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Rassegna stampa di Jerry Lewis

Jerry Lewis (Joseph Jerome Levitch) è un attore statunitense, regista, produttore, sceneggiatore, è nato il 16 marzo 1926 a Newark, New Jersey (USA) ed è morto il 20 agosto 2017 all'età di 91 anni a Las Vegas, Nevada (USA).

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Figlio di un attore e di una cantante, si affermò dopo l'ultima guerra come il miglior attor comico di Hollywood, più di Danny Kaye, che rimase soprattutto un fantasista legato agli schemi del teatro di varietà. Una costante nella recitazione e nei personaggi di Lewis è la frustrazione nevrotica, sia che egli interpreti, come nei primi anni della carriera, il personaggio di figlio di miliardari, sia, in seguito ch'egli rivesta i panni dei più svariati mestieri: commesso, garzone di parrucchiere, caddy al campo di golf, infermiere ecc. In Lewis si esprime e si scarica l'americano complessato, ossessionato dalla madre, dall'autorità, dalla donna, da una larvata omosessualità, in ogni caso da un'immaturità che, in apparenza, si manifesta in comportamenti idioti o anche maniaci e in movimenti inconsulti o anche isterici, ma in sostanza racchiude e difende le doti più spontanee dell'individuo, la sua notevole comprensione per l'incomprensione del prossimo, e non di rado una vera e propria capacità di esercizio critico, diretto o indiretto, sui costumi e sulla società del suo tempo. Lewis lavorò soltanto come attore, e in coppia fissa con l'attore cantante Dean Martin, fino al 1957. In seguito lavorò per conto proprio, sovente come regista dei suoi film.

MANOHLA DARGIS
The New York Times

THE braying id of the American movie screen, Jerry Lewis has been making people laugh and squirm for most of his life. These days this underloved genius of modern cinema — a box-office giant and critical punching bag, a fetish figure for French cinephiles and enduring bewilderment for middlebrow tastemakers of all provenances — remains better known for his annual television fund-raisers, along with his off-color slurs about women and gay men, than for the more than 50 movies he’s made during his improbable career as a star, writer, director, producer and technical innovator. Ladies and germs, here’s to Jerry Lewis, seriously.
On Sunday the Academy of Motion Pictures Arts and Sciences will try to make up for decades of neglect by giving Mr. Lewis the Jean Hersholt Humanitarian Award. Officially, this Oscar is doled out to those whose “humanitarian efforts have brought credit to the industry.” Unofficially, this award, like the honorary Oscar, can sometimes be a consolation prize for fading heavyweights who have never won in the regular race. Paul Newman was a six-time loser for best actor when he was given an honorary Oscar in 1986. He didn’t bother to pick his up (and won best actor the next year, for “The Color of Money”). It’s hard to imagine Mr. Lewis, who has never been nominated, giving the academy the brushoff. He needs the applause too much.
You can hear that need in every convulsive laugh and see it in a smile that stretches across his face like an abyss. Comedy is an art of desperation, feeding on the laughter and love of the audience, and few screen comics have worn that hunger more openly than Mr. Lewis has. To watch one of his early romps, including those with his longtime partner, Dean Martin, is to witness not just the pathos of that need, but also its horror. When Jerry Lewis laughs, his rubber-band lips widen across his cheeks, creating an enormous hole, a cavern of dark. It’s as if he were simultaneously splitting himself open for our delectation and trying to swallow us whole, maybe both.

MAURO GERVASINI
Film TV

In Ragazzo tuttofare (1960) Jerry Lewis è il fattorino di un albergo. Credendo di fargli uno scherzo, i colleghi gli chiedono di mettere in ordine la sala dei convegni - grande quanto uno stadio! - Il più velocemente possibile. Nella sala ci sono centinaia di sedie accatastate. Lewis entra, gli amici ridono, poi riaprono la porta e tutto è perfettamente in ordine, con le sedie belle allineate. Se il cinema comico ha sempre avuto a che fare con la metafisica, quello che vede Jerry protagonista va oltre, coniuga la sfera dell'assurdo con quella del credibile. Della serie: è impossibile che un uomo solo, in così poco tempo, riordirni il salone; ma diventa plausibile se quell'uomo è un comico, un fool, un picchiatello, un Roi du Crazy. Da Chaplin a Keaton, da Stanlio a Ollio, da Tati a Totò, tutti i grandi comici hanno a che fare con il tragico, la sofferenza, la consapevolezza del drammatico. Qualora manchi questa consapevolezza, come nel caso di Clouseau, subentra l'idiozia, quindi l'obnubilazione. Jerry Lewis è l'unico “mago” del gruppo, il solo che possa fare accadere le cose per il solo fatto di essere se stesso, vale a dire un corpo comico. Tutte le cose. Ad esempio: Jeny non è solo un pasticcione, un catastrofista, il catalizzatore di un caos che e più negli altri che in lui: è anche un seduttore. Piace a donne bellissime. Che abbia subito la benefica influenza dello storico partner, Dean Martin? Può essere, ma non solo. La grandezza della coppia - che per una decina d'anni, dall'immediato dopoguerra al 1956, ha strabiliato gli americani come nessun altro nello showbusiness dell'epoca – è anche se non soprattutto nell'inesistenza della “spalla”. Anzi, Martin è andato in crisi appena ha avuto il sentore di essere “secondo” al compagno, pur rimanendogli, tra alti e bassi, fraterno amico per tutta la vita. Lewis a quel punto ha saputo elaborare a livello di performance anche l'assenza del socio: cantando (malino, ma un suo disco, Jerry Lewis Just Sings, ebbe un enorme successo commerciale), ballando (secondo Sammy Davis Jr. aveva un grande talento non del tutto espresso) e appunto seducendo. Fino a sdoppiarsi, in quello che è forse il suo capolavoro: Le folli notti del dottor Jerryll. Dove il mister Hyde della situazione, il fascinoso Buddy Love, finisce per sembrare Dean, ma non una caricatura o una facile parodia, quanto un alter ego in fondo necessario. Per dire che Jerry Lewis è stato per il cinema americano, e non solo, un vero entertainer, a differenza di altri colleghi che erano magari “autori”, raffinati registi, filosofi della comicità applicata alla realtà, ma davanti al pubblico infoiato di un casinò di Las Vegas non avrebbero saputo che fare. A noi italiani, che pure lo abbiamo molto amato (Lewis, premiato con il Leone alla carriera alla 56esima edizione della Mostra di Venezia, adora il soprannome “picchiatello” e lo fa inserire in tutte le biofilmografie) sfugge la sua importanza nel mondo dello spettacolo americano. Punto di contatto tra screwball e slapstick, Jerry in palcoscenico ha di fatto inventato lo “stand up comedian”, il comico di parola che esce su un palco e ti fa ridere con le peggiori banalità, perché quel che conta è come le dice. Proprio lui che era l'emblema del performer “fisico”: snodabile e per questo adattabile ai contorcimenti del mondo. E ci sfugge quanto insieme a Dean Martin abbia inciso su un composito immaginario come quello americano di allora. L'ebreo ingenuo e infantile e l'italiano passionale e guascone alla conquista di Hollywood, della Mecca dei Sogni, con nient'altro se non il talento personale, il “merito” di saper cantare come nessuno una canzone o far ridere a crepapelle solo chiedendo un bicchiere di soda al bar. Jerry Lewis è stato anche altro. Per esempio un serio candidato al Nobel per il suo impegno cinquantenario nella lotta alla distrofia muscolare, per far capire a tutti come quella magia che lo portava a fare del proprio corpo un film nel film, un miracolo di geometria, a qualcuno era preclusa per un tragico scherzo del destino

GIULIA D'AGNOLO VALLAN
Lo Specchio

A 82 anni il «re della commedia» appena premiato con Oscar per meriti umanitari. È più in forma che mai e sprizza intelligenza da tutti i pori.
Un orologio di plastica (con sopra disegnata la sua faccia) e il ricordo dell'incredibile corsa in ottovolante che sono stati i quattro giorni passati con lui è quello che mi rimane di Jerry Lewis. Era il 1999 e stavo organizzando il suo Leone alla carriera per la Mostra di Venezia. Da San Diego, dove è ancorata la sua barca, alle acque piatte della laguna (dove arrivò come uno tsunami), l'ho visto ridere, commuoversi, arrabbiarsi, stancarsi fino allo sfinimento, distribuire milioni in mance allo staff del Danieli, brutalizzare fino alle lacrime una regista tv, smontare e reinventare uno sketch comico in un istante, dare lezioni di professionalità a tutti. E, soprattutto, accendersi e spegnersi come una lampadina secondo che fosse visibile o nascosto al pubblico. Organizzato dal Museum of the Moving Image, il tête-à-tête del 22 novembre scorso tra il grande «mostro» della comicità Usa (anche, secondo Dave Kehr del New York Times, «uno dei massimi registi americani viventi ») e Peter Bogdanovich, autore dell'Ultimo spettacolo, noto storiografo della Hollywood classica, amico di Jerry da quarant'anni, si annunciava irresistibile. Com'era facile prevedere, Bogdanovich ci ha quasi lasciato le penne (le domande che si era preparato se l'è dovute ricacciare subito in tasca). Ecco, invece, un distillato di Lewis.

News

Il comico si è spento ieri a Las Vegas. Aveva 91 anni.
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