Sergio Rubini è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, è nato il 21 dicembre 1959 a Bari (Italia). Sergio Rubini ha oggi 64 anni ed è del segno zodiacale Sagittario.
Si racconta che un tempo Dario Argento dicesse di lui: “Ma come avrà fatto mia figlia a stare con un uomo così brutto?”. E in effetti, camicia giallo sparato, bracciali, look zotico, nei panni di Toni Catapano (protagonista con Luigi Lo Cascio di Mio cognato diretto da Alessandro Piva) Sergio Rubini sembra confermare le parole del suo quasi (dell’ex) suocero. Eppure, questo uomo di mezza età venuto dalla Puglia (Grumo Appula, Bari) e scoperto al cinema da Federico Fellini, che gli fece interpretare il proprio alter ego giovane nell’Intervista (1987), dell’aspetto fisico è riuscito a fare uno strumento seduttivo. In Mio cognato, dove aleggia il ricordo del Sorpasso con tragica esplosione finale, parte con il congiunto alla ricerca dell’auto rubata. E Lo Cascio si ritrova affascinato dal cognato vanitoso e cafone, memore alla lontana di Vittorio Gassman. Nel frattempo, la carriera di Sergio procede sui binari uni e (ru)bini che coltiva dal 1990, da quando cioè decise che il cinema non l’avrebbe fatto solo davanti, ma anche dietro la cinepresa. In questi giorni sta dirigendo Fabrizio Bentivoglio nell’ Amore ritorna: la rinascita di un attore che, scopertosi malato, parte alla ricerca delle radici e di ciò che - spenti i riflettori dello spettacolo - più conta nella vita. Nella storia si sospetta un pizzico di autobiografia: non a caso, la moglie del film è Margherita Buy, con cui Rubini è stato realmente sposato e che ha diretto nella Stazione (1990). Ma sugli incroci fra verità e finzione l’attore regista glissa, dice che “tutti i film c’entrano con me” e che la sua personale rinascita è stata quando, arrivato diciottenne a Roma, “ho dovuto disimparare il mio dialetto e ho sposato il mondo dello spettacolo come mettendo una giacca”. Una giacca che non si è più tolto, ma che ha più volte rivoltato, passando dal Tornatore di Una pura formalità al Salvatores di Nirvana e Amnèsia, al Placido Del perduto amore. E adattato anche alla classicità, partecipando alla Passione di Mel Gibson.
Da Vanity Fair, 23 ottobre 2003
«Silvio Berlusconi deve stare attento, penso che in lui sopravviva un’unica ingenuità. Si fida troppo dell’entusiasmo degli italiani, del loro presunto amore per lui. Il cavaliere rappresentava il nuovo, la speranza, la soluzione di tutti i problemi. Se fosse stato più cauto, il suo successo meno straripante, se qualcuno avesse limitato il suo potere, oggi lui sarebbe più felice e il Paese sarebbe più sano. Ricordo le monetine lanciate a Bettino Craxi, quella giornata non posso dimenticarla, c’ero, abitavo da quelle parti, dietro piazza Navona. Fu una cosa orrenda anche per chi, come me, non ha mai simpatizzato per quel tipo di socialismo. Attenzione: gli italiani sono traditori, c’è sempre un piazzale Loreto dietro l’angolo, per chi si mette troppo in mostra. Vincono, invece, quelli che stanno dietro le quinte, quelli che hanno la forza e la capacità di stare – ogni tanto – un po’ nell’ombra. Enrico Cuccia, Gianni Agnelli, Giulio Andreotti: tre esempi di vero potere, quello che non va esibito e non si nutre delle manifestazioni emotive della massa. Ho conosciuto il Berlusconi produttore cinematografico, tanti anni fa, in casa di Vittorio Cecchi Gori, c’erano anche Diego Abatantuono, Gabriele Salvatores e tanti altri. Come rideva alle battute di Roberto Benigni, scherzarono insieme tutta la sera...»
Sergio Rubini ha quarantasei anni, è stato il giovane attore-regista rivelazione del nuovo cinema italiano. Ha avuto un grande successo con il suo ultimo film, La terra, storia di un personaggio che si è formato al Nord e torna al Sud per vendere un terreno di famiglia ma viene coinvolto in un’indagine. Ha scritto con Domenico Starnone e Angelo Pasquini una sceneggiatura su Giacomo Leopardi, «ma la Rai, che l’ha comprata, esita a metterla in produzione. Eppure, la storia del poeta è popolare e amata. Sai, ogni tanto, nelle riunioni, qualcuno dei dirigenti chiede: “Ma quando fa l’amore, sto Leopardi?”. E noi rispondiamo: “Lo fa, lo fa... ».
Arrivato a Roma nel 1978 da un piccolo paese della Puglia, si iscrive subito all’Accademia di arte drammatica, «dove insegnava quel grande raccontatore che è Andrea Camilleri. Ho preso lezioni di regia da lui, allora c’era chi lo considerava soltanto un opaco ex regista Rai a riposo, e le sue passioni erano tutte per noi». Il colpo di fortuna del giovane e smilzo ragazzino pugliese arriva, dopo i passaggi inevitabili fra pensioncine alla stazione e parenti ospitali, con un incontro. Sulla sua strada c’è, ad aspettarlo, Federico Fellini (e Fellini mi spiegò che quel ragazzino lo colpì moltissimo, si ritrovava in lui, non pensava affatto che il loro incontro fosse casuale). Ne parliamo in un bar a pochi metri da piazza del Popolo. Ordiniamo una doppia camomilla e ci portano anche i pasticcini. «Avevo ventun’anni, lui stava mettendo su il cast per La nave va, mi presentai a Cinecittà con il solito album sottobraccio. Mi disse subito: “Complimenti, lei somiglia alle sue fotografie. Di solito, gli attori sono sempre diversi dalle immagini ritoccate. Prima o poi, io e lei lavoreremo insieme . Quattro anni dopo, mi chiamò. Diventammo amici. Andavamo a mangiare ai Castelli, alla trattoria del Fico, o ci vedevamo a casa sua in via Margutta. Un’amicizia che condividevo con la mia ex moglie, Margherita Buy. Facevamo lunghi giri in auto, me gli piaceva, Federico si sentiva rassicurato dalla guida di Margherita».
La nostalgia per il grande amico-maestro si sfuma nei racconti. «Aveva sofferto, nel dopoguerra, per la diffidenza e l’ostilità che la sinistra dimostrava verso di lui. Mi diceva: “Soltanto dopo La dolce vita, l’élite comunista mi ha accettato, forse perché ero andato contro i preti”. Non sopportavano che lui evitasse di raccontare storie reali. È stato Fellini a scardinare il neorealismo, era incuriosito e preoccupato di tutto quello che non si vede, anche quando usava le storie della povera gente lo faceva per svelare i suoi sogni, i suoi incubi.» Fellini, secondo Rubini, «aveva un solo leader in cui si riconosceva: Giovanni Spadolini. Negli ultimissimi anni, apprezzava anche Antonio Di Pietro e le sue inchieste giudiziarie. Certamente, detestava Silvio Berlusconi, e non soltanto per le interruzioni pubblicitarie nei film contro cui si batteva insieme a Walter Veltroni. Lo contrastò come sapeva fare lui, con il cinema, con quel capolavoro assoluto che è Ginger e Fred, il più feroce atto d’accusa contro il degrado imposto dalla tv commerciale. Il suo era un cinema molto politico: era un padre della nostra cultura. Se fosse ancora vivo, avrebbe ridicolizzato tanti atteggiamenti, tante cose brutte non sarebbero accadute». Sergio Rubini si riconosce nella politica di Fausto Bertinotti, «la sua intransigenza mi rappresenta. Non si può smussare tutto. Non ci sto a dipingere come dei clown, dei pagliacci, i manifestanti per la pace. Sono un pacifista e non mi sento un essere inferiore, così come non credo che si debbano emarginare i no-global, i ragazzi dei centri sociali, tutti quelli che non entrano nei salotti trasversali tanto di moda oggi. Ecco, io la trasversalità la disprezzo. Se vai di sera in una casa di quelle radical chic, scopri che nessuno va a votare da dieci anni: la gente di potere non vota, non si schiera, si sentono trasgressivi se frequentano chiunque, in modo da poter somigliare di più al potente che verrà dopo le prossime elezioni. È un ragionamento sottile e pericoloso, molto simile a quello di Adriano Celentano: fa l’ecologista, dice che non sa se voterà di qua o di là, finge di essere contro». E invece al regista piace la nettezza. Avrebbe urlato anche lui, con Nanni Moretti, contro la prudenza dei capi dell’Unione, quella sera in piazza Navona: «Aveva ragione Nanni, ma io urlerei più spesso. Una bella scossa settimanale, ci vorrebbe. Nella cultura, invece di quel bel ghetto d’élite che ospita e protegge i soliti noti, dovremmo aprire le porte a tutti i giovani, essere più forti, più contro il sistema. E invece, mi ci metto anche io, scegliamo di fare cinema sentimentale, leggero, un cinema che somiglia troppo alla tv».
Rubini viene da una famiglia di ferrovieri, «mio padre Alberto, un socialista di quelli veri, quelli che sono poi approdati al Pci di Enrico Berlinguer, era figlio di un emigrante. Mio nonno arrivò negli Stati Uniti nel 1908, un anno prima di Nicola Sacco, il personaggio che interpreto nella fiction Sacco e Vanzetti. Era un ragazzino. Vendeva il ghiaccio per strada, fece una piccola fortuna e l’ha persa tutta nel 1929, con la grande crisi. I ragazzi italiani che arrivavano in America per fare fortuna venivano considerati da tanti, come oggi i nostri immigrati, “i nuovi barbari”, bestie da tenere in quarantena. È una storia parallela alla nostra: noi allora salpavamo sulle navi alla ricerca del sogno, della democrazia, dei dollari. Loro, oggi, pensano di salire sulle carrette del mare perché hanno visto che regaliamo decine di migliaia di euro ai concorrenti ignoranti dei nostri quiz televisivi. Pensano che siamo il Paese dei sogni, della democrazia. E noi li richiudiamo come cani nei nostri piccoli o grandi campi di concentramento, oppure li cacciamo via. Ho trovato la storia di mio nonno – grazie a Internet – mentre mi documentavo per girare Sacco e Vanzetti. È impressionante vedere come l’America sia stata, per loro, un miraggio. E come, invece, molti di loro incontrarono un odio e un razzismo che somiglia a quello di tanti politici di oggi, eletti nel nostro Parlamento». Il pomeriggio romano si avvia al tramonto, i pasticcini sono rimasti lì. Rubini va in Vespa verso la sua nuova casa, «ancora piena di scatoloni». È le strade amate dal meraviglioso Fellini si affollano di persone ogni sera nuove. Eppure, sembrano sempre uguali
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006