secondo le loro discipline da Hemingway e Picasso. E per lo scrittore, Spagna significava corride e sangue. Roba intensa per lui, perché il sangue gli apparteneva, quando sparava a un rinoceronte, o decapitava un pesce spada. E se un turista, oggi, decide per la Spagna e le corride, è probabile che un segnale gli arrivi dall’Hemingway di Morte nel pomeriggio. E poi i locali che frequentava a Venezia e Milano, dove una targa in via Armorari, sede allora della Croce rossa americana, ricorda la sua permanenza dopo essere stato ferito sul Piave. Si piaceva. Non aveva ancora compiuto vent’anni che era già personaggio, era eroe. Era tornato dall’Italia con segnali forti. Decorazioni, racconti di guerra, ferite.
Per tutta la vita Ernest ha cercato di essere l’uomo simile ai protagonisti dei suoi romanzi, magari in competizione con loro. Un’ossessione sulla quale molti si sono espressi, stando anche al gioco dello scrittore, che adorava che si parlasse di lui. Era capace di trasmettere sé stesso, con forza. Possedeva quella grazia. Milioni di vite normali e statiche hanno scovato qualcosa di utile e felice dai suoi romanzi e dalla sua vita. È morto da tanto tempo. Le sue indicazioni rimangono. La gente continua a estrarre i suoi libri dagli scaffali. Da quando aveva 18 anni era come se sapesse che sarebbe stato un modello da rincorrere. Andava a caccia nei boschi del Michigan, era amico degli indiani che ancora vivevano da quelle parti. Poco più che adolescente venne in Italia, in guerra. Fu ferito, ricoverato a Milano. E da lì cominciò a raccontare. Come detto sopra Ernest evoca luoghi e culture di gran parte del globo.
Per il cinema è stato una lusinga irresistibile. E infatti il cinema lo ha privilegiato, anche se, a volte, non lo ha rispettato. Tuttavia, per contrappasso, ha acquisito i suoi romanzi e racconti a prezzi alti, ma non da compensare il compromesso. Il cinema ha ferito Hemingway. Per una ragione molto semplice, la ragione è il cinema stesso, nella sua essenza e dunque non ne ha colpa. È proprio un fatto di esistenza e di genetica, diverse.
Il nodo è quel “maledetto” happy end. Hemingway non è uno scrittore rassicurante, positivo e ottimista. Grande, estrema è la sofferenza dei suoi personaggi. E grande/estremo è l’equilibrio drammaturgico delle storie. Non è possibile che una vicenda di Hemingway abbia un fine lieto. Sta proprio, ribadisco, nella struttura, che è impietosa. Eppure il cinema ha attribuito il lieto fine ad alcune di quelle storie. E’ un trucco narrativo che Ernest mal sopportava, addolcita solo dai milioni di dollari che le major gli dispensavano.
E così Harry Morgan, il tragico proprietario di battello ferito a morte nel mare di Key Largo nel romanzo "Avere, non avere", nel film relativo, Acque del sud, nei panni di Humphrey Bogart (dunque roba seria) se ne va per mano alla sua giovane innamorata Lauren Bacall. E lo scrittore Harry Street, protagonista di uno dei “49 racconti”, Le nevi del Kilimangiaro, che nell’originale muore delirando per un’infezione, nel film con Gregory Peck guarisce felice, e sempre mano nella mano di Susan Hayward. "Addio alle armi" è un altro titolo importante e popolare, rappresentato in due film, uno con Gary Cooper, del 1932, l’altro con Rock Hudson del 1957. Sono opere corrette, ma distanti dalla qualità dello script. Da citare, è indispensabile, Il vecchio e il mare, con Spencer Tracy. Il regista John Sturges adottò un sistema semplice ed efficace. La vicenda viene narrata da una over voice che legge il testo del libro quasi integralmente. Nell’edizione italiana la voce era di Gino Cervi. Ma quel titolo rappresenta davvero molto. Nel 1952 ottenenne il premio Pulitzer e due anni dopo diede a Hemingway nientemeno che il Nobel. La motivazione del Comitato di Stoccolma: “Per la sua maestria nell’arte narrativa, recentemente dimostrata con Il vecchio e il mare e per l’influenza che ha esercitato sullo stile contemporaneo.”. Quando è necessaria un’unica definizione, quasi sempre Hemingway è l’autore di Per chi suona la campana. Molti ritengono che sia quel titolo la migliore combinazione fra libro e film. Ma il rischio corso dal romanzo fu davvero grande. Hemingway venne a sapere che la Paramount cercava di salvare il protagonista Jordan (l’eroe che deve morire sul ponte per permettere ai suoi di salvarsi). Chiamò il suo agente e disse “Se lo fanno, prendo il fucile, vado là e comincio a sparare”. E così Gary Cooper muore, secondo copione, anzi, secondo libro, e non se ne va verso il tramonto violaceo con Ingrid Bergman, mano nella mano. Certo, va detto che poi quei film ci piacevano e molto, proprio per il lieto fine.
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