Titolo originale | Sweet Country |
Anno | 2017 |
Genere | Western |
Produzione | Australia |
Durata | 112 minuti |
Regia di | Warwick Thornton |
Attori | Sam Neill, Bryan Brown, Thomas M. Wright, Matt Day, Ewen Leslie Anni Finsterer, Natassia Gorie Furber, Tremayne Trevorn Doolan, Gibson John, Hamilton Morris, Shanika Cole, Trevon Doolan, Luka Magdeline Cole, Tom Willoughby, Lachlan J. Modrzynski, Martin McMillan, Charlie Jampijinpa Brown, Sotiris Tzelios, Leslie Rice, Bernard Longbottom, Kiet-Senh Luu, Wayne Sanderson. |
Tag | Da vedere 2017 |
Rating | Consigli per la visione di bambini e ragazzi: |
MYmonetro | 3,34 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
|
Ultimo aggiornamento lunedì 22 gennaio 2018
Un western ambientato sulla frontiera settentrionale dove la giustizia stessa è messa pesantemente in discussione. Il film è stato premiato al Festival di Venezia,
CONSIGLIATO SÌ
|
L'aborigeno Sam vive nella fattoria del "bianco" Fred, in relativa armonia, insieme alla moglie Lizzie. Ma intorno a loro, nell'Outback australiano qui narrato come il corrispettivo del Far West, gli aborigeni sono gli indiani: privati della propria terra, dei propri diritti e della propria libertà, e ridotti ad una schiavitù identica a quella (di esportazione) che opprimeva gli africani importati negli Stati Uniti. Quando nella zona si trasferisce Harry, un reduce di guerra gonfio di rancore e di aggressività repressa, il fragile equilibrio fra i proprietari terrieri anglosassoni e i loro servi aborigeni salta, e costringe Sam ad una fuga attraverso il cuore del Paese, insieme a Lizzie.
Il regista aborigeno australiano Warwick Thornton disegna un western rigoroso ed elegante per raccontare una storia poco conosciuta al di fuori dei confini down under, e utilizza i canoni del genere tanto per sottolineare le similitudini fra le varie espropriazioni e schiavitù quanto per segnalarne le differenze.
Il racconto è corale perché l'evoluzione di un Paese può essere meglio raccontata attraverso gradi progressivi di consapevolezza, soprattutto in tema di rapporti interraziali: dunque Fred è un uomo timorato di Dio e dotato di umana empatia, mentre Kennedy, un altro possidente locale, aderisce al razzismo che lo circonda ma non è impermeabile alla presenza, accanto a lui, del piccolo Philomac, meraviglioso Huckleberry Finn nelle cui mani è il futuro dell'Australia. Sweet Country diventa così una parabola sul cambiamento necessario (ma non sempre realizzabile) per ogni Paese che voglia muoversi in alto e in avanti, invece che ripiegarsi su se stesso e sui propri privilegi di casta.
La narrazione è canonica, con inquadrature incantevoli degli spazi sconfinati e primi piani ravvicinatissimi che entrano letteralmente nelle pieghe dei volti dei protagonisti. Ma è nell'attenzione ai dettagli, nell'essenzialità dei dialoghi, nella gestione strategica dei suoni (e dei silenzi), nei numerosi inseriti di montaggio che sono alternativamente premonizioni e ricordi, che Thornton rivela la sua cifra autoriale, fatta di profonda partecipazione emotiva raffreddata (e mai sfruttata a scopi demagogici) da un rigore stilistico che fa il paio con la purezza profonda della tradizione aborigena.
Il legame con la terra rossa del "dolce Paese" (ma anche con la sua sabbia, con il sale, con la pietra, con quella particolare sfumatura di luce), invincibile alleata degli aborigeni protagonisti del racconto, rende la narrazione visiva viscerale, e nel grande cielo inquadrato dal regista c'è spazio tanto per i fulmini quanto per l'occasionale arcobaleno. Per contro, la sua cinepresa sa entrare in zoom su particolari minimi che rivelano più informazioni di qualunque snodo narrativo e denunciano ciò di cui la natura umana è capace, nel bene come nel male, in un mondo in cui tutto è lecito solo se hai il colore "giusto".
Sam Neill e Bryan Brown, due fra gli attori australiani più noti al pubblico internazionale, regalano performance sfaccettate nei panni l'uno del pio Fred, l'altro del rigido sergente Fletcher, militare stanco di guerra combattuto fra pulsioni interiori che si contrappongono spingendolo alternativamente verso l'evoluzione o la regressione. Ma il film appartiene ai due attori aborigeni Hamilton Morris nei panni di Sam e Tremayne Trevorn Doolan in quelli di Philomac, cui spetta - giustamente - l'ultima "parola".
Una storia vera di razzismo girata dal regista australiano Warwick Thornton in stile Western. Il titolo è ironicamente stridente con la realtà dei fatti narrati. Gli aborigeni in Australia agli inizi del novecento, come i neri d’America, sono emarginati e ridotti in una condizione di schiavitù ipocritamente mascherata da finti rapporti di lavoro.
All’apertura del film una pentola con un liquido nero che bolle è una metafora dell’Australia dopo la prima guerra mondiale all’inizio degli anni ‘20, una immensa terra poco popolata con molte aree a pascolo, alcune città nel sudest e poche terre coltivate. Gli aborigeni svolgono lavori umili alle dipendenze di australiani “bianchi” di etnie europee. [...] Vai alla recensione »