Vittorio Taviani è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, è nato il 20 settembre 1929 a San Miniato (Italia) ed è morto il 15 aprile 2018 all'età di 88 anni a Roma (Italia).
Avevano appena cominciato a correre cu anni ‘60 e i due fratelli Paolo e Vittorio Taviani, di San Miniato, cittadina tra Firenze e Pisa. invece di fare gli ingegneri o gli avvocati, come volevano in casa, vanno a Roma e si danno al cinema. Girano un documentario, L’italia non è un paese povero (1960), insieme al grande Joris Ivens, poi firmano due film, a sei mani, con Valentino Orsini. Un uomo da bruciare è incentrato sulla figura di Salvatore Carnevale, interpretato da Gian Maria Volonté, sindacalista siciliano in lotta contro la mafia I fuorilegge del matrimonio è una raccolta di sei episodi, anche grotteschi e fantasiosi, sul tema dell’allora impossibile divorzio.
Il mondo cambia. Nel 1964, muore Togliatti. Nel 1967, con i sovversivi, i Taviani raccontano la crisi di quattro militanti, le cui speranze cominciano a incrinarsi. Le sequenze documentarie dei funerali del leader comunista si intrecciano con la finzione: storia e politica sono sempre in agguato nei film dei fratelli.
E allegoria, metafora e apologo sembravano allora gli strumenti giusti per parlare di storia e politica. Sotto il segno dello Scorpione, del 1969, ambientato in un’epoca più mitica che storica, mette l’una contro l’altra due teorie del mondo e due comunità, gli utopisti e i pragmatici. San Michele aveva un gallo, del ivi, con Giulio Brogi, forse il miglior film dei Taviani, sicuramente il più sincero, è il ritratto di un anarchico borghese di fine Ottocento che tenta invano di fare la rivoluzione in un piccolo paese dell’Umbria. Allonsanfàn, del 1974, con Mastroianni e le musiche di Morricone, è storia enfatica e melodrammatica sulla necessità della rivoluzione e sulle velleità dei rivoluzionari.
Padre padrone, del 1972 forse il più ricordato tra i film dei Taviani, vince la Palma d’oro a Cannes, con Rossellini presidente di giuria Tratto dal libro autobiografico di Gavino Ledda, pastore sassarese, è ancora la storia di una rivolta e di una ribellione: contro un padre e contro ogni potere autoritario. Dopo l’impacciato Il prato, i Taviani, nel 1982, tornano alla storia con il favolistico La notte di San Lorenzo. Agosto 1944, il loro paese di San Miniato, il tentativo di sfuggire ai tedeschi e di passare nella zona degli americani, la cronaca e il mito, la Resistenza come guerra civile, i partigiani come eroi omerici con elmi e spade e i fascisti trapassati da cento lance in un campo di biondo grano. Poesia e retorica: tra questi due poli si attesta, pericolosamente, il cinema dei Taviani. Tra il desiderio di alzarsi verso il sublime e la zavorra pesante di un’enfasi che sfugge al controllo.
I film successivi sono sempre meno convincenti, sempre più letterari, sempre più invischiati nell’accademismo: il pirandelliano Kaos, poi il celebrativo Good Morning Babilonia, sugli artigiani toscani nella Hollywood di Griffith (che cantano in maniera perfetta e con nessuna credibilità la Vergine degli angeli, dalla verdiana Forza del destino), il tolstojano e simil-ascetico Il sole anche di notte, quel deludente apologo sull’avidità che è Fiorile, il goethiano e gelido Le affinità elettive, il pirandelliano e scostante Tu ridi (1998), fino al televisivo e ancora tolstojano Resurrezione (in attesa di vedere Luisa Sanfelice, sempre in Tv da Dumas questa volta).
Il cinema dei Taviani è già consegnato alle storie del cinema. Sta là, lungo i ‘60 e i ‘70, quando il fare cinema coincideva spesso con il fare politica. I Taviani hanno accompagnato, passo passo, i militanti di sinistra verso quell’altro paese che l’Italia stava diventando. Hanno sperato che il passato potesse continuare a essere ricordato e riconosciuto, non hanno ben capito come mai le cose siano andate diversamente da come si sperava. A un certo punto, si sono rifugiati nella letteratura, nelle storie di sempre, lontane dal nostro mondo. È un cinema il loro, fino a La notte di San Lorenzo, in qualche modo esemplare, nel bene e nel male, degli sforzi di una sinistra che sperava di poter cambiare le cose senza saper bene come. Poi il buio, dentro il tunnel di tutto il cinema italiano, lungo gli ‘80 e i ’90.
Da Film Tv, 30 novembre 2003
II tema della sconfitta, ma anche la potenza dell'utopia come molla per la modificazione della storia, il continuo intrecciarsi di diverse modalità, strategie e pratiche politiche, non di rado in conflitto tra loro, l'attenzione ai rapporti e alla valenza politica delle vicende individuali, l'alternanza tra varie tipologie di crisi e presenze insopprimibili di impulsi e ideali che non vengono scalfiti da nulla se non dalla morte, sono motivi chiave che i fratelli Taviani riprendono e approfondiscono nel corso della loro carriera. Pur nelle prevalenti differenze la coerenza del loro mondo consente un legittimo accostamento al cinema di Ferreri.
Loro caratteristica infatti, che ad alcuni potrà apparire come un limite, ad altri come un segno di costante evoluzione, è quella di una ricerca che si basa su alcuni presupposti fissi. «Noi siamo per un cinema lineare che si riallacci al filone classico e tenda all'epica» dichiarano negli anni Sessanta. In questo senso Un uomo da bruciare, il loro film d'esordio, realizzato dopo una lunga attività documentaristica, è ancora un film nato sotto il segno del neorealismo. La ricerca formale è rigorosa e la componente naturalistica coabita con suggestioni espressioniste. La seconda opera, I fuorilegge del matrimonio, presenta una serie di casi paradossali di effetti della legislazione sull'indissolubilità del matrimonio ed è una requisitoria civile, paradossale e grottesca, amara e indignata. I sovversivi (1965) si compone di quattro storie ruotanti attorno all'evento emblematico dei funerali di Palmiro Togliatti, risente di influenze plurime e più aggiornate, che vanno dalla lettura dell'Opera aperta di Umberto Eco, alla visione dei film di Alain Resnais e di altri autori della «nouvelle vague» e del cinema di Glauber Rocha.
La dinamica stilistica dei fratelli Taviani, assieme a cui, nei primi film, lavora in stretto rapporto simbiotico, Valentino Orsini, si dimostra capace di assorbire e mescolare più modelli e più referenti, e di adattarli - non sempre con risultati di identico livello - a rappresentare la morfologia molteplice di uno sguardo che continua a ruotare, mantenendo però fisso il proprio orizzonte.
La mutevolezza dei registri, ora realistici, ora simbolici, ora allegorici, ora a sviluppo lineare, ora estremamente frantumati, mostra come per i Taviani sia la materia stessa delle loro storie a imporre e a scegliere la veste più adeguata. Così, tra i referenti potranno coesistere e trovarsi in rapporti di contiguità Brecht e Godard, Chaplin e Tolstoj, Ejzenstejn, Marcuse e il melodramma, lo straniamente e il coinvolgimento. Vi sono anche figure, come quella di Carlo Pisacane, che hanno rappresentato gli ideali di grandi lotte collettive, figure di perdenti spinti da un fuoco missionario a seguire le proprie idee, che li hanno affascinati fin dall'esordio. C'è soprattutto l'intelligenza delle possibilità di mescolare forme di cultura alta e bassa, di far coesistere teatro dei pupi, cinema popolare e tradizione del melodramma. Ai loro occhi il socialismo appare come un sistema dinamico e aperto, capace di tener conto delle ragioni individuali e collettive. Il loro universo è assai disponibile a essere influenzato dal presente e anche da ciò che nel passato si può considerare patrimonio intellettuale e ideale comune. L'attenzione varia dalla psicanalisi alla filosofia esistenzialista alla pittura astratta, dall'impatto con la storia all'uso dell'ironia come modo per trasformare le cose di cui si servono. Ci sono curiose corrispondenze che tengono insieme il primo film e gli ultimi e una costante capacità di rimettersi in gioco, di spingersi verso nuovi orizzonti, di sperimentare nuove strutture narrative e stilistiche. L'interesse per le teorie dell'irrazionalismo, la capacità di emulsionare insieme Mann e Goethe, Verdi, la musica dodecafonica e Jackson Pollock, da alla loro posizione un carattere anomalo dentro alle poetiche del cinema di autori iscrivibili nell'area marxista. L'anima del loro cinema è alimentata dalle passioni e dalla fede... più che dai caratteri storici dell'ideologia e dalle prescrizioni e dai dogmi. Questo caleidoscopio di tendenze e figure, da cui traggono linfa vitale quotidiana, contribuisce a farne delle presenze culturalmente eccezionali nel cinema italiano, al di là dei risultati dei singoli film. Ciò che viene sempre più negato, e quasi raggelato nella sua fissità, è il puro dato dell'esistente, mentre in misura crescente aumenta l'attenzione per il potere dell'immaginario individuale, la capacità di progettare, inseguire modelli utopici, come uniche possibili realtà dinamizzanti.
La ricerca più autentica nel lavoro dei fratelli Taviani e i risultati più notevoli sono rintracciabili sul piano della ricca e continua esplorazione delle diverse modalità di rappresentazione possibile dell'utopia.
La struttura di San Michele aveva un gallo ci conferma, su un piano di estrema produttività, come i due registi - in perfetta simbiosi operativa - intendano procedere creativamente secondo l'esempio picassiano («io non cerco, io trovo»). I materiali e i presupposti culturali e stilistici esistono già e nel momento in cui vengono scelti e adattati alla singola opera se ne vuole verificare la tenuta, la capacità di rifunzionalizzazione.
I Taviani sono inoltre tra i pochi autori del cinema italiano dell'ultimo periodo che sappiano reinterrogarsi sulle forme e sui modi possibili dell'epica nel presente. E non tanto - e non solo - di quella brechtiana, di cui il cinema è stato un erede arrivato assai in ritardo (che ha raccattato ciò che restava in modo spesso approssimativo), quanto piuttosto della ricerca originale di misure, tempi e ritmi adeguati di rappresentazione per le loro storie. La scala della rappresentazione adottata, il rapporto tra i personaggi e l'ambiente, i ritmi dell'azione, il valore emblematico dei gesti e della parola («chi uccide me uccide Cristo», dice il sindacalista Salvatore Carnevale in Un uomo da bruciare; «molti aspettano questo giorno come se dovesse accadere qualcosa di rivelatore» scrive una mano femminile il giorno del funerale di Togliatti nei Sovversivi) appaiono da subito rapportabili a dimensioni epicizzanti.
La delusione storica per la rivoluzione mancata, per i processi di modificazione dei rapporti di potere interrotti tocca i Taviani in misura differente da altri registi. Non c'è in loro né la rabbia né l'urlo e neppure il senso impotente della sconfitta. C'è il bisogno dell'analisi soprattutto.
Verso la metà degli anni Sessanta - a partire dai Sovversivi - essi tentano di realizzare nel cinema quella verifica dei poteri che, in parallelo, con grande tensione, si stava sviluppando nella letteratura grazie agli scritti di Vittorini, Fortini e Asor Rosa. La critica ne prende atto con reazioni quasi unanimemente positive, sottolineando come quest'opera eviti con successo i pericoli del populismo. Nella parte centrale, dove è rappresentata la protesta contadina, I sovversivi, per la scelta delle inquadrature d'insieme, per il ritmo e i tagli di montaggio, fa sentire come ancora assai attiva la lezione di Ejzenstejn. La ricerca formale è, da subito, rigorosa e ben caratterizzata: l'impostazione naturalistica risulta forzata da una sensibile presenza della macchina da presa e dal lavoro sulla luce portato fino al limite estremo della solarizzazione. Giustamente i critici italiani e stranieri confrontano quest'opera prima con Salvatore Giuliano di Rosi, rilevandone punti di contatto e differenze.
Alle prese con una figura di sindacalista, che l'iconografia populista avrebbe tagliato secondo determinati stereotipi, i Taviani «fanno un falò di cartoline e luoghi comuni e offrono della Sicilia un ritratto che mette i brividi nella schiena [...] sul serio questa volta la mafia fa paura; sul serio si comprendono i motivi dell'omertà, sul serio corre il sangue dopo i colpi di una vera lupara».
Il successivo è I fuorilegge del matrimonio, unica opera su commissione di tutta la loro carriera: nonostante la critica riconosca le doti di rigore stilistico, l'esigenza di adeguarsi alla trattazione di un tema fissato da altri crea visibili squilibri interni.
Nei quattro anni che separano il secondo dal terzo film, I sovversivi, avviene il distacco dei Taviani da Orsini. Quest'ultimo sente il bisogno di spingersi più nettamente in un'area di cinema politico e militante, mentre i Taviani devono fare ancora i conti sulle possibilità di rapporto tra ideologia e arte, politica ed estetica.
I sovversivi registra - quasi a caldo, con una tecnica da cinema verìté - le reazioni di quattro militanti comunisti all'indomani della morte di Palmiro Togliatti nel 1964. Si tratta di quattro storie diverse, che manifestano sintomi abbastanza netti non di una crisi collettiva ma di un inquietante malessere individuale, di un pericolo di perdita di identità, che si comincia a manifestare all'interno del movimento operaio. In prospettiva I sovversivi è uno dei film che guarda lontano. Ognuno per conto proprio, i personaggi sentono di voler qualcosa di nuovo, di dover cambiare: la realtà che si apre è incerta e oscura, ma vale la pena di correre il rischio.
Dei due film successivi, Sotto il segno dello scorpione del 1969 e San Michele aveva un gallo del 1971, il primo sceglie la dimensione dell'allegoria, il secondo della metafora: entrambi parlano in trasparenza delle speranze e del riflusso delle ipotesi di trasformazione che «la rivoluzione del 1968» aveva alimentato. Al di là dei riferimenti alla storia contigua, che, col passare del tempo, diventano evanescenti, soprattutto San Michele aveva un gallo è un primo momento d'arrivo del processo stilistico e della ricerca ideologica dei due registi. Le citazioni e i riferimenti - dall'uso del racconto stesso, tratto da Divino e umano di Lev Tolstoj - diventano stile autonomo, e fanno sentire in pieno le possibilità e gli esiti della cultura visiva e cinematografica dei Taviani. Colpisce, fin dai primi film, e si precisa in San Michele aveva un gallo la duttilità della loro macchina da presa e la loro capacità di dominare lo spazio e di osservarne l'uomo al suo interno in una gamma vastissima di misure di scala. Di film in film si rafforza il sodalizio creativo con Roberto Perpignani che non sarà solo l'esecutore delle loro intenzioni narrative ritmiche e prosodiche, ma ne saprà valorizzare le capacità affabulative sia in senso epicizzante, sia per quanto riguarda la narrazione ellittica, il potere significante connesso alle attese, alla proiezioni del desiderio e delle tensioni ideali in spazi ulteriori. Assieme a lui svilupperanno di film in film l'arte del togliere, quella che guidava Michelangelo nell'ultima fase della sua vita, la ricerca dell'essenzialità del significante. Non esiste spazio capace di contenere la grandiosità dei progetti di alcuni loro protagonisti, ma molto spesso i sogni si infrangono contro ostacoli materiali imprevisti o contro un'improvvisa deviazione di marcia degli stessi tuoi compagni di strada.
Allonsanfan del 1974 costituisce un rovesciamento delle prospettive ideologiche e delle speranze, implicite anche nel tipo di lotta e di completa dedizione a determinati ideali, dei protagonisti di San Michele aveva un gallo. In questo film si assiste a una resa, alla constatazione che esistono aspetti, nella fisionomia dei soggetti che partecipano alla lotta di classe, assai fragili, di cui bisogna tener conto. Padre padrone, tratto dal libro omonimo di Cavino Ledda, è un altro punto alto della carriera dei Taviani, in cui la limpidezza della scrittura visiva diventa estrema lucidità del discorso ideologico. Come si è cercato di dire, non sempre questo avviene: l'itinerario è segnato da scarti piuttosto sensibili, che derivano dai dubbi, dalle crisi, dall'esigenza di rinnovamento, dal continuo interrogarsi e voler approfondire e verificare le ipotesi di partenza che i Taviani si impongono come abito di base della loro moralità di autori.
Il loro cinema si interroga anche sui modi e sulle relazioni tra il privato e il politico, sulla priorità degli obiettivi, sulla necessità di adeguare ogni tipo di lotta alle condizioni obiettive della storia. Essi cercano di misurare e tradurre, in termini politici, ogni gesto, ogni forma di protesta, di acccttazione passiva dei poteri costituiti. Anche in questa prospettiva Padre padrone costituisce un esemplare punto di passaggio.
Con ritmi e toni diversi, da Un uomo da bruciare fino al Prato del 1980, i Taviani cantano l'epicedio di molte battaglie perdute, trovando sempre, nell'estrema capacità di metamorfosi dell'utopia, la forza di non chiudere il loro discorso con un riconoscimento di resa definitiva.
Con La notte di San Lorenzo c'è un salto nelle misure di scala narrative: l'io narrante è una madre che racconta la storia al bambino prima che si addormenti (ma la storia è rivissuta attraverso gli occhi di un bambino) creando un'atmosfera sospesa tra realtà e favola. L'intreccio dei piani narrativi fa sì che questo si possa considerare un film storico sul 1943-1945 in Toscana, con il loro particolare fascismo e antifascismo, sia che si possa considerare a pieno titolo un film politico, o anche un poema atemporale. «Credo che sia necessaria alla robustezza interna della narrazione - ha osservato Mario Isnenghi - la doppia polarità tra l'occhio infantile della bambina e la cultura popolare del nonno cantore. La gesta nasce così giovane e antica, straordinaria e regolamentata, soggetta a regole che vengono da lontano e vengono ricalcate dal nonno e ascoltate dalla bambina [...]. Il viaggio, l'epica cavalieresca, il sapere contadino, la memoria folclorica, la comunità paesana, offrono strutture e categorie per vivere, prima, e per ricordare poi, la propria stagione. Il gioco in questo film ha una dimensione speciale [...] ma c'è anche la dimensione tragica: il momento di sintesi dei diversi piani, infatti, è la feroce mattanza contadina che avviene nel luminoso, dorato campo di grano. La più bella situazione paesaggistica possibile e anche la più feroce possibile: è li che vengono a saldarsi il tempo della storia, la Toscana, il fascismo e l'antifascismo, il tempo della favola, l'Iliade, la materializzazione improvvisa dei guerrieri».
Nella Notte di San Lorenzo è determinante la collaborazione con Tonino Guerra che consente di portare la memoria autobiografica di un episodio che coinvolge il vissuto degli stessi registi (in effetti il loro primo documentario del 1954, realizzato con Valentino Orsini, si intitolava proprio San Miniato, luglio 1944), in posizione di canto corale, di collocarla in uno spazio sospeso tra storia e mito.
Kaos del 1986 riunisce alcune novelle di Pirandello non più sotto il segno di un'urgenza ideologica quanto sotto quello del piacere affabulatorio, dell'incanto visivo, della distensione narrativa, della dilatazione dello sguardo e della levità con cui il racconto o la storia passano dalla realtà alla favola, della perdita del bagaglio ideologico. E, più di tutto, della discesa, sotto la guida pirandelliana, a una Sicilia culla e madre di miti e racconti che consentono l'accesso a dimensioni ctonie, a contatti con zone oscure e irrazionali della storia e del mito. «Il titolo - ha scritto Kezich su 'la Repubblica' - è quello del luogo di nascita dello scrittore, ma si riferisce all'umanità, con le sue bizzarrie, il suo vano arrabattarsi, la lontananza, il dolore, la morte, le ferite della storia... la fatalità della ribellione. Siamo di fronte a un film che compie il miracolo di rivelarsi fedelissimo alle sue radici e insieme al linguaggio poetico scelto per raccontarle. Più Pirandello di così non si può, più Taviani di così nemmeno».
Good morning Babilonia, grazie alla forza della piena maturità stilistica ed espressiva dei due autori, è un grande esempio di dissoluzione dell'autobiografia dentro alla storia di una tradizione artigiana secolare a cui il cinema rivendica con orgoglio l'appartenenza. Discendenti dai maestri scalpellini che hanno costruito nel medioevo le grandi cattedrali romaniche e gotiche, i due fratelli toscani che emigrano a Hollywood, a costruire per Griffith le mura dell'episodio babilonese di Intolerance, vedono nel cinema il punto d'arrivo di una cultura e di un'attività millenaria e con il loro lavoro affermano la propria identità nazionale. Solo il cinema è in grado di creare, con la pellicola, le cattedrali del mondo moderno e nel cinema convergono e si fondono! tutti i miti, i sogni e le utopie che la storia si impegna a frantumare e distruggere.
Anche in Sole anche di notte, tratto dal racconto Padre Sergio di Tolstoj, ritorna il motivo ossessivo della missione da compiere, della fedeltà, della disciplina, del rigore, dell'utopia, dei modi per praticare l'ascesi... Sul piano visivo lo sguardo si allarga come nei film di Ford o si concentra come in quelli di Bresson. Per il senso di disciplina, il gusto del narrare, la scelta di un cammino verso l'utopia che non precluda il piacere materiale offerto da ogni momento della vita, i fratelli Taviani appaiono come due maestri zen travestiti da maestri cinematografici occidentali. E anche se nel loro dialogo sempre più stretto e ravvicinato con i classici della letteratura e della musica sembrano far propria la lezione di Tolstoj e il accogliere il senso di religiosità immanente, non si precludono in alcun momento la rivisitazione della visione del mondo stoica ed epicurea, con l'accoglimento di tutti i piaceri che la vita può offrire.
Nell'ultimo quindicennio il loro cinema assume un andamento narrativo sempre più epicizzante, la componente ideologica appare ritrarsi per lasciar posto a quella lirica ed epica. Permane la ricerca del senso del proprio essere nel mondo esplorata attraverso grandi capolavori della letteratura. Dell'amore assoluto e delle sue misteriose alchimie si occupano ne Le affinità elettive, forse la loro opera più mozartiana e più lieve e a cui consegnano la meditazione più intensa sulla brevità della vita e sulla necessità e sul primato dei sentimenti. Nel 1998 i due fratelli realizzano un secondo film tratto dall'opera di Pirandello, Tu ridi, in cui eliminano il primo episodio nel quale il commediografo stesso rievoca, nello stesso giorno in cui gli viene comunicata la notizia del conferimento del premio Nobel, il clamoroso insuccesso della prima romana dei Sei personaggi in cerca d'autore. Una riflessione importante sul carattere effimero del successo e sull'importanza di una «Fede» (con la F maiuscola) capace di guidarti e di farti superare qualsiasi ostacolo tenti di rallentare o impedire il tuo percorso. La necessità di ascoltare la voce della Musa interiore e non lasciarsi fuorviare da nulla rispetto alle mete che ci si prefigge. Questo episodio, ingiustamente e inspiegabilmente soppresso, assume il significato e il valore forte di una vera e propria dichiarazione di poetica e rivela un processo di identificazione importante. Il film appare stilisticamente anacronistico e datato alla critica, ma qualcuno riesce a cogliere una potenza e un'altezza tragica inedita nei due episodi che lo compongono, una vis tragica dovuta a un comune atteggiamento «come allucinato, atterrito dalla propria stessa descrizione d'una dimensione oscura dell'animo umano, d'una sua propensione astratta e fredda alla crudeltà». Nel quinquennio successivo, in maniera assai naturale e senza rinunciare affatto alla propria poetica, ai propri amori letterari, i fratelli Taviani passano alla televisione, realizzando due impegnative riscritture e rivisitazioni di importanti figure femminili: Anna Karenina (2001) e Luisa San Felice (2004). In quest'ultimo film la città è idealizzata in misura non meno intensa della figura della protagonista, come luogo e personaggio. Il passaggio al nuovo mezzo avviene in modo lieve e senza rinunciare né al linguaggio cinematografico, alla possibilità di dare alla narrazione un ampio respiro visivo, né alla volontà e al piacere di vedere attizzare e trasmettere il fuoco libertario e rivoluzionario nella speranza che qualche piccola scintilla possa riuscire a viaggiare attraverso il linguaggio digitale.
Nel 2007 esce La masseria delle allodole, un film prodotto dalla Rai, liberamente tratto dal romanzo omonimo di Antonia Arslan in memoria del genocidio del popolo armeno durante la prima guerra mondiale. Mentre nel romanzo l'autrice, ha il dono straordinario, concesso a poche opere letterarie del secolo scorso di riuscire, di farsi tramite con la sua voce della voce di un intero popolo e grazie ai racconti di famiglia di riuscire a dare forma di racconto epico a una delle più grandi e rimosse tragedie del Novecento, i Taviani fanno proprio il testo, lo adattano alla loro poetica e in qualche modo ne eseguono dei motivi che più consentono loro di riconoscere concordanze tra quella storia così lontana e al tempo stesso così simile alle stragi che quotidianamente si compiono nel mondo. Nel passaggio dal romanzo al film c'è come uno spostamento di ottiche e di prospettiva che consente ai Taviani di far rientrare l'opera nel proprio orizzonte poetico e di imprimere al senso di ciò che viene raccontato anche un valore metaforico che consente, come bene ha scritto Kezich di «mettere a nudo il cuore nero della natura umana». Dall'utopia delle loro prime opere si giunge in queste ultime alla messa in scena di vicende esemplari in cui accanto alla rappresentazione della sopraffazione e della violenza, continua a vivere la fiducia nella possibilità di immaginare mondi possibili in cui l'amore declinato in tutte le sue forme abbia pieno diritto di cittadinanza e sia misura dei rapporti umani 4 in cui la pietas possa nascere dalla visione non addolcita o camuffata del massimo di atrocità commesse dall'uomo su altri esseri indifesi e deboli.
Anche se la sua fisionomia d'autore non è tale da farlo collocare nel gruppetto di punta degli esordienti, ci sembra giusto parlare, a questo punto, di Valentino Orsini, perché la sua storia fa corpo con quella dei fratelli Taviani fino al 1966: il loro è un rapporto trinitario, nel senso che sono tre persone eguali e distinte di cui si constata sempre l'unità dell'opera ma riesce difficile distinguere i ruoli individuali. In lui, comunque, prima vengono il senso e l'ideologia e poi in subordine le scelte stilistiche. Retroattivamente la sua presenza si avverte nel cinema dei Taviani. Il suo primo film autonomo è I dannati della terra del 1969, subito accolto con buoni consensi di critica. «I dannati della terra - ha scritto Adelio Ferrero - è finalmente [...] l'unico film italiano di questi anni e non soltanto di questi, in cui il discorso politico non appare posticcio, periferico o interlineare, ma costituisce la dimensione centrale dell'opera».
Opera politica fortemente coinvolta sul piano autobiografico, il film comunica, in senso molto diretto, la necessità di praticare una strada della violenza rivoluzionaria per opporsi alla violenza imperialista e denuncia la difficoltà dell'intellettuale di tradurre in azione la propria tensione. Assai sintomatica di un malessere che trascende la persona dell'autore, l'opera, pur spostando il centro dell'attenzione sulla realtà del terzo mondo, parla della situazione italiana, registra e rivela sintomi di violenza destinati a trovare piena cittadinanza e legittimazione teorica nella realtà italiana degli anni Settanta.
Sul piano del «genere», questa è una delle poche opere a non essere accusata di opportunismo e di fiancheggiamento strategico della politica delle sinistre.
Orsini rimane fedele alla propria tensione stilistica e ideologica anche quando gira Corbari, un lungometraggio d'argomento resistenziale, realizzato con notevole spiegamento di mezzi e l'intenzione di raggiungere il pubblico popolare. «Corbari - osserva Micciche - ha un inizio lento e anche linguisticamente alquanto piatto [...] ma dopo assume un ritmo più incalzante ed enuncia uno stile più definito. E un paio di sequenze di grande livello e intensa commozione attestano che Orsini non è soltanto l'ascetico e rigoroso ideologo dei Dannati della terra, ma sa anche costruire un affascinante cinema del coinvolgimento, emotivamente assai teso».
Sul piano ideologico Orsini valorizza l'idea di un potenziale rivoluzionario che si incarna nel protagonista e lo pone spesso in contrasto coi rappresentanti delle forze organizzate della Resistenza.
In L'amante dell'Orsa Maggiore (1971) l'attenzione si sposta su un terreno in cui non vi sono più ideali di lotta ma si osserva la nascita - per aggregazione spontanea - di forme di protesta, che sfuggono a una matrice ideologica precisa e si avventurano nel sociale, inventando continue e diverse strategie di guerriglia. L'amante dell'Orsa Maggiore è il film più inquietante di Valentino Orsini: parla di eventi appena lasciati alle spalle, in realtà auscultando il presente. Con questo film il regista effettua la puntata più alta e rischiosa (perché al buio) sul gioco politico, in un momento in cui sembra che le carte ideologiche si stiano distribuendo in modo assai diverso.
Meno significativa, in questo senso, la trascrizione di Uomini e no di Vittorini, che si può leggere come uno dei tanti esempi epigonici di letteratura cinematografica resistenziale. Questa è la lettura più corretta, anche se ideologicamente riduttiva e restrittiva. In una situazione in cui il volto coevo del terrorismo presenta ben pochi rapporti o analogie ideali, ideologiche e di classe con la lotta partigiana, è meglio pensare che ogni riferimento a fatti o persone vissute o viventi sia da ritenersi assolutamente casuale.
Coraggioso e forse più significativo per poter riconoscere e ridefinire la sua personale cifra stilistica d'autore è Figlio mio infinitamente caro, in cui si esplorano, sullo sfondo di grandi temi centrali per la vita e la storia del ventennio Sessanta-Ottanta, i traumi e gli sforzi per ricomporre i legami e i fili di un tessuto familiare e sociale lacerato da tutte le parti.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
Coppia inseparabile, di formazione marxista, di provenienza borghese (il padre è avvocato), entra nel cinema dalla porta del cortometraggio, dove ferve nel dopoguerra una grande attività. I primi due film - Un uomo da bruciare (1962), storia d'impianto schematico imperniata su ritmi che ricordano rituali popolari, e I fuorilegge del matrimonio (1964), pamphlet in alcuni episodi per patrocinare la causa del divorzio-si avvalgono della collaborazione di Valentina Orsini. Poi, i due sembrano procedere incerti fra impegno direttamente politico (I sovversivi, 1967) e raffinate divagazioni favolistiche (Sotto il segno dello Scorpione, 1969). Si tratta di trovare un equilibrio, difficile perché la pressione ideologica è sempre così forte da appesantire il racconto.
Un primo risultato positivo lo ottengono con San Michele aveva un gallo (1971), le utopiche aspirazioni di rivoluzionari risorgimentali avvolte in un clima di fiaba gentile, scandite da quel ricorso alla ritualità (ritmi secchi, gesti ripetuti, passi di danza) che a loro riesce bene. Allonsanfàn (1974), racconto di un'altra utopia su cadenze melodrammatiche, risente troppo del progetto astratto. Sarà Padre padrone (1977), vincitore della Palma d'oro a Cannes, che si fonderà su un vero equilibrio fra metafora, tensione ideologica, rito e utopia: un pastore sardo ricostruisce la sua lotta contro i costumi tradizionali, il potere familiare e i pregiudizi d'una cultura arretrata. Il sospetto della freddezza rimane: questo è il nodo da sciogliere e i due lo sciolgono con incantevole sicurezza nella fiaba La notte di San Lorenzo (1982), ricordo della guerra e della lotta partigiana in Toscana vissuto attraverso lo sguardo di una bambina. Assai meno ci riescono con Good Morning Babilonia (1987).
Incerto e velleitario, Il sole anche di notte (1990), da un racconto di Tolstoj (figura-faro per la coppia), non rende giustizia alla spasmodica ricerca di Dio nella quale è immerso il protagonista. Inerte e quasi sempre irrisolta l'ambiziosa saga familiare di Fiorile (1993), a dimostrazione dell'arduo, ed emozionante, cammino dei due registi.>
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995