Per una volta, gli elogi della critica statunitense si sono rivolti ad un film che li merita davvero.
3° lungometraggio di McDonagh (dopo i già promettenti In Bruges e 7 psicopatici), Tre manifesti a Ebbing, Missouri è difatti uno dei migliori film della stagione.
Un quasi capolavoro graziato dall’ottima scrittura del regista (che si rivela capace di passare con disinvoltura dai registri della commedia a quelli del dramma più dolente), e, in particolare, dalle eccellenti interpretazioni del cast (bravissima la McDormand, da sempre una garanzia, ma Harrelson e Rockwell non le sono certo da meno, e specie quest’ultimo si dimostra in grado di tratteggiare con incredibile bravura un personaggio apparentemente a rischio cliché, eppure umano, complesso, contrastato, reale, che non mancherà di imprimersi nella memoria degli spettatori).
Il ritmo è sostenuto, ma implacabile, e su tutto, anche sulle parentesi da commedia che talvolta arrivano pure a strappare una risata, aleggia un’ineludibile, persistente sensazione di malessere e soprattutto tensione e inquietudine.
Ovviamente, non è la prima volta che vengono mostrati l’orrore o quantomeno la paura, la rabbia che si celano dietro la tranquilla facciata dell’oziosa provincia americana profonda, ma raramente l’affresco è riuscito così bene. Pur nel suo minimalismo quasi teatrale (non che sia necessariamente un male), Tre manifesti a Ebbing, Missouri si dimostra in grado di emozionare, e si rivela un’opera cinematografica perfettamente riuscita. Un ritratto magistrale di vite perdute, solitudini e dolori quasi insostenibili, di personaggi caratteristici ma mai stereotipici, di ambienti comuni, volendo già visti, e che pur si riesce a far rinascere a nuova vita.
Forse talvolta si rischia di scivolare nel cliché, come già accennato in precedenza, ma il regista-sceneggiatore è sempre abile a cavarsene fuori per mezzo di svolte inaspettate e improvvisi mutamenti nei comportamenti dei personaggi (in particolare nel caso di Dixon che dal trasmettere quasi ribrezzo arriva a smuovere fin compassione).
E, con un finale a suo modo poetico, il film non intende spiegare né giustificare nulla, ma porta a riflettere, ben oltre la conclusione dei titoli di coda.
Candidato a 7 premi Oscar, conquista, più che meritatamente, quelli alla miglior attrice protagonista e al miglior attore non protagonista (Rockwell).
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