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Perché Il caso Spotlight è un'opera necessaria

Il film di McCarthy ricorda come il giornalismo non può e non deve cooperare con i poteri legislativi, elettivi, rappresentativi. Li deve anzi controllare. Al cinema.
di Roy Menarini

Il caso Spotlight

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martedì 1 marzo 2016 - Oscar

Pur apparentemente classico nella messa in scena e riconoscibile nel suo impianto drammaturgico, Il caso Spotlight raccoglie legittima unanimità di giudizi positivi.

Ma che cinema rappresenta l'opera di Thomas McCarthy e perché ne abbiamo bisogno? Siamo sicuri che sia un film così semplice?
Roy Menarini

Ovviamente, in superficie - e anche in buona parte nella sostanza - la forza della denuncia e lo scandalo della pedofilia annidata in settori della Chiesa sono sufficienti per l'indignazione dello spettatore e l'identificazione nei giornalisti investigativi (una razza che pareva scomparsa dal cinema, e che invece ritroveremo presto in altre opere come Truth: rivincita dell'inchiesta nell'epoca delle fast news di Internet?). E invece - se non ci fossero alla base proprio quelle stesse scelte cinematografiche che qualcuno definisce troppo conservatrici - un film come questo perderebbe tutta la sua forza.


Mark Ruffalo in una scena del film Il caso Spotlight.
Il team Spotlight al lavoro in una scena del film di Thomas McCarthy.
Michael Keaton in una scena del film Il caso Spotlight.
L'importanza di ciò che non è raccontato

Spesso per capire che cosa funziona di un film vale la pena chiedersi che cosa i realizzatori hanno scelto di non raccontare, di non rappresentare. In questo caso, per esempio, la concentrazione sull'indagine e la tensione emotiva che coinvolge il team di giornalisti fanno sì che la loro vita privata ne sia quasi completamente assorbita; e McCarthy, a sua volta, decide di dedicare brevissimi cenni alle questioni famigliari, tenute saggiamente sullo sfondo, laddove altri sceneggiatori e altri produttori avrebbero preteso improbabili intrecci con sottotrame intime, magari persino una love story tra colleghi.

Quello di McCarthy sembra proprio ciò che si può definire un film con gli attributi (per usare un eufemismo), un thriller senza azione dove i buoni sono coloro che idealisticamente pensano ancora che l'informazione sia il luogo dove si esercita il controllo civile e democratico nei confronti delle istituzioni.
Roy Menarini

Ancora, Il caso Spotlight avrebbe potuto facilmente inserire controparti più positive tra i personaggi che lavorano all'interno e a fianco della Chiesa (per bilanciare la severità dell'accusa e mostrare le parti più sane dell'istituzione) e invece ha scelto di angosciare fino in fondo per la diffusione capillare del sistema di coperture, protezioni e trasferimenti dei preti pedofili da parte di un intero establishment cittadino e nazionale.


Una scena del film Il caso Spotlight di Thomas McCarthy.
Michael Keaton e Mark Ruffalo in una scena del film Il caso Spotlight.
Il team Spotlight al lavoro in una scena del film.
Il giornalismo come cane da guardia

Il tema civico del film è proprio questo: ogni volta che qualche figura importante del "cerchio magico" intorno alla Chiesa propone ai redattori di remare nella stessa direzione, avendo a cuore il bene della città e chiudendo un occhio qua e là, essi gli ricordano che il giornalismo non può e non deve cooperare in alcun modo con i poteri legislativi, elettivi, rappresentativi. Li deve anzi controllare. Deve fungere da "watchdog", cane da guardia, e sottoporre alla comunità il controllo dei fatti. Tutto molto bello, a dirsi, ma assai raro nel quotidiano. E dunque Spotlight, che potrebbe essere considerato un film scomodo per l'Italia a maggioranza cattolica alle prese con il Giubileo, diventa forse ancora più scomodo per il nostro sistema informativo.

Anche il film più lineare nasconde strategie cinematografiche complesse. È quel che distingue un buon film da un cattivo film.
Roy Menarini

Ecco perché possiamo parlare di semplicità solo apparente. A ben vedere, infatti, la tensione ritmica del film non nasce da un impianto trasparente. Anzi, viene costruita attraverso un mix ben calibrato di dialoghi serrati, claustrofobia degli ambienti (la redazione, le abitazioni, gli uffici, gli archivi, tutti in spazi stretti e ansiogeni), uso molto fluido della steadycam e dei piani sequenza a seguire i giornalisti che camminano sempre in fretta, comunicazione chiara delle informazioni destinate allo spettatore - cui si aggiunge lo score incessante ma raffinatissimo di Howard Shore.


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